1.
Era l’ora in cui tutto sembra sprofondare, in giro non c’era quasi più nessuno. Il pallido sole di gennaio era tramontato da tempo e la città si incuneava nelle ombre. Pian piano la notte risucchiava le macchine parcheggiate, l’asfalto, le vetrine illuminate.
Due ragazzi sedevano sull’orlo del marciapiedi e guardavano l’entrata di un piccolo supermercato dall’altro lato della strada.
Per la centesima volta Franz si frugò la tasca interna della giacca, per la centesima volta tastò il rassicurante terrore del metallo gelido. Controllò l’ora sul cellulare e scoccò un’occhiata in tralice a Rashid. Questi aspirò un ultimo tiro dalla sigaretta ridotta al filtro prima di gettarla a terra. Espirò il fumo lentamente, con voluttà.
Attraversarono la strada ed entrarono nel supermercato oltrepassando la porta scorrevole automatica. All’unica cassa aperta la commessa dava qualche moneta di resto a una vecchietta. Uno dietro l’altro si immisero nella corsia del reparto colazione, fra enormi pareti di biscotti, merendine, fette biscottate e cereali.
Girarono a sinistra voltando le spalle al banco della macelleria, privo di personale. Incrociarono un signore sulla cinquantina intento a scegliere fra mezza dozzina di marche di olio extravergine d’oliva e si infilarono nella zona vini. Attesero in silenzio. Le luci al neon ronzavano sul soffitto.
I due fattorini finirono di mettere in ordine e se ne andarono a casa. Il tipo dell’olio si decise, pagò e uscì. Era rimasta solo la cassiera.
- Ci sei? – bisbigliò Franz. Gli tremava la voce per la paura e l’eccitazione.
- Certo.
Franz fece una smorfia. Era impossibile non accorgersi dell’accento di Rashid, che ormai era in Italia da dieci anni, anche quando diceva solo una parola. E Franz - a essere sinceri – con i marocchini non è che ci andasse al manicomio – tolto Rashid.
Quella è casa loro e questa è casa nostra. E cosa possiamo farci noi se da loro fa schifo? Se non avessero il fumo, sarebbero totalmente inutili. Se non avessero il fumo... A cannonate, *****.
Franz fece qualche passo nella direzione da cui erano venuti, poi Rashid disse qualcosa sottovoce.
- Cosa? Non ho sentito…
- Vecchio, posso tenerlo io il ferro?
– Che ***** dici? – ringhiò Franz abbassando la testa per guardarlo negli occhi. – Come ti vengono in mente certe stronzate? In questo momento, poi! L’abbiamo già deciso! Lo faccio io!
- Lo so, lo so. Ma è che c’ho pensato e voglio farlo io…
*****! Io ‘sto ******o magrebo lo ammazzo con le mie mani, lo ammazzo! Adesso prendo e gli sparo.
Stai calmo! Rilassati. Usa la testa, per un secondo. Usa la testa! Se vuole farlo lui, ***** suoi! Meglio per te! Metti che succede un casino, metti che va male… E’ lui che si becca il riformatorio… Te al massimo ti appioppano un sei mesi di servizi sociali e psicologo e ***** vari… Se ci pensi un secondo questa è proprio una gran botta di ****!
- Va bene, allora. Vuoi farlo tu? Fallo. Sapessi quanto me ne frega. - Franz passò la pistola a Rashid. – Tienila sempre puntata per terra. E non azzardarti a togliere la sicura! Metti che parte un colpo e finiamo tutti nella *****!
Rashid non disse nulla e sorrise. Per un momento i loro sguardi si incrociarono e qualcosa nei suoi occhi a Franz non piacque affatto.
Lascia stare. Paranoie. Solo il suo modo di mostrare la tensione. Paranoie.
Tornarono sui loro passi e usciti dalla corsia dei vini girarono di nuovo a sinistra. Quindici metri davanti a loro la cassiera stava parlando al cellulare ignara della loro presenza.
