Nathan Clark Infermeria "B-bene?", balbetto, scombussolato. Non dovevo venire qui, non dovevo. "Sì... io, cioè. Sto bene. Non... non mi manca l'aria, o... cosa. Non mi gira la testa o... niente come ieri", aggiungo, e faccio l'errore di guardarla. Mi blocco e vorrei smettere di parlare. Distolgo gli occhi, puntando verso il basso. "Lei... ieri ha detto che... forse ho capito male... che potevo parlarle se... se c'era qualcosa che non andava", riprendo, dopo qualche istante. "Ecco, io... io sono... non so cosa fare. Cioè... mi sembra di stare... perdendo il controllo. Sbaglio tutto. Non... capisco cosa dovrei fare. E...", non posso parlarle della Fata nella mia testa (e nel mio corpo): mi prenderebbe per matto. Ma forse lo sono? Forse mi sono solo perso nel bosco, ho perso conoscenza e sono... matto? Avrebbe più senso, in fondo. "Mi... mi sembra che... ci sia un altro me, dentro di me. Non ha molto senso detto così, lo so. Ma... non mi riconosco più e faccio cose... senza pensarci, che fanno solo casino (si può dire "casino"?) e poi... Non so con chi posso parlare... lo psicologo della polizia mi metteva solo a disagio e sembrava... che fosse colpa mia", dico finalmente, ammettendo che tutto parte da quel momento e indicando il proverbiale elefante nella stanza. Non ho mai parlato con la Morris di quella storia, ma tanto lo sanno tutti. Cavolo, nemmeno capisco come faccia la Morris a ricordarsi il mio nome, visto che, prima di ieri, non ero quasi mai venuto. Quindi, certo che anche lei conoscerà quella storia. "Non... non ho modo di parlare coi miei. Non capirebbero nemmeno perché vorrei parlare con qualcuno. Non sono cattive persone: sono oneste, hanno sempre lavorato (come meglio possono), non mi hanno mai picchiato... solo che loro non mi dicono mai nulla di importante. Hanno le loro convinzioni - le loro fissazioni - e c'è solo quello, per loro. Dopo l'episodio del bosco... loro non mi hanno detto nulla, a parte il fatto che avevano pregato per me e che erano grati che io fossi vivo. Loro... non credono alla psicologia e non vorrebbero che andassi da qualcuno di diverso del tizio della polizia. Io...", mi blocco, e capisco qualcosa. Se non sono matto, allora adesso so perché hanno scelto me, quelle Fate. Perché nessuno poteva proteggermi e capire il cambiamento. "Non è una scusa. Cioè... per quello che ho fatto, per quello che sta succedendo. Ieri, oggi, negli ultimi giorni", respiro forte e torno a guardarla negli occhi, cercando di sopprimere il disagio, la rabbia, l'impotenza e la frustrazione. Allontano l'odore di questo luogo dalle mie narici. "Possiamo... parlare?". Ma conosco già la risposta, è lì nei suoi occhi. È come se lei avesse già provato tutto questo, per quanto possa sembrare assurdo. Io lo so che molti la chiamerebbero solo adolescenza: crescere, diventare grandi, diventare adulti. Il mio "coming of age". Ma è mio, è solo mio, e mi sta riempiendo la testa di m€rd@. E allora ricomincio a raccontare; prima piano, poi sempre più veloce. Senza pause, senza balbettii. Le racconto di Cory e di Ben, di come mi ha fatto sentire, di cosa ho combinato. Della mia rabbia e della mia paura. E del mio senso di colpa. Le parlo del male che ho fatto a Tyler e ciò che ne è seguito: l'episodio in mensa, la perdita di controllo, gli sguardi, i sorrisetti, le accuse. Le mie scuse e di come non mi abbiano fatto sentire meglio. Le spiego di Noah - guardo fuori dalla finestra mentre lo faccio - e di come mi ha fatto sentire debole, incapace e solo. Le dico di quello che provo, delle persone che mi piacciono e di come non riesco a esprimerlo; di come siano sempre quelle sbagliate: Max, Eliza e persino la Lane... Sento il volto avvamparmi e nascondo istintivamente il viso. E poi è il turno di Alice e di Kathlyn: con entrambe non sapevo cosa fare, ognuna delle due mi ha preso alla sprovvista. E ho sbagliato con entrambe. Il tutto, condito con le nuove chiacchiere di Blabber. Il tempo passa velocissimo e al rallentatore, allo stesso modo. Sento la mia voce, come se parlasse qualcun altro. E soffoco l'altra voce, perché già mi sento uno schifo così e poi ho paura di essere davvero matto. So che lei lo capisce, che capisce anche questo. E ciò mi spaventa ancora di più. Non avevo mai parlato così tanto con un adulto e, di certo, non con qualcuno del personale scolastico. Sento freddo e sono sudato. Mi sembra di avere parlato per ore e poi, invece, guardo l'orologio e capisco che sono passati solo venticinque minuti. Com'è possibile? Com'è possibile? @Loki86 off-game Ho tagliato molto a volo d'uccello, per non perderci in mille scambi, che non sarebbero finiti mai; forse è un po' troppo succinto, ma me la immagino comunque come una conversazione, in qualche modo.