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esahettr

Circolo degli Antichi
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  1. esahettr

    Libertà

    Primo giorno di primavera I - Mattino I semi si schiudono nella terra bagnata. Secche foglie d'autunno ancora si aggrappano ai rami: derelitti fantasmi di un tempo perduto. Lasciatevi andare, mormora loro la terra. Non abbiate paura, non c'è nulla da temere. Quaggiù riposano le vostre compagne. Venite, venite. Siate lievi, qui si compie il ritorno e il dolore finisce. In me sono tutte le vostre compagne. E fa loro coraggio il vento, accarezzandole. Sospirando, ridendo, piangendo, alcune si lasciano e cadono. Altre restano immobili, terrorizzate. Verrete anche voi, presto, canta loro la terra. Io sono tutte le vostre compagne. Rami morti rivivono. Gemme argentate cullano embrioni di fiori. La gioventù schiuma nei parchi. Bambini che giocano a calcio. Giacche gettate a terra. E il vecchio pino scuro dondola lieve nel vento, commosso e irritato se la ride da solo: i vecchi camminano un passo per volta, invidiosi dei cani che corrono. Il cielo è fuggito nel suo cantuccio di nuvole. Ricorda l’infanzia perduta. Il sole neonato si sveglia piangendo. Ci pensa, si accende e consuma. La croce di legno sorride sanguigna. Canto di uccelli. II - Tramonto Nel santuario di roccia riposa la morte. Assordata dal verde è strisciata nei monti. Non ancora, non ancora, vaneggia nel sonno. Verrà! Verrà! Verrà! Il sole sbadiglia. Comincia il ritorno. Di tre che partirono uno solo è tornato. Il poeta ha con sé l’asfodelo che brucia i serpenti. Tetti aranciati si rigirano nel sonno. Non sognano affatto. A volte si svegliano e chiacchierano. La pioggia guarisce la quercia tremante. Il sole si asciuga la fronte. E nelle notti ancora gelide sui prati Dormon gli amanti abbracciati, le labbra stremate. Si sveglian coperti di brina: per loro hanno pianto le stelle. Erba tenera fra le rovine. Gemme. Fiori gialli sul ponte di legno. La neve si scioglie, gonfia i ruscelli. Umidi i tronchi e le rocce. Nulla è cambiato: il bianco sentiero di ghiaia come un tempo si snoda fra i pioppi, e accanto l'azzurra ringhiera. Eppur noi non siam quel che eravamo. E accanto l’azzurra ringhiera. III - Oscurità La discesa ci espone ai rumori. Sirene. Steccati urlanti. Il sole ha la morte nel cuore. Le nuvole vanno rauche alla tomba. Stridendo si ammassano i corvi. Il poeta estrae da terra la croce. Il sole sprofonda nel lago. Si accende un lampione in città. Cielo coperto. Catafalchi di nuvole. Cielo di niente. Il poeta ha staccato le foglie morte dai rami. Si strofina la terra sugli occhi. Dà fuoco alla croce sommersa di foglie. Il silenzio montano urla un nome perduto.
  2. A propisto, Mondadori ha pubblicato un'altra miscellanea di racconti del nostro, ovviamente inediti in Italia. I Re di sabbia, mi pare si chiami. Tanta fantascienza, credo, e il famoso 'prologo' alle Cronache, di cui non ricordo il titolo. Per il momento ho di meglio, ma se mi venisse una crisi di astinenza da Martin... Fatemi sapere se merita.
  3. esahettr

    Pink Floyd

    Eh sì, lo so, lo so... Mea culpa... E' proprio ciò che ho intenzione di fare...
  4. Nella storia della musica contemporanea ci sono pochi momenti terribili quanto quelli in cui Cobain sussurra I found it hard, it was hard to find/ Oh well, whatever, nevermind. Una canzone che finisce con un rifiuto. A chi si sente inutile. Smells Like Teen Spirit - Nirvana Load up on guns and bring your friends It's fun to lose and to pretend She's over bored and self assured Oh no, I know a dirty word Hello, hello, hello, how low? (x4) With the lights out it's less dangerous Here we are now, entertain us I feel stupid and contagious Here we are now, entertain us A mulatto An albino A mosquito My libido I'm worse at what I do best And for this gift I feel blessed Our little group has always been (tribe) And always will until the end Hello, hello, hello, how low? (x4) With the lights out it's less dangerous Here we are now, entertain us I feel stupid and contagious Here we are now, entertain us A mulatto An albino A mosquito My libido And I forget just why I taste Oh yeah, I guess it makes me smile I found it hard, it was hard to find Oh well, whatever, nevermind hello, hello, hello, how low? (x4) With the lights out it's less dangerous Here we are now, entertain us I feel stupid and contagious Here we are now, entertain us A mulatto An albino A mosquito My libido A denial (x9)
  5. esahettr