Si guardarono e Franz si nascose dietro lo scaffale alla destra del passaggio, sporgendo di poco la testa per seguire la scena. La sagoma di Rashid si stagliava nella luce biancheggiante mentre avanzava fra pareti di bottiglie di Sprite. La cassiera aveva lo sguardo rivolto da un’altra parte e continuava a parlare sorridendo. Era una donna di circa trentacinque anni, neanche brutta, con un bel paio di tette, lunghi capelli di una bella tonalità di castano e occhi grigi insignificanti.
La cassiera si accorse di Rashid solo quando lui le si fermò davanti sorridendo, si bloccò e gli rivolse uno sguardo interrogativo. Per tutta risposta lui le puntò la pistola alla tempia e le tappò la bocca con l’altra mano. La cassiera sbiancò di colpo e lasciò cadere il cellulare.
- Non urlare – le soffiò in faccia Rashid. – Non provare a schiacciare l’allarme. Giuro che se ti metti urlare o a muovere le mani ti ammazzo. – Lentamente, le tolse la mano dalla bocca.
Franz osservava la scena attraverso un pertugio nella fila di confezioni di conserva di pomodoro.
Poteva andarci un tantino più leggero. D’altra parte, Rashid era tutto tranne che leggero.
Intanto Rashid aveva cominciato a rigirare la canna della pistola contro la guancia della cassiera.
- Apri la cassa e dammi i soldi. Muoviti. – E continuando a tenerla sotto tiro si infilò nella tasca dei jeans le banconote che la cassiera gli passò con la mano tremante. Franz vide che non erano molte, poi Rashid fece un cenno con la mano nella sua direzione.
Franz lo raggiunse e, estratto un martello dalla giacca, cominciò a colpire la cassa alla destra di quella aperta. Al quarto colpo uno scomparto cadde rumorosamente a terra, seguito da una pioggia di monetine. Una decina di banconote, perlopiù di piccolo taglio, si adagiò a terra.
Franz le raccolse, se le pigiò in tasca e passò alla cassa successiva.
- Vi troveranno… Con le telecamere… - piagnucolò la cassiera.
- Quali ***** di telecamere? Non ce ne sono, in questo cesso – rispose Franz senza guardarla.
La cassiera cominciò a singhiozzare forte. – Adesso arrivano le guardie giurate. Bisogna chiudere e arrivano le guardie giurate… Sono armati… Vi conviene andarvene…
- La guardia giurata arriva alle sette mezza. Fra un quarto d’ora, cioè, e mai una volta che venga prima. E comunque è solo un vecchio rincoglionito. – gridò di rimando Franz vibrando una martellata.
Poi si sentirono solo i respiri affannosi della cassiera intervallati dai colpi di martello e dallo scroscio finale di monete a terra. Le luci ronzavano incessantemente.
- Finito – disse Franz con voce piatta. Aveva raccattato sì e no un centinaio di Euro, e nell’espressione di Rashid ebbe la conferma che nemmeno nella prima cassa c’era stato granchè.
- Ok. Andiamo. – Rashid lanciò un’occhiata guardinga alle corsie silenziose. Tutto immerso in quella luce asettica. Tutto come doveva essere – a parte i soldi.
Andarono verso l’uscita e mentre stavano oltrepassando le porte scorrevoli Rashid si fermò e girò la testa, gli occhi che brillavano. – Magari torno domani e ti do una bottarella…
Franz alzò gli occhi al cielo.
C‘era da aspettarselo. L’imbecille vuole apporre il suo sigillo.
- Ti piacerebbe, eh? – continuò Rashid con un sorriso crudele che metteva in mostra gli incisivi storti – Vuoi vedere il mio uccello? -
- Figli di ******* – disse in sussurro appena percettibile la cassiera. – Figli di ******* – ripeté più forte, con la voce rotta. Poi cominciò a piangere in silenzio, coprendosi la faccia.
