@Voignar Darius Whitesand Alice ti ascolta in silenzio, lo sguardo fisso da qualche parte tra le mattonelle del corridoio e il vuoto. Quando arrivi alla tua domanda, sospira piano. «In realtà… oggi pomeriggio avevamo già deciso di passare un po’ di tempo insieme» dice, con un tono che cerca di sembrare casuale ma non ci riesce del tutto. Fa una breve pausa, poi abbassa leggermente lo sguardo. «Solo che… ora non so più se sia il caso. Magari preferirà stare tranquillo…» aggiunge, e nella sua voce c’è una punta di esitazione, quasi un velo di delusione che cerca di nascondere ma che non sfugge al tuo orecchio. Proprio in quell’istante, la porta dell’infermeria si apre. Nathan è lì. Ha l’aspetto di sempre, o quasi. I tratti sono rilassati, il colore è tornato sulle guance. Lo sguardo è lucido, presente. Alice si volta di scatto e, nel vederlo, per un attimo il sollievo le addolcisce ogni linea del volto. @Voignar @Ghal Maraz Nathan e Darius Nathan, Alice ti si avvicina d’istinto, con un moto quasi irrefrenabile, come se per un attimo stesse per gettarti le braccia al collo. Ma qualcosa la trattiene… forse la tua espressione ancora un po’ stanca, forse la presenza di Darius al vostro fianco. Si ferma, titubante, a un passo da te. «Sicuro di star bene, ora, Nat?» chiede con voce bassa ma carica di preoccupazione. Ti osserva con attenzione, un’attenzione insolita per lei, che di solito sembra sempre volare altrove con la mente. Poi abbassa brevemente lo sguardo, quasi a cercare le parole. «Se… se più tardi non te la senti di vederci… beh… lo capisco.» Le parole le escono di fretta, quasi temesse di pentirsene subito. Ti guarda per un istante, incrocia i tuoi occhi con i suoi, ma distoglie subito lo sguardo, rifugiandosi in un punto vago del corridoio. È chiaro che ci tiene. Ma è altrettanto chiaro che ha paura di metterti pressione. @Theraimbownerd Orion Kykero Esci dalla scuola accompagnato da Juno e Diana, ma anche le loro chiacchiere… che in altri momenti ti avrebbero strappato un mezzo sorriso o un commento sarcastico… oggi ti scivolano addosso. È come se fosse tutto ovattato, come se la tua mente continuasse a ronzare in sottofondo. Per quanto nessuno ti abbia detto niente direttamente… per quanto nessuno ti abbia rivolto uno sguardo esplicitamente derisorio… quella sensazione resta. Presente. Strisciante. Fastidiosa. Come se ogni risatina soffocata, ogni occhiata di sfuggita, ogni sussurro dietro un banco fosse rivolto a te. A quella dannata foto. Solo quando varchi la soglia esterna della scuola, lasciandoti alle spalle l’edificio, l’eco di tutto questo sembra affievolirsi un po’. James, il vostro autista, è già lì ad aspettarvi, come sempre impeccabile in giacca e cravatta. Apri la portiera, lasciando salire prima le tue sorelle, poi prendi posto sul sedile posteriore e, nel giro di una decina di minuti, le luci ordinate e borghesi del centro di Lilac Hollow lasciano spazio alla quieta eleganza delle ville residenziali. Casa Kykero è lì, in fondo alla curva. Imponente. Un’elegante villa moderna in vetro e pietra chiara, incastonata in un giardino lussureggiante con vialetti curati e siepi scolpite. La piscina, sul retro, riflette il cielo pallido del pomeriggio come uno specchio liquido. James accosta con la solita precisione, le portiere si aprono, e Juno e Diana scendono rapide, ancora immerse nei loro discorsi su outfit, playlist e inviti per la festa. «Ci vediamo dopo!» ti dice Diana, «Non rubarmi il bagno stavolta!» grida Juno. E in pochi istanti spariscono dentro casa, su per la scala che porta al piano superiore. Ti ritrovi solo. Il rumore ovattato dei tuoi passi risuona nell’ampio ingresso, su pavimenti in marmo lucidati alla perfezione. Intravedi la figura di Consuela che si muove silenziosa tra la sala e il corridoio. Quando entra in cucina, la senti parlare con qualcuno e capisci subito che si sta rivolgendo a tua madre, anche se non la vedi. «Signora Kykero, ho finito di risistemare la camera… Posso esserle utile in qualche altro…» interrompe la frase, sentendo il rumore dei passi pesanti delle tue sorelle sulle scale. «Oh.. Credo che le ragazze siano rientrate!» Ti domandi se, nel suo bigottismo cristiano, nel termine “ragazze” fossi incluso pure tu. @SNESferatu Ana Rivero Il parco dove di solito Max si ritrova coi suoi amici non é molto lontano dalla scuola, eppure il tragitto ti sembra eterno. Cammini con la spiacevole sensazione di essere seguita… osservata da occhi maliziosi… occhi che ti vedono solo per il bellissimo e perfetto involucro esterno con il quale sei stata creata. Ti volti più di una volta. Nulla. Nessuno. Solo il fruscio delle foglie