    Contest per collaboratori

    Un'altro che se ne va... Bella Secchio, sono contento per te!
  6. esahettr

    Libertà

    I sono tutti matti ma mai abbastanza da sono tutti tutti morti ma non al punto di io sono un preservativo nella spazzatura, ma le nuvole mi chiamano seme di aborto, e necessità negata il vento che le spinge e ancora ricordo in questo cinereo vortice di superfluo ciò che disse la lei con le mani rosse togliendosi le grida dai capelli, il torbido dal sogno degli occhi (il cervello di lui decorava il pavimento) - morta mia stella, parola trapassata all’alba, bambino egoista va’, va’ avanti torneremo un giorno come necessità senz’utero – e il poco di lui che rimaneva, che esitava non più del contorno di un sospiro: - mai e sempre mai e sempre mai e sempre II siamo vomito di supernova che secca al tempo e con questo? tutti vogliono essere belli solo sabbia inventata da nessuno luce! diventarla! ditemelo! (il bianco è la più antica masturbazione nichilista) la sua frase preferita era - quando Dio si sparerà mi sparerò anch’io come quando sdraiato sul suo letto triste nella sua camera triste acceso dalla luce che consuma aveva guardato nello spazio fra le cose III Terra, che con una mano mi hai spinto nell’implosione della fossa dove il verde artificiale si fonde con l’infinito di gomma da masticare (e allora cercai un’altra te, ma che avesse le calze a rete rosse e mi bagnai nel fiume dimenticato e andai fra i vermi di fuoco coltivai feti di illuminati a un lato dell’autostrada) che nel fiorire delle lacrime, madre, urlavi - vivi il meglio scaldati al silenzio della brace giovane splendi di ciò che è tuo e degli altri prigioniero dell’inutile con il suo recinto di non attorno che rimpicciolisce sempre scorticarsi il cuore contro il filo spinato non abbastanza da morirne, troppo per riprovarci oh, fottersi il cervello con un proiettile! IV le sue poesie parlavano solo del nulla (la professoressa di italiano - è proprio questo il problema) non dei bambini dall’anima assoluta, avvelenati di magico tutto, ma della vecchia pistola d’ordinanza del nonno (mietitrice di sediziosi studenti, forse), del male blu sepolto alla radice del pensiero, (attende attende attende) è strano sentire l’insperato fiorire del più fragile dei nostri semi di tempo (ti ricordi, li mettemmo non si sa se a fottere o a marcire sui prati del sempre, bianchi nell’attesa nera) perché le mie poesie parlano solo di me maldestro giocoliere di menzogne, me quasi senza cuore, mormoratore di vecchi canti e cose spente per sempre? masturbatore! masturbatore! tutto ciò che è fine a se stesso! V quante volte abbiamo giocato con la morte? (come le quindicenni anoressiche che dicono – è la mia migliore amica) non è nulla, non è nulla tranne il nulla che siamo stati tanto a lungo senza lamentarci tranne il nulla che prima o poi saremo lo stesso (lo sappiamo dalla notte che tu le baciasti il collo e mi sfidasti e io le tolsi la gonna e dissi che ero pronto: ma nessun vortice oltre la pelle calda, nulla d’importante) a casa con lei certe volte era strano aspettava due ore prima di cominciare a baciarla perché ora del suo seno ho leccato quello che mi era consentito VI quante volte siamo cancri? turbato il nulla, sterilizzato il sogno, dimenticato il resto impazzì sentendo il suono delle nuvole al tramonto brucandol'oscurità nata dalla cenere del sole viaggiava dissonante per elettrizzate sinapsi - nulla continuerà per molto! - così sfotteva lo specchio mentono tutti (banana marcia, devi fidarti degli alieni) è un gioco subdolo VII e la lei torbida vide il foglio a righe accanto alla pistola: risorgere è ridicolo come gli amanti sfavillanti di sangue nella notte livida ***** e cuore e **** e cervello fondersi è la chiave tutto quella pulsazione sono l'angelo dagli occhi sporchi, non temere, non smetterò di precipitare per l’impuro amore puro: solo fango, solo terra e il resto non ci riguarda
  7. esahettr