Franz bestemmiò.
Mai dare del figlio di ******* a un magrebino. Mai dare del figlio di ******* a Rashid.
Rashid andò verso di lei e parlò con voce innaturalmente calma. – Cosa hai detto? – La fissò per un istante e poi la colpì sullo zigomo con la canna della pistola con tanta forza da schiantare lei e la sedia a terra.
- Cosa hai detto? – Rashid incombeva su di lei con la pistola in pugno, tremando, la voce ridotta a un soffio. La cassiera era sdraiata a faccia in giù, le spalle scosse da silenziosi singhiozzi. Rashid diede un calcio alla sedia rovesciata. - COSA HAI DETTO??? – urlò all’improvviso con tutto il fiato che aveva in corpo.
Franz fino a un momento prima era rimasto impietrito, ma ora che le nocche della mano con cui Rashid stringeva la pistola erano diventate bianche capì di dover fare qualcosa. Si avvicinò e gli afferrò con delicatezza il braccio.
- Dai, lascia perdere… Leviamoci dalle palle…
Ma Rashid non si era nemmeno accorto di lui.
E io che ***** faccio adesso? Questo ******* la vuole ammazzare! *****! Che brutta idea che ho avuto a dargli il ferro!
- Dai! Chiedigli scusa… Digli che ti dispiace! Diglielo, subito, *****… Questo ti ammazza! – urlò Franz.
- Mi dispiace… Oddio… Scusa… Scusami! – singhiozzò la cassiera. – Ti prego, non farmi male! Ti preeego!
- Guarda, è in paranoia totale! – Franz tentò di nuovo. - Non sa quello che dice! Ed è anche ora di levarsi dalle palle!– Ora gli strinse il braccio con più forza, tirandolo verso l’uscita.
- TU levati dalle palle, se non vuoi che ti sparo! – Rashid si girò di scattò e lo buttò a terra con uno spintone. Poi impugnò la pistola con entrambe le mani e si chinò sulla cassiera. Tolse la sicura e gliela puntò addosso.
Franz si tuffò e afferrategli le gambe con le mani tirò con tutta la sua forza verso di sé. Risuonò uno sparo e Rashid cadde in avanti con la faccia sul pavimento a un passo dalla commessa che non si era mossa.
Franz si rialzò e con le orecchie ancora assordate dallo sparo sentì la pistola strisciare sul pavimento da qualche parte alla sua sinistra. Anche Rashid si era rimesso in piedi, e bestemmiava; nella caduta si era rotto il naso e aveva la faccia ricoperta di sangue.
Rashid gli puntò contro la pistola e Franz la colpì con un calcio. Si guardarono per l’ultima volta e poi Franz si gettò sulla pistola. Rashid gli piombò sopra un secondo dopo e gli strinse il collo sotto l’ascella; i due si ritrovarono avvinghiati, la pistola da qualche parte in mezzo a loro. Con le mani dell’uno strette al collo dell’altro rotolarono contro uno scaffale, decine di flaconi di plastica caddero loro addosso e loro continuarono a lottare corpo a corpo nel groviglio di flaconi di plastica. Ci furono altri due spari; Franz sentì un’esplosione alla spalla sinistra; del detersivo gli entrò negli occhi; urlò. Il frenetico avvicendarsi di buio e luce elettrica, urla e rumori distanti, caldo: tutto si riduceva a questo, tutto rotolava con loro. Franz si ritrovò la pistola fra le gambe, la prese e istintivamente premette il grilletto. Quasi non sentì lo sparo.
Forse sono diventato sordo… Forse sto morendo…
Il rincu!o si ripercosse lungo tutto il braccio e la pistola gli sfuggì di mano, un liquido caldo gli schizzava sulla faccia entrandogli in bocca. Almeno due voci urlarono; qualcosa sopra di lui si contorceva orribilmente e Franz la scalciò mettendosi in ginocchio. Aveva la giacca sporca di sangue. Il mondo era rosso.
