Laskan, questo è il mio nome. Ultimo di tre fratelli ho vissuto la mia vita tra un battesimo di vita e fughe rocambolesche.
Ricordo ancora il mio battesimo di fuoco, avevo appena sette anni quando mio padre, un cacciatore di frodo, mi portò all’interno di un bosco ad inizio inverno togliendomi l’acciarino dicendomi “ Tra poco scenderà il buio, trova un riparo e un modo per fare il fuoco: io tornerò domattina per vedere se sei ancora vivo” e detto ciò mi lasciò solo. Provai a seguirlo ma in risposta trovai il suo coltello puntato contro e la frase “potrei dire a tua madre che sei scappato…”.
Un’altra volta mi prese, avevo dieci anni, mi porse il suo lungo arco e ci dirigemmo a caccia. Eravamo nei pressi della foresta reale, chi veniva sorpreso a cacciare al suo interno veniva impiccato sul posto, indipendentemente che fosse donna, uomo o bambino. Riuscii a tornare a casa con due grasse lepri ed in risposta ottenni delle imprecazioni e un paio di cinghiate. Lo chiamava “il battesimo della caccia di frodo”.
A tredici fummo attaccati da un gruppo di goblin, per poco non persi mia madre. Uccisi due di quelle verdi creature…credo che fosse stata l’unica volta in cui mio padre mi guardò, mi dette una pacca sulla spalla dicendo fieramente “ah…figliolo, hai superato il tuo battesimo di sangue”.
Ultimo dei tanti, che mi fece fare mio padre fu a sedici anni: “il battesimo del destino”. Eravamo a caccia da giorni, lui era ubriaco come molte volte, stavamo rientrando a casa, un rifugio posticcio, con un magro bottino (un cerbiatto talmente magro che nemmeno con le interiora avremmo potuto mangiare per più di due pasti). Sentimmo dei rumori, mio padre divenne lucido in un attimo e acquattandosi si portò il dito sulle labbra per farmi capire di far silenzio. In lontananza un bianco manto passò tra due alberi, non dimenticherò mai quella maestosa creatura, ignara della nostra presenza, brucare l’erba per poi grattare il suo lungo corno contro la corteccia di un albero. Quell’essere immondo di mio padre estrasse l’arco ed una freccia, si passò il piumaggio tra le labbra e incoccò il dardo sul budello dell’arma. Fu un istante di lunga attesa e poi scoccò. Lo strale sibilò tra i cespugli conficcandosi nel ventre dell’animale, a pochi centimetri dal cuore. Un nitrito, quasi un urlo, squarciò l’aria come se il suono fosse stato lui stesso vivo. Guardai mio padre esultare e scattare in avanti e cadere subito dopo: una tagliola lo agganciò su un piede; la tagliola che aveva messo lui stesso mezza mattinata addietro. Dopo mille imprecazioni mi guardò come se fosse stata colpa mia e indicando il folto della boscaglia mi urlò “vai…vai e prendi quel corno…vale molto…se non ritorni a casa con quel corno: non tornare affatto…corri e non guardarmi così…io mi arrangerò” io scattai in avanti e appena mi volsi indietro mio padre si era già liberato, zoppicando appena mi fulminò con lo sguardo “muoviti… o la prossima sarà per te.” Camminai per tutta la notte, cercando le tracce di quel bellissimo animale, notai che il sangue era meno copioso, notai che il sangue era argenteo e non rosso.
Trovai l’unicorno a mezzodì del giorno seguente. Stremato mi avvicinai col coltello in mano, ma appena posai lo sguardo sui suoi grandi occhi neri capii. Capii che non era quella la via. Tolsi la freccia e tamponai la ferita con delle erbe che si trovavano li vicine. Passai una paio d’ore a cercare di tamponare il suo candido manto sporco di argenteo sangue. Non mi accorsi nemmeno che una figura mi stava osservando da diverso tempo. Un’elfa di immane bellezza, vestita di foglie e corteccia, con un copricapo a forma di corna di cervo. Appena mi alzai, lei si voltò parlando in una lingua a me sconosciuta, l’unicorno nitri, si alzò togliendosi l’impiastro con un tremito: era completamente guarito; fuggì in un batter d’occhio.
Lei non mi fece capire di andarmene, ma nemmeno di seguirla. Io la seguii fino ad un vecchi, grosso e nodoso albero. Ad un suo comando la corteccia si aprì, rivelando una scala. Alla fine della scala c’era la sua dimora. Attesi che fosse lei a rivolgermi la parola. Attesi fino a quando non si tolse l’elmo, riponendo la sua scimitarra in una fessura tra il legno, e sedendosi su un ceppo ( tutto all’interno dell’albero). “Ehlonna ti ha scelto. Obad-Hai è contento. E tu hai fatto la cosa più giusta” rimasi li con lei per diverso tempo, parlammo molto e seppi che ella era una druida. Una druida che proteggeva… protegge… qulla porzione di foresta. Passai con lei quasi un anno, la conobbi in maniera molto personale. Mi insegnò a leggere e scrivere, a vivere la natura in maniera selvaggia, a conoscere il vero amore, per lei e per tutte le creature. Mi istruì sul culto di Obad-hai e quello di Ehlonna. Di tanto in tanto riceveva dei messaggi, portati da gufi, furetti, addirittura un lupo una volta. Partiva per una paio di giorni, al massimo due settimane, dicendomi “devo andare al mio circolo, la mia gente ha bisogno di me e delle mie indicazioni” credo fosse un personaggio di rilievo ma non seppi mai quanto. Non mi parlava mai dei suoi obblighi. L’ultima volta che la vidi fu un paio di mesi addietro. Non capii che fosse un addio, ma dovevo immaginarlo.
Lei si avvicinò a me e ì mi baciò appassionatamente, la sua bocca sapeva da sottobosco, i suoi capelli da muschio selvatico e la sua candida pelle da menta, si portò una mano sul ventre prominente, ma questa volta disse: “tornerò, come sempre…addio” si avvicinò all’albero e dopo aver pronunciato una frase di potere attraversò il tronco come se non esistesse. Una lacrima cadde dalla guancia bagnando il terreno prima che lei potesse attraversare del tutto il druidico portale. Una viola ora nasce ai piedi di quella quercia.
Lei si chiamava. si chiama…non lo so proprio, nulla ha più importanza, tranne che servire Ehlonna…credo che dovrei andarmene, ma non trovo il coraggio: e se ritorna?