    Pink Floyd

    A York mi sono comprato The Piper at the Gates of Dawn: psichedelia pura, un viaggio alle origini del delirio, allucinazioni talmente deragliate e inseprimibili da poter essere approciate solo attraverso la sfera dell'infanzia, del primordiale, delle filastrocche e dei suoni buffi... E su tutto regna sovrana la personalità folle e geniale di Barrett, non ancora distrutta da se stessa. Album immenso, a parer non solo mio... Voi che mi dite?
  8. Io Joyce... Diciamo che non ho mai avuto il coraggio... Comunque, direi che è da consigliare. Aer, ma tu hai mai avuto le palle di leggerti l'Ulisse o il Finnegan's Wake? Se sì, be'... Complimenti. Sei un uomo di quelli veri.
  9. Certo, a Weis e Hickman non gli allaccia neanche le scarpe, però non è malaccio Anche a me è piaciuto Il cacciatore di aquiloni, anche se forse non tanto come a Strike. Cioè, una bella storia, buoni personaggi... Bel libro.
  10. Bravo, così mi piaci. Se ti senti uomo a sufficcienza, allora, rompi gli indugi buttati a pesce sull'Ottocento. Chesso, incomincia con qualcosa di immediato dipo Dickens... Ah, e della Banda dei brocchi che mi dici? A suo tempo avevo provato ad aprire un thread a riguardo, ma non aveva avuto qual che si definisce un largo seguito... Mi piacerebbe sentire l'opinione di qualcun altro che l'ha letto...
  11. 1. La vidi dove sarebbe rimasta fino alla fine. Avete presente la panchina a strisce verdi e blu di piazza Dogana, quella rivolta verso la rotonda, davanti al bar Moka? Stava seduta là, a gambe incrociate, lo sguardo fisso sui cassonetti della spazzatura sul lato di fronte. Buffo che guardasse proprio da quella parte, se si pensa a come è finita. La vidi mentre tornavo a casa dopo una partita di calcetto al parco, sudato fradicio e imbacuccato nel giaccone pesante per non ammalarmi. Mi avvicinai incuriosito e la prima cosa che notai fu che era carina. Occhi luminosamente vuoti, azzurri, un po’ spalancati, capelli biondo sporco; molto magra, sottile, con un sorriso appena accennato, incompiuto. Era scalza, il rosa pallido delle piante dei suoi piedi nudi faceva capolino da sotto le ginocchia. Non le diedi più di diciassette anni, l’età che avevo io allora. Era tardo pomeriggio, uno di quei primi dolci pomeriggi di primavera, quando un vento tiepido soffia da Sud-Ovest e la città ghiacciata dal torpido sogno dell’inverno si risveglia ai raggi del sole rinato. Le vernici metallizzate delle macchine in colonna nella rotonda riflettevano la malinconica luce del tramonto. Gruppi di ragazzi e ragazze in giacche leggere, i volti arrossati dal primo sole, dopo tanto tempo tornavano ad affollarsi davanti alle gelaterie riaperte e si spingevano ridendo con aria spensierata. Ma lei a tutto questo era estranea. Dava l’impressione di essere completamente avulsa da ciò che la circondava, lontana anni luce dal tepore e dalla primavera. Stava là e basta, come sarebbe stata chiusa a chiave in camera sua, o sul divano di una discoteca, o sul fondo dell’inferno, per quanto sembrava che gliene importasse. Quando le passai davanti per imboccare la via in cui abitavo, qualcosa in lei mi colpì molto. OK, era carina, ma niente di eccezionale, decisamente troppo magra… No, che fosse bella non c’entrava nulla; furono i suoi occhi. Per un attimo incrociai il suo sguardo e in esso percepì allo stesso tempo un’incredibile intelligenza, immensamente superiore alla mia e a quella di chiunque altro avessi mai conosciuto e un vorticoso senso di vertigine, di vuoto assoluto. Come veder esplodere una supernova in un buco nero. Tornai a casa turbato e quella sera a letto rimuginai a lungo su ciò che avevo visto, incapace di prendere sonno. Non riuscivo a togliermela dalla mente. La mattina dopo andando a scuola la rividi. Era sempre seduta su quella panchina, nella stessa posizione e con lo stesso sguardo incomprensibile fisso nel nulla. Poteva non essersi mossa di un millimetro. A scuola non ne parlai con nessuno, non mi sembrò necessario. E poi pensai che a raccontarla sarebbe parsa una cosa stupida, di poco conto, così decisi di tenerla per me. Eppure non ascoltai una sola parola di ciò che dicevano i professori e nemmeno per un secondo smisi di pensare a quella strana ragazza sulla panchina. Non mi stupii di trovarla ancora là quando tornai a casa a ora di pranzo. Presi il cellulare e