@TheBaddus Scarlett Bloomblight- sottoterra Inizi a scendere lungo la scalinata con passo incerto, le dita serrate attorno al coltellino fino quasi a farti male. Ogni gradino è un tuffo più giù, nella terra e nell’oscurità… e a ogni passo il freddo diventa più intenso, pungente, quasi vivo. L’odore di umido e marciume ti avvolge come un manto pesante che ti si appiccica addosso, entrando nelle narici e graffiandoti la gola. Il battito del tuo cuore è un tamburo impazzito: bum bum — bum bum — bum bum. L’unico suono in questo silenzio sepolcrale. Perdi il conto dei gradini — potrebbero essere cinquanta, potrebbero essere cento — e la luce pallida del giorno alle tue spalle è ormai solo un ricordo sfumato, lontano, irraggiungibile. Gli occhi cercano disperatamente di adattarsi al buio, ma l’oscurità qui sotto è troppo spessa, troppo assoluta. Tanto che quasi inciampi quando il terreno cambia all’improvviso: nient’altro gradini. Il corridoio prosegue in piano. Deglutisci, voltandoti un istante. L’ingresso dell’arcata è ormai solo un varco sospeso nel nulla, lassù, sempre più lontano… È allora che la voce nella tua testa sussurra di nuovo: «AVANTI… Noi… Siamo fiere…» Ma non è come prima. Non è decisa, non è infallibile. Trema. O sei semplicemente tu ad esitare? E insieme a quel sussurro senti un’altra ondata… un fremito di euforia, caldo, estraneo, che ti percorre la spina dorsale senza permesso. Avanzi a tentoni nel corridoio, le mani sui muri di pietra fredda. L’oscurità è così totale da strapparti via ogni punto di riferimento, costringendoti infine ad attivare la torcia del telefono. La luce è debole, pallida, illumina appena un paio di metri davanti a te… ma è sufficiente a non cadere. Continui così, lenta, con il cuore bloccato in gola e il fiato corto, come se l’aria stessa lottasse per restare nei tuoi polmoni. Poi — una vibrazione improvvisa nello stomaco — là davanti, più in fondo, compare una luce tremolante. Una fiamma. Spegnere la torcia del telefono è un riflesso immediato, quasi animale. La penombra ti riavvolge, ma i tuoi occhi adesso vedono quel barlume dorato, lontano, instabile. Avanzi in punta di piedi, ogni passo il più furtivo possibile… se la Creatura dal teschio di cervo è nella sua “casa” almeno non ti sentirà arrivare. Giunta sulla soglia, ti blocchi. Davanti a te si apre una stanza circolare di circa dieci metri di diametro, scavata nella pietra viva. Le pareti e il pavimento sono composti da blocchi antichi, lisciati dal tempo e consumati dall’umidità. Su alcune colonne sono appese torce di ferro battuto, le cui fiamme tremolanti proiettano bagliori caldi e instabili, facendo danzare le ombre come presenze vive. A terra, sparse ovunque, ci sono candele nere: alcune integre, altre ridotte a moncherini, con la cera scura rappresa sul pavimento come lacrime congelate. Sulla sinistra, uno scaffale colmo di volumi antichi, coperti da uno spesso strato di polvere. Sulla destra, una strana arcata murata: sembra una porta… una porta che qualcuno ha sigillato. E sopra l’arcata, inciso nella pietra, un simbolo familiare: una mezzaluna, e sotto una croce lunga. Il simbolo che porti inciso sulla pelle del collo. Di fronte a te, dall’altro lato della sala, una porta di legno rinforzata da sbarre di ferro. E lì al centro, come un altare sacrificale, un tavolo di pietra. Sopra, a petto nudo, giace Tanaka. Legato mani e piedi. Immobilizzato. Svenuto. Indifeso. Il tuo respiro si spezza. Il coltellino trema tra le tue dita. E l’euforia — quella strana, inspiegabile euforia — diventa un urlo silenzioso nel petto. Un urlo che cresce e ti fa avvertire un’improvvisa, quanto inappropriata, ondata di lussuria che ti risale lungo l’interno coscia, sino all’inguine. @Ghal Maraz Nathan Clark - in palestra Prima di entrare in palestra e mettere via il telefono, fai appena in tempo a leggere la risposta di Kathlyn. Una notifica rapida, essenziale… eppure carica di un peso che senti subito nello stomaco. “Spero tu stia bene… più tardi ci vediamo in mensa?” Quando raggiungi il coach Moss, vieni passato al setaccio da uno sguardo che pare misurarti più che giudicarti. I suoi occhi scendono prima al livido evidente sulla tua gamba — impossibile da nascondere ora che hai i pantaloncini — poi risalgono al segno sul tuo volto. «Cos’è successo, Clark?» La sua voce