mosse da un vento leggero e qualche macchina in lontananza. Eppure la sensazione resta. Incollata alla pelle come un vestito troppo aderente. Quando finalmente intravedi il parchetto, una strana emozione ti attraversa lo stomaco… come un nodo che si scioglie. È sollievo? È così che si chiama, quella cosa che senti in questo momento? Sì… probabilmente sì. E il solo accorgertene ti spiazza. Il parchetto è modesto. Un piccolo angolo di verde strappato all'asfalto: qualche panchina sotto i grossi rami di sempreverdi, un campetto da basket occupato da ragazzi più grandi che giocano rumorosamente, e uno skate park malmesso con qualche rampa arrugginita e graffiti sbiaditi. Max è lì, a suo agio come solo lui sa essere. Scivola sullo skateboard con movimenti rilassati, lanciandosi in qualche trick semplice mentre ride e chiacchiera con due ragazzi seduti sul bordo del marciapiede. Li hai già visti a scuola, ma non sai come si chiamano. Uno è basso, smilzo, con i capelli neri tagliati corti e un giubbotto talmente largo che sembra inghiottirlo. L’altro è un tipo alto, afroamericano, con un’aria placida e lo sguardo sempre un po’ spento. Entrambi stringono tra le dita delle canne già accese. Ridono. Poi Max ti vede. Il suo sguardo si alza, ti riconosce… e per un attimo sembra quasi perdere l’equilibrio, come se la tua presenza lo avesse colto del tutto alla sprovvista. Ma non cade. Recupera subito il controllo, con quell'agilità disinvolta che gli è tipica, e ti guarda solo per un istante. Uno sguardo breve. Forse troppo breve. Poi, senza dire nulla, curva bruscamente con lo skate, dandoti le spalle, e torna verso i suoi amici. @TheBaddus Scarlett Bloomblight Le voci ti premono nella testa come chiodi incandescenti. Ti rimbombano nel petto, nelle tempie, nella pancia. Ti sussurrano di Tyler. Di quanto meriti di soffrire. Di quanto Emily dovrebbe essere tua, solo tua. Ti spingono, ti strattonano verso di lui. “Adesso, Scarlett. Fallo adesso. È debole. Lei ti guarderà. Capirà. Ti sceglierà.” Ma non lo fai. Ti senti tremare, ma non ti muovi. Non fai un solo passo verso Tyler. Resisti. Non sai neanche come, ma resisti. Ti afferri con unghie e denti al poco buonsenso che ti resta. Ti imponi di distogliere lo sguardo, di chiudere il cuore a quelle parole venefiche che ti divorano dentro. Emily dice qualcosa, ti parla, sì… ma le sue parole ti arrivano attutite, lontane, come se stessero passando attraverso un muro di ovatta e vetro. Non capisci. Fai un passo. Poi un altro. E poi ancora. Ti allontani. Te ne vai. Non corri, ma quasi. Il passo è veloce, teso, come se stessi scappando da un incendio che ti brucia le caviglie. La voce dentro di te non tace. “Torna indietro. Ora. Lei è tua. Solo tua.” Ma tu la ignori. “Emily ti appartiene. Lui te la porterà via. Non farlo succedere.” Stringi i denti. La voce diventa più dura, più crudele, ma tu la respingi. Continui ad allontanarti, attraversando la cancellata della scuola, infilandoti tra le stradine, senza una direzione precisa. Scappi. Non sai quanto tempo passi. Le case diventano più vecchie, più sporche. I muri sono imbrattati, le finestre rotte. Non sei più nel tuo quartiere. Ti ritrovi nella zona malfamata della cittadina, e non sai nemmeno perché. Hai ancora il fiatone quando ti rendi conto di essere entrata in un vicolo. È stretto, sudicio, e puzza di piscio e muffa. Davanti a te, un vecchio claudicante e malconcio sbuca da una porticina con le pupille dilatate e lo sguardo perso. Ha appena fatto qualcosa… o preso qualcosa. Poi senti un rumore alle tue spalle. Un fruscio. Una voce. “Ma guarda chi c’è…” Ti giri di scatto. Un uomo sui trent’anni ti osserva con un ghigno storto e occhi pieni di cattiveria. Capelli lunghi e sudici, peli irsuti sul petto che escono da una maglietta col collo a V, giacca di jeans piena di toppe di gruppi metal. Lo riconosci. Quel bastardo che mesi fa ha provato a metterti le mani addosso durante una trattativa finita male, uno di quei piccoli criminali che si credono re del quartiere. Una feccia nota. Uno spacciatore con legami con una gang locale. “La piccola putta**lla! Non mi aspettavo di rivederti così presto. Ti sei persa, piccola?” Avanza di un passo. “Credevo che fossi più furba. Ma a quanto pare…” Il suo sguardo ti scorre addosso come melma. “…ancora non hai imparato.” Fa un altro passo. “Questa volta non c’è nessuno a salvarti, bambola. E stavolta… stavolta ho tutto il tempo che voglio.” Alle tue spalle, il vicolo si chiude. Nessuna uscita. Nessuna via di fuga immediata. Il suo sorriso si allarga. Malato. “Ti sei messa nei guai, principessa. Ma guarda il lato positivo: ti farò divertire.”