fingendo di telefonare la osservai con la coda dell’occhio per qualche minuto. Sedeva nell’immobilità assoluta. Guardandomi attorno mi accorsi con un certo fastidio di non essere il solo ad averla notata. Proprio allora dalla banca uscirono degli impiegati che la guardarono incuriositi e sul balcone di una casa che dava sull’incrocio una donna con un grembiule lillà le lanciò una lunga occhiata mentre si chinava per annaffiare i gerani sul davanzale. I soliti vecchi alcolizzati del bar Moka, alticci fin dal primo mattino, accennavano a lei con le teste e la squadravano ridendo sotto i baffi. Quel pomeriggio inventai un pretesto per giustificarmi davanti a me stesso e tornai in piazza Dogana. Non se n’era andata. La curiosità prevalse e, fatto un respiro profondo, mi sedetti sulla panchina accanto a lei. - Ciao – dissi sfoderando il mio sorriso più accattivante Lei non sembrò avermi sentito. Nemmeno si girò per guardarmi in faccia, non mosse un muscolo del viso. Continuava a tenere lo sguardo fisso dritto davanti a sé, nella stessa direzione del giorno prima, verso i bidoni della spazzatura. - Ciao – ripetei a voce più alta. Nulla. Non dava il minimo segno di essersi accorta della mia presenza. Pensai che potesse essere sorda, o cieca, o entrambe le cose. - Ehi, parlo con te! – Mi chinai verso di lei nella speranza di attirare la sua attenzione, ma fu inutile. Rimase immobile come una statua. Spazientito, le misi una mano davanti agli occhi e la agitai su e giù. Nulla. Le diedi uno schiaffetto sulla guancia, poi un altro leggermente più forte. Un albero avrebbe reagito allo stesso modo. Pensai che potesse essere morta. Si sa un corpo può rimanere per molto tempo nella posizione in cui la vita lo ha lasciato. Dopo aver dato un’occhiata circospetta alla piazza (nessuno in quel momento sembrava guardare dalla mia parte, nemmeno gli assidui del Moka) mi inginocchiai per terra di fronte a lei e la guardai bene. Non batteva le palpebre e non sembrava respirare. Vagamente impaurito dalla possibilità di trovarmi così vicino a un morto, alzai la mano e le toccai timidamente la fronte. La tolsi di scatto, la posai di nuovo, feci il confronto con la mia. Era calda almeno quanto me. Forse era morta da poco, avevo sentito da qualche parte che un cadavere ha bisogno di un po’ di tempo per raffreddarsi. In preda a un’ispirazione improvvisa le presi la mano abbandonata inerte sulle ginocchia e le tastai il polso sottile. All’inizio non sentii nulla. Non riuscivo a concentrarmi a causa delle macchine che rombavano ininterrottamente a pochi metri da noi e avevo paura di attirare l’attenzione dei passanti. Molto probabilmente qualcuno nella piazza si era accorto di me e osservava ciò che stavo facendo. Faticosamente riuscii a distogliermi dal rumore e dalle preoccupazioni e cominciai a sentire qualcosa. Più che un battito, era un lento flusso continuo, simile a al moto di una marea, ma pensai di poterlo ritenere un prova sufficiente del fatto che fosse viva. Mi risedetti accanto a lei sulla panchina e la guardai di nuovo. Forse era in coma, dato che non batteva le palpebre, non sembrava respirare e avere coscienza di sé, ma rimaneva da chiarire come era potuta era arrivare fin lì. Forse stava proprio in quella posizione quando si era sentita male. Tipo un infarto o un ictus o qualcosa del genere. Mi sentii in imbarazzo a stare seduto in silenzio su una panchina accanto a una ragazza seduta immobile a gambe incrociate, apparentemente morta. Scossi la testa, mi alzai e feci per tornare a casa. - Io non ho idea di chi tu sia. – Aggiunsi intenzionata ad andarmene, ma poi mi risedetti. - O del perché tu stia qui seduta immobile da ieri pomeriggio. – Sapevo che non poteva sentirmi e ciò che stavo facendo era completamene privo di senso, ma proseguì. - In realtà non so nemmeno cosa ci faccio io qui con te. Escludo che tu sappia che ci sia anch’io. Non ho mai visto una cosa strana come te, sai? Te ne stai talmente immobile, con un’aria talmente distaccata che ho creduto che fossi morta. Ma non lo sei, questo è chiaro; anzi, non sei meno viva di tutti noi altri, probabilmente. – Una volta cominciato non riuscii più a fermarmi. - Perché in fondo ora che ci penso non è che la mia vita sia particolarmente interessante, e non so quella degli altri lo sia. Per carità, non mi posso lamentare. Niente