è ferma, tagliente. Non un rimprovero, non ancora, ma un chiaro avvertimento: non dirmi palle. Non gli rispondi subito… forse non sai da dove cominciare. E lui non ha intenzione di aspettare. «Forza… alza la maglietta. Voglio vedere.» Questa volta il tono è secco, intransigente. Quando tentenni ancora, il coach allunga una mano, non aggressiva ma incredibilmente sicura di sé. Afferra un lembo della tua maglietta e lo solleva quel tanto che basta a scoprire il grande livido violaceo che ti attraversa il fianco e risale fin quasi alle costole. Il contatto, per quanto leggero, ti fa sussultare. E subito la mente corre al giorno prima: al pestaggio da parte di Cory e dei suoi tirapiedi, al Bosco… alla strana e inquietante visione che hai avuto… e immediatamente provi quel senso di disagio che forse non hai mai davvero scacciato. Il coach Moss ti osserva in silenzio, l’ombra di un pensiero pesante che gli passa dietro gli occhi. «Chi ti ha fatto questo, Nathan?» Questa volta ti concede qualche secondo per rispondere. Non sembra sorpreso… sembra analizzare. Poi scuote lentamente la testa. «Ti sei fatto vedere da qualcuno?» Quando risulta evidente che la risposta è un semplice “no”, il coach inspira piano, lo sguardo che scivola oltre te, verso la classe che corre. Per un istante sembra valutare qualcosa, come se stesse pesando una decisione già presa. Poi la sua voce risuona nella palestra: «Whitesand! Qui, subito! Accompagna Clark in infermeria.» Una pausa. Poi, più forte: «Tutti gli altri, venite qui! Adesso!» @Voignar Darius Whitesand - in palestra Quando, prima di scuola, riveli a Ben quello che è successo e le indicazioni che lo “spirito” ti ha impartito, avverti un leggero bruciore al simbolo che hai impresso sul collo. È solo un attimo, sostituito subito da un fugace brivido di eccitazione e divertimento a cui non sai dare una spiegazione. Ben rimane in silenzio, soppesando le tue parole. Valutando, forse, se sei sincero o meno con lui. Alla fine ti dice che ha bisogno di tempo… per metabolizzare la cosa. Quando iniziate a correre in palestra, finalmente Ben si porta al tuo fianco. Non dice nulla… Senti che è lì e che sta cercando il coraggio, o le parole giuste, per dirti qualcosa. Butti un’occhiata al coach. Sta osservando con attenzione Nathan, non prestando minimamente attenzione a voi altri che correte. Non sentendoti il suo fiato sul collo puoi permetterti di rallentare leggermente, procedendo a una velocità più gradita a Ben. Non appena rimanete un po’ arretrati rispetto agli altri Ben finalmente si decide. “Ok Darius… Ti credo!” Dice con tono deciso “Dopo mi devi assolutamente raccontare meglio! Voglio sapere tutto!” Aggiunge poi, iniziando a parlare in modo più affannato. Fai giusto in tempo a rispondergli qualcosa di veloce, chela voce del coach rimbomba nella palestra. Whitesand! Qui, subito! Accompagna Clark in infermeria.» Una pausa. Poi, più forte: «Tutti gli altri, venite qui! Adesso!» @Theraimbownerd Orion Kykero - in palestra Ti unisci al resto del gruppo nei primi giri di corsa, cercando di non dare troppo nell’occhio. Il coach, per una volta, sembra avere di meglio da fare che massacrarvi: tutta la sua attenzione è su Nathan, e questo, per te, è quasi un regalo divino. Scarlett però non c’è. Un fastidio ti punge sotto lo sterno: se quella ragazza ha deciso di saltare proprio oggi, quando deve consegnarti le informazioni su Jeremy… beh, si è appena guadagnata un debito enorme. Almeno suor Margaret non infesterà l’ambiente col suo moralismo stantio. Il seguente pensiero su tua madre ti fa stringere lo stomaco. Ormai mancano poche ore all’incontro con la Somma Sacerdotessa di Chicago… Stai correndo senza troppo entusiasmo, immerso in questi pensieri, quando qualcuno si avvicina al tuo fianco. È Tyler. Non parla subito: tiene un ritmo costante, rilassato, da atleta vero. Tu fai finta che non sia faticoso seguirlo. «Hey…» mormora alla fine, senza voltarsi, «grazie per prima. Per essere stato diretto primo…» Il tono è sincero. Diretto. Poi fa un cenno col capo in direzione del coach Moss. Lo vedi intento a squadrare Nathan. «Credi che si sia accorto di qualcosa?» Il fatto che il coach, proprio in quel momento, afferri un lembo della maglietta di Nathan e lo sollevi scoprendo un grosso livido viola sul costato risponde alla domanda di Tyler