Elle
Non sono pacata quanto Tholin. Né rassegnata con Raftal. O muta come Deneb. La voce di Kerberos poco prima mi ha riempito di soggezione, prosciugandomi di energie mentre un crampo di terrore attanagliava le mie viscere: un potere enorme, sintetizzato in quel lampo di luce e nei gesti dei consiglieri. L'accusa invece mi ha ricaricata, e riempita del tumulto dei sentimenti: rabbia, tradimento, oltraggio, incredulità. Fisso l'uomo la cui voce ci condanna senza replica, il cui potere ha spaventato tutti nella sala, soprattutto i suoi stessi stretti collaboratori, come se sapessero esattamente del pericolo cui, con ignorante baldanza, noi pesci piccoli facevamo i conti. Di nuovo, sento pesante il sentimento di tradimento. Mi ha tradito. Un uomo con tutto quel potere non si degna di scendere dal trono e combattere fianco a fianco ai suoi uomini adesso che sono in pericolo penso in maniera poco onesta, prima che una voce corregga il tiro Dei e tiranni comandano con la paura. Gli altri lo fanno col rispetto che si son guadagnati. Quand'è stata l'ultima volta che la spada è stata sguainata per combattere, e non per giudicare? Ci rimugino sopra in una frazione di secondo, raggiungendo anch'io un verdetto: vecchio. Lui e il suo consiglio. Guarda il dito e non vede la montagna. Ha condannato il gesto, incurante delle motivazioni, la forma e non il risultato. Le buone azioni non rimangono mai impunite, sciocca. Così impari ad aiutare due evasi. Mi risparmio un Fottitx come replica, è inutile litigare con me stessa. Mi brucia la lingua dalla voglia di replicare, e non so per quanto riuscirò a trattenermi. Né quanto una replica possa peggiorare le cose. Cosa vuoi che succeda, peggio di così? Crepare? Al diavolo. Già, al diavolo. Non mi hanno insegnato a star zitta se vengo trattata ingiustamente. Lo sguardo deciso, a malapena mi accorgo di cosa mi succede attorno; arriva ovattato il suono della voce di Naesala che mi esorta ad andare; remoto il suo tocco sulla spalla. Ma non demordo. Non alzo la voce, non ne sono in grado, quegli occhi imperiosi mi hanno privato della forza per urlare. Ma non del fiato, né del coraggio. Lo fisso, certa che possa sentirmi, magari con orecchie non sue, ma può. A denti stretti, esalo L'autorità è vostra. Articoli quattro e dieci, il Gran Maestro ha poteri giudiziari ed esecutivi illimitati e incontestabili Ma non c'è stata slealtà. Né vedo come possa essere oltraggioso il mio corpo o l'impedire uno spargimento di sangue. Posso presentare le mie ragioni, anche se rimarranno inascoltate; né tanto meno ignoro che nel suo beneamato statuto ci sia scritto cosa sia scorretto oppure no: non solo giudice e boia, si arroga il diritto di essere anche avvocato difensore e giuria, un'apoteosi di megalomania. Forse l'immortalità e il potere accumulato gli hanno dato alla testa, facendogli dimenticare cosa significa vivere ogni giorno come fosse l'ultimo; cosa significhi essere mortale, cioè fallibile. Mi volto e a capo eretto e spalle larghe, marcio fuori dalla sala, la mente ancora in subbuglio. Non voglio compagnia. Né commiserazione o biasimo. Voglio il mare. Voglio quella forza che ignora le inezie umane. Che annacquerà il senso di colpa, quando arriverà. Che punirà la mia arroganza, quando attraverserò la linea. Che mi difenderà quando sarò nel giusto.