malattie, perdite importanti o sfighe vere… A rigor di logica dovrei essere felice. In teoria la felicità è una condizione negativa: se non stai male, e quindi mangi, bevi, dormi e ti senti sufficientemente libero, be’, allora stai bene, e se stai bene è ovvio che tu sia felice. Non c’è un solo motivo serio al mondo per cui non dovrei esserlo. OK, magari non riesco a farmi la ragazza che voglio, prendo un brutto voto a scuola, litigo con mia madre… Ma questa è roba che nel peggiore dei casi ti può far sentire un po’ giù, stop… Se fossero questi i problemi del mondo... No, non so… E’ solo che… Mi manca qualcosa, non so se capisci cosa intendo… Cioè, certo, è un problema mio, ma questo non vuol dire nulla, visto che stiamo parlando di me. E’ come se avessi sempre vissuto con l’impressione di perdermi qualcosa… Qualcosa d’importante, di fondamentale… Insomma, avrete capito. Vi risparmio il resto. Da quel giorno andai da lei tutto i pomeriggi. Parlavo, ridevo, balzavo in piedi per spiegare meglio ciò che dicevo, mi risedevo, mi entusiasmavo, mi sconfortavo... Lei era la più grande ascoltatrice che avessi mai conosciuto, compresa mia madre. Era confortante sapere di poter contare su qualcuno che non ti interrompeva e non ti contraddiceva mai, non dubitava di nulla e non faceva domande. 2. - Ma tu non hai mai fame? – Era così che cominciavo sempre. All’inizio era una specie di gioco, ma poi divenne una preoccupazione più seria, e infine una preghiera disperato. Dimagriva di giorno in giorno, era sempre più, brutta e sciupata. Anche se guardandola era impossibile pensare che qualcosa che riguardasse anche solo lontanamente la terra e le necessità materiali potesse toccarla, credo che avesse bisogno di mangiare proprio come tutti gli altri. Vederla assottigliarsi e perdere progressivamente le forze era straziante, e in quegli ultimi terribili giorni ogni volta mentre tornavo a casa dopo che essere stato con lei faticavo a trattenere le lacrime. Un giorno portai con me del pane e, pur sapendo già prima che sarebbe stato inutile, feci un timido tentativo di imboccarla. Ma l’increspatura di quel sorriso ultraterreno non voleva saperne di aprirsi, e non ebbi il coraggio di aprirle la bocca a forza e infilarci il cibo contro quello che sembrava un suo desiderio. Sapevo che la cosa giusta da fare sarebbe stato portarla all’ospedale o almeno avvertire qualcuno di competente. Un paio di volte la coscienza riuscì quasi a prendere il sopravvento e fui sul punto di parlarne con mio zio, che è medico, ma non lo feci mai. Mi giustificavo pensando che di sicuro non soffriva, dato che non era cosciente, che quella non poteva che essere la sua volontà e che comunque sarebbe stato impossibile aiutarla più di quanto facevo io. Non so quando o da dove mi sorse quest’idea, ma nel giro di poco mi convinsi di essere per lei una sorta di guardiano. Ero io che la facevo felice andandola a trovare tutti i giorni. Ero io, soprattutto, che cercavo di difenderla dagli assalti del mondo esterno. Vivevo nel costante terrore che venisse il giorno in cui non l’avrei più trovata. Ero perseguitato da sogni in cui lei, stufa di me, se n’era andata e io la rincorrevo per il dedalo le viuzze della città vecchia. La cosa peggiore era che mentre la inseguivo sapevo bene che non avrei mai potuto raggiungerla. Forse intuii fin dall’inizio che il suo soggiorno sulla panchina sarebbe stato breve, e fu proprio la tacita consapevolezza di ciò a lacerarmi. Forse l’ho sempre sentita troppo estranea a tutto ciò che c’è qui per poter credere che sarebbe rimasta a lungo. Fin dalla prima volta che la vidi mi accorsi del crescente interesse della gente nei suoi confronti. Mentre stavo con lei notai che non c’era una sola persona che passasse da quelle parti che una volta al giorno non deviasse di poco il suo percorso per guardarla. E molto spesso qualcuno quando incrociava il suo strano sguardo si fermava e fissava a lungo. Non ero nemmeno l’unico a parlare con lei. Vidi più volte delle persone che non conoscevo avvicinarsi cercando di non farsi notare e lasciarsi cadere al suo fianco. Proprio come facevo io, le parlavano concitatamente per ore. Sapere di non essere il solo a occuparsi di lei, a considerarla importante e soprattutto a parlarle mi rendeva geloso oltre ogni limite. Pensavo che nessuno potesse amarla nemmeno con un milionesimo