molto meglio di come potresti fare tu. Sta per aggiungere qualcos’altro quando il boato del coach taglia l’aria: Whitesand! Qui, subito! Accompagna Clark in infermeria.» Una pausa. Poi, più forte: «Tutti gli altri, venite qui! Adesso!» @Ghal Maraz @Voignar @Theraimbownerd Nathan - Darius - Orion - in palestra Vi stringete tutti attorno al coach, trattenendo il fiato. Il suo tono è così rigido da non lasciare spazio a repliche o scuse. Moss sfiora con lo sguardo ogni volto, poi si ferma su Darius. «Forza… voi due andate in infermeria.» La sua mano si posa per un istante sulla spalla di Nathan, un gesto che vuole sembrare paterno. Poi si rivolge al resto della classe, la voce che rimbomba nella palestra: «E voi altri! Se qualcuno sa cosa è successo a Clark… parli adesso. SUBITO.» Il silenzio che segue è pesante, quasi fisico. Le scarpe scricchiolano sul parquet quando Nathan e Darius iniziano ad avviarsi verso l’uscita. Accanto a Orion, Tyler lascia uscire un lungo sospiro. Non uno di stanchezza: uno di chi si sta facendo forza, forse deciso a dire qualcosa. Ma non ne ha il tempo. È Sasha ad anticiparlo e a prendere parola. E lo fa con la sua solita sicurezza e sfrontatezza, senza troppi giri di parole… “Beh… Non posso dire di sapere cosa gli sia successo… Ma immagino che lo sappiamo tutti benissimo chi possa essere stato!” Le sue parole cadono come un sasso nell’acqua, facendo vibrare l’aria. E nessuno, per un istante, osa fiatare. Off game Darius e soprattutto Nathan, decidete pure voi se andare in infermeria o restare e interagire con la scena in palestra. Orion… mi dispiace se questa scena forse è poco interessante per te… ci rifaremo nel pomeriggio 😁😁 @SNESferatu Ana Rivero - a casa di Gustav Le tue parole si abbattono su Gustav come colpi secchi, uno dopo l’altro. All’inizio non reagisce. Rimane dov’è, immobile accanto al banco di lavoro, con le mani sporche di polvere grigia che tremano appena. Non ti interrompe, non si difende, non prova nemmeno a mascherare lo smarrimento che gli attraversa gli occhi quando pronunci la parola padre. È come se quella sola sillaba gli avesse tolto l’aria. Il silenzio che segue è denso. Lo vedi ingoiare a vuoto—una, due volte— “Tu… tu non capisci… Tu non sai…” Farfuglia confuso, mentre osserva la tua giacca e la tua camicetta cadere al suolo, il tuo corpo esposto, la crepa che ti lacera la pelle come una ferita impossibile. Ed è lì che qualcosa in lui cambia. Non dice nulla, ma gli occhi lo tradiscono: un lampo di riconoscimento, di orrore… e di bramosia. Una fame antica, trattenuta a stento. La stessa fame che ha avuto quando ti ha scolpita la prima volta. Per un istante avverti quasi la sua mano che vorrebbe avvicinarsi, toccare quella frattura, studiarla, capirla. Ripararla. Non la muove. Ma tu sai che vorrebbe. Si passa una mano sul volto, come se cercasse di svegliarsi da qualcosa. Poi murmura, quasi senza voce: «Dio… Ana… cosa hai… cosa ti hanno fatto?» Non aspetta risposta. Forse non la vuole nemmeno sentire. Cambia nuovamente espressione. Fa un passo indietro, come se avesse improvvisamente paura. Si porta una mano al volto, si strofina gli occhi, le tempie. Come se volesse cancellare un pensiero che continua a tornare, ostinato. Quando finalmente parla, la voce non ha nulla del tono del creatore che ricordi. È ruvida. Stanca. Quasi spezzata. «Non… non avrei dovuto. Tutto questo… tu…» Si interrompe, stringendo la mascella. «…è stato il mio errore più grande…» Lo dice non riuscendo a guardarti negli occhi… Fissa il pavimento, quasi come se stesse parlando più a sé stesso che a te. Quando torna a guardarti, gli occhi sono rossi d’ansia e di qualcosa che ricorda la vergogna. La sua voce però si indurisce, come se improvvisamente avesse paura. «Non dovevi tornare qui con… con queste cose...» Ti indica la crepa, ma è evidente che non parla solo di quella. «Non voglio più avere niente a che fare con… con ciò che ti riguarda.» Un altro passo indietro. Non da te: da ciò che rappresenti. «Vai via, Ana.» Un ordine che suona quasi come una supplica. «Per favore… Vattene. Non tornare più.» Percepisci che sta mentendo a se stesso. Che una parte di lui vorrebbe trascinarti dentro, studiarti, toccare quella crepa, ripararla. Ricominciare tutto da capo. Lo leggi in un bagliore nei suoi occhi, ancora fissi su quella crepa.