dell’intensità con cui l’amavo io, che nessuno tranne me potesse capirla…Quella gente superficiale e falsa non aveva il diritto di starle vicino e intromettersi nella perfezione del nostro rapporto. Ognuno dei loro stupidi sguardi la offendeva e la insudiciava. Un pomeriggio arrivai che sulla panchina era già seduto qualcuno. Era un ragazzo qualche anno più piccolo di me, tarchiato e con la pelle olivastra. Mi appoggiai con la schiena a un palo poco distante e rimasi ad ascoltare, gli occhi ridotti a due fessure dalla rabbia. - Io, comunque, sono Pablo. – diceva il ragazzino con un accento straniero, facendo ampi gesti con le mani. - Cioè, in realtà Paolo, però la gente di solito mi chiama Pablo, no? Cioè per Pablo Escobar, no? Quello di Blow, presente? Non è che spaccio, eh! Lascia stare! Al limite porto le storie di mio fratello a certi tipi… E’ che è un nome figo, Pablo, no? Cioè, ha stile! Sai quanta gente che si chiama Paolo! E invece Pablo no, magari in Spagna, ma quello chissenefrega! Cioè, non è che siamo in Spagna, no? Pablo a scuola tutti sanno chi è… Solo che una volta lo ha sentito mio padre, no? Lo odio, mio padre! Comunque, vabbò non ti sto a dire tutto bene, ma mio padre ha sgamato l’Ale che mi chiamava Pablo, no? Allora le ha detto di levarsi dai ******** subito che la prossima volta le spaccava la faccia e quando lei se n’è andata mi ha dato una fracca di botte. Cioè, solo perché mi ha chiamato Pablo, no? E’ che lui dice che mi ha chiamato apposta Paolo perché quando sono nato sapeva già che poi venivamo qua in Italia, no? Perché Paolo è un nome italiano, no? E allora gli fa incazzare che non mi chiamano così, anche perché lui dice che Pablo è un nome di *****, no? Proprio una gran testa di *****, mio padre… Non riuscii più a trattenermi e lo insultai dicendogli di andarsene subito. Se non ci fosse stata lei a farci vergognare di noi stessi non ho dubbi che saremmo passati alle vie di fatto. Molto probabilmente le avrei prese. Un sabato notte passai di là per salutarla mentre tornavo a casa e assistetti a una scena che ricorderò per sempre. Un barbone era inginocchiato per terra di fronte alla panchina, nella stessa posizione in cui qualche giorno prima io le avevo tastato il polso. Le baciava i piedi sotto le ginocchia e piangeva. - Io ti amo! – urlò a un tratto, la voce impastata dall’alcol – Ti amo più di quanto amavo lei! Non è possibile! Non è possibile! – singhiozzò premendo il capo sul suo grembo. - Tu non sei lei e io non posso amarti! Perché? Perché? – Si rialzò barcollando e presa una bottiglia da terra la scagliò contro un cartello mandandola in frantumi. - Perché? Tu non sei morta! Lei è morta e mi ha lasciato qui! Qui! – Prese da terra un’altra bottiglia e spaccatola contro la panchina si ferì la guancia con un vetro rotto. Poi con urlo disperato alzò il vetro nella sua direzione e per un secondo sembrò sul punto di ferirla, ma lo riabbassò subito e si accoccolò per terra sotto di lei, piangendo in silenzio. 3. Due settimane dopo della creatura di sole e cielo che era stata prima non era rimasto nulla. Due enormi occhi febbricitanti si aprivano come ferite sulla sommità di un sacco d’ossa ricoperto di pelle trasparente. Era sera e una spessa coltre di nubi scure gravava sulla città. Non la guardavo, per non piangere. - Sono due settimane che te ne stai sola su una panchina e tutta questa gente ti rovescia addosso se stessa. Chissà cosa pensi di noi, delle nostre stupide vite… Ti costringiamo a farne parte, ma non ti abbiamo mai chiesto il permessi – Un lampo illuminò il cielo sulle nostre teste e il rimbombo sordo di un tuono lo seguì. - Ma si vede lontano un miglio che tanto non te ne frega niente, nemmeno quando ci mettiamo a piangere o a urlare. – Grosse gocce di pioggia cominciavano a cadere. - No, non ti tocca la ***** nella quale noi soffochiamo ogni giorno. La sovrasti da un’altezza troppo incomparabilmente elevata perché possa riuscire anche soltanto a sfiorarti. Tu non sei qui insieme a noi, tu sei lontanissima. Cosa ti importa di mangiare? Mangiare serve solo a non morire. E cosa importa a te di ********* come la morte? – La pioggia si abbatteva con intensità sempre maggiore e le gocce cominciavano a infilarmisi nel colletto della giacca e a scendermi sul petto in rivoli gelidi facendomi rabbrividire. Mi sentivo pieno di una rabbia gelida e impotente che non avevo mai provato prima. -Hai mai pensato al motivo per cui i cessi hanno le porte? – dissi alzando la voce fin quasi a urlare, stringendo i pugni nascosti dalle maniche della giacca. - Te lo dico io. Perché la nostra più grande paura è farci vedere mentre stiamo cagando. Che ci vedano nudi e dicano che siamo grassi, o troppo magri, che abbiamo il ***** piccolo, i brufoli sul **** o troppi peli. Tutto qua. E allora l’unica cosa a cui pensi è una porta per chiudere fuori il resto del mondo, così non riusciranno a vederti. Ma una porta non può fare nulla contro la paura, quella rimane con te, sempre. Non riesci a sopportare di sapere che ci sarà sempre qualcuno pronto a spiarti dal buco della serratura, o che si chinerà per guardarti dal pertugio sotto, per ridere dei tuoi segreti più rivoltanti. E invece di uscire e affrontarlo da uomo pensi a nasconderti meglio. Credi di risolvere i tuoi problemi incastrando un pezzo di carta igienica nella serratura, costruendo una barriera più efficace. Solo che a forza di stare al chiuso l’aria prima o poi si consuma. E allora, se vuoi continuare a respirare, rimane solo la paura. E buonanotte. E buonanotte – ripetei incamminandomi con la testa incassata nella spalle e le mani in tasca, bagnato fradicio, sotto la pioggia che mi scrosciava addosso. Non saprei dire se stessi piangendo. 4. La mattina dopo era domenica. Mi svegliai all’alba e quando capii che non sarei riuscito ad addormentarmi mi infilai i vestiti e scesi in strada. Il sole cominciava appena a risalire il suo percorso nel cielo luminoso e i suoi raggi si riflettevano attraverso l’aria pulita dalla pioggia sull’asfalto non ancora asciutto. Lei, rachitica bambola, giaceva scomposta in una pozzanghera davanti alla panchina. Aveva vinto la fame Non mi avvicinai, rimasi a guardare. Alle sette e mezza, quando aprì il bar e i fragranti aromi del caffè e del pane tostato si sparsero nella piazza, una cameriera con le tette grosse uscì fuori sorridendo. Guardò verso la panchina e il sorriso le morì sulle labbra. Esitò un attimo, poi corse da lei e la sollevò senza fare nessuno sforzo, tanto era leggera. Attraversò la piazza cullandola fra le braccia e, dopo aver fatto leva sulla barra con il piede, leggermente, la lasciò cadere nel primo bidone della fila. 5. Per un po’ la gente che capitava da quelle parti aveva un’aria triste, svuotata. Passò del tempo e lentamente il senso di vuoto scemò finchè un giorno nessuno si ricordava più perché passando da piazza Dogana lo sguardo era involontariamente attratto da una certa panchina a righe verdi e blu, o a cosa fosse dovuto lo strano disagio che quella vista sembrava causare. Come era destino che accadesse, ci dimenticammo di lei.
  12. Ma tipo un po' di Italo Calvino no? Siamo italiani, ca***. Fidati, leggi Il Barone rampante. E' la storia della vita di un ragazzo nobile del Settecento che un giorno sale sugli alberi e decide di non scendere più. Come narrativa, imho è il vero capolavoro di Calvino. Mi ricordo che prorpio alla tua età avevo letto La Banda dei brocchi di Jonathan Coe. Leggilo, è uno dei migliori libri degli ultimi dieci anni. Se proprio vuoi fantasizzarti, leggi Philip Pullmann (quello della Bussola d'oro, per capirci, ma non lasciarti influenzare da quella schifezza del film), Robin Hobb (incomincia conl'Apprendista assassino e poi vedi) oppure George RR Martin (Le cronache del ghiaccio e del fuoco).
  13. Io ho letto il libro del grande Cormac, considero i Cohen forse i più bravi registi viventi per quanto riguarda un certo genere di cinema, a cui peraltro la trama si presterebbe... Nonostante l'accoglienza entusiastica, che inquieta sempre un po', lo andrò a vedere a breve.
  14. Viri, guarda che la gente lo guarda. Comunque io ero convinto che iniziasse sempre il martedì...
  15. Roba da tredicenni minigonnate che escono coi bulli da prima classe di IPA:.
  16. Ma non inizia di martedì, di solito?
  17. Leggiti un bel classico. Scegli tu quale. Non commettere il mio errore, che fino a un anno e mezzo fa li evitavo quasi del tutto. Il fantasy va benissimo, ragazzi, ma non bisogna dimenticarsi i valori reali delle cose. E ve lo dice uno che di fantasy ne ha letti e riletti a fantastilioni.
  18. Jaime, ovviamente. Ma anche Tyrion, Brienne e Jon mi piacciono molto.
  19. esahettr

    Libertà

    e se ci sarà vento e nel vento una vecchia melodia strofineremo la faccia sulla luce di un lampione ai due capi delle viscere del mondo sotto strane e identiche foglie nei polverosi tempi di freddi contrari che come sempre rinunceranno a risolverci che come sempre paragoneremo al mare potrei accarezzare all’infinito fra le dita la girandola dei nostri tramonti più idioti fatti di nulla di speciale alla ricerca della noia viscerale aggrappati con le labbra a un filo d’erba a ridere del cielo deformato dalle lacrime e così hai imparato a venderti e io a crescere al contrario ma pur senza mai darlo troppo a vedere siamo incalliti in noi stessi sullo sfondo di rivelazioni banali e strade antiche di mille girate fra il parchetto e la piazza rincorrendo l’accenno di un richiamo mormorato dal fiume fragile a volte ho pensato che se morissi sarebbe il giorno più felice, il giorno più triste perché avrebbero abbastanza malinconia da piangere per decenni interi e dire cose che non sono vere che siamo sempre stati fieri di avere gli occhi dello stesso colore gli uguali si respingono e vanno via lontano ma siamo stati bravi a fingere non è stretto qui, dicevamo morendo nell’unico punto fermo sulla cima della montagna di stelle, se non siamo fiori ora non lo saremo mai gli uguali si respingono e noi ce ne andiamo via lontano per le nostre strade inutili verso mete inesistenti
  20. Purtroppo li ho letti in ordine inverso rispetto a quando sono stati scritti, ma a inizio gennaio Guerra e pace non ce l'avevo sottomano. Credo che ogni tentativo di commento lasci il tempo che trova. Se scrivo qualcosa è solo per riempire il post: avrei voluto lasciare i due titoli e scrivere a caratteri cubitali 'LEGGETELI'... Ma magari mi avrebbero piallato... Tolstoj è semplicemente immenso, nella forma (insuperabile, fra i milioni di altre cose, il suo uso della punteggiatura) e nel contenuto. Più che romanzi, sono due universi perfetti, descritti con una minuziosità che ha dell'inumano. C'è tutta la vita, tutta la morte. Tutta della sfera dell'umano. Tutto quello che siamo, messo lì senza un simbolo, senza il minimo accenno di metafora, con le parole esatte. E senza steccare una volta che sia una. Tolstoj è talmente un puro che non si cura nemmeno di evitare le ripetizioni. Perchè la retorica non deve anteporsi alla realtà, credo. I personaggi sono fasci di pulsioni quasi sempre in contraddizione fra di loro, ma che comunque gravitano intorno allo stesso centro vitale. Proprio come noi, inseguono sempre qualcosa che deve risolvere la loro vita, si sentono rinascere a una nuova vita e poi crollano per i medesimi errori, attendono tutta la vita il cambiamento, la catarsi, il colpo di scena che non verranno mai... E la morale è una sola: la piccola vita dei piccoli uomini, è quella a essere davvero santa, divina, assoluta. Chi vuole anche soltanto capire qualcosa della letteratura ha l'assoluto dovere di leggerli. Mi scuso per l'inadeguatezza delle recensioni.
  21. Troppi a capo - questo assolutamente -, troppi avverbi e locuzioni avverbiali, troppe perifrasi per dire cose di scarsa rilevanza. Un eccesso di dettagli inutili ai fini del racconto. La continua alternanza di frase brevissime e mediolunghe spezza il ritmo e toglie l'armonia. Poi anche cose minimali che solo chi, come me, è molto molto malato nota: i mesi si scrivono minuscoli (OK, magari maiuscoli non sono sbagliati, ma non si fa ), i numeri vanno scritti in lettere... Detto ciò, il tuo è quello che come storia e personaggi mi è piaciuto di più...
  22. Complimeti ai vincitori! Io questa volta ho votato ectobius, perchè - come ho già detto - adoro il suo stile. Vorrei però spezzare una lancia a favore di quello di Wolf, che mi ha intrigato parecchio. Se la forma fosse stata più curata, avrei votato il suo. Quello di Black imho poteva essere molto bello, ma non è stato sviluppato proprio da Dio, e la forma traballa un po'. Quello di viri di per sè non dice molto, è scritto così così, ma poi c'è il finale. Quando l'ho letto ci sono rimasto abbastanza di sasso. PAM, finisce tutto! Idea coraggiosa, capperi! Il racconto di Piri non mi ha entusiasmato, lo dico. Certo, il sorriso malinconico te lo fa spuntare, ma direi che ci ha mostrato cose di molto migliori. Strike forse scrive meglio di tutti e imho lo sa e ci casca un pochino. Cioè, come giustamente rileva Phate, tutte ste descrizioni sono soverchie in un racconto da 20.000 caratteri.
  23. esahettr

    Mai Dire GF

    Che faccia scompisciare non ci sono dubbi, ma è semplicemente l'ultimo anello dell'ingranaggio dei reality. E poi', ci si sente un po' tristi a passare le serate a ridere della meschinità interiore altrui. Sono anni che non lo guardo.
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