Chissà di chi è tutto questo sangue… E’impossibile qualcuno ne abbia tanto…
In bocca aveva un sapore metallico. Si guardò la spalla e con esilarante sorpresa si accorse di essere ferito.
Non fa male per niente… Fa’ che non sia morto… Ti prego fa’ che non l’abbia ammazzato…
Si tirò in piedi barcollando come un ubriaco e vide Rashid. Era davanti a lui, sdraiato in modo assurdo con la schiena contro un muro di confezioni multiple di assorbenti. Si avvicinò e vide un forellino rosso frastagliato nel cappotto, all’altezza del petto, tre dita a sinistra della cerniera. Dai suoi occhi spalancati sul nulla capì che era morto. Scoppiò a ridere.
Sono una bolla di sapone?
Intanto a cinquecento chilometri di distanza, la commessa aveva ripreso a piangere seduta per terra, gli occhi chiusi, le mani strette al petto. Fuori, nel buio, livide luci bluastre pulsavano all’unisono con l’ululato delle sirene.
Franz si lasciò cadere sul corpo di Rashid e cominciò a urlare. In quel momento qualcosa dentro di lui si spezzò.
2.
- L’autocolpevolizzazione inconscia – sussurra lo strizza chinandosi su di lui con la faccia a mezzo metro dalla sua – costituisce uno dei principali processi post traumatici.
Franz è sprofondato nella solita poltrona rossa davanti alla libreria, gli occhi fissi sul parquet nel tentativo di evitare lo sguardo dello strizza. Non gli è mai piaciuto particolarmente quel tipo, con le sue ***** di domande a cui doveva rispondere ‘dentro di sé’, il sorriso supponente, la fissa di parlare sottovoce e dargli de lei, ma oggi sembra ancora più sgradevole delle altre volte.
Lo studio è una stanza rettangolare con un’ampia finestra su cui quattro o cinque mosche sbattono cercando di uscire. Due brutte librerie di formica bianca stipate di manuali coprono le pareti e contro il muro opposto alla porta è sistemata una scrivania ingombra di carte. L’aria è soffocante e appiccicosa.
Il silenzio si protrae a lungo e Franz è costretto ad alzare la testa e guardare in faccia lo strizza. E’ così vicino che Franz può distinguere i pori sua pelle unta, ogni microscopico pelo della sua barba rossiccia appena accennata, il guizzo di luce intelligente negli occhi scuri…
C’è qualcosa di strano. Franz lo esamina minutamente, frugandogli il volto con lo sguardo. Sì, ne è certo. Nella consueta banalità di quei tratti visti e rivisti si nasconde qualcosa di profondamente sbagliato, d’indubitabilmente alieno.
Sembra un gigantesco scarafaggio travestito da essere umano. Franz si meraviglia del proprio mancato stupore. Davvero, non trova nulla di strano nell’idea che il suo strizza possa essersi trasformato in un enorme insetto; anzi, la ritiene una spiegazione del tutto plausibile.
Forse lo strizza intuisce qualcosa dall’espressione di Franz, perché di colpo si raddrizza e riprende il consueto tragitto circolare attorno alla poltrona dove è seduto. – L’autocolpevolizzazione inconscia – dice a voce ancora più bassa, grattandosi il mento sudato – come sai, generalmente è un processo temporaneo. Si verificano tuttavia alcuni rari casi in cui si protrae più a lungo a causa…
Qualcosa di flaccido e pesante sbatte contro la finestra. Franz d’istinto alza lo sguardo e sussulta disagio. Tre grosse tarme si sono aggiunte alle mosche alla finestra e lo spettacolo di quelle povere creature che si avventano contro una barriera a loro invisibile è straziante. Continuano a provarci... Continuano...
- … in quanto psicoterapeuta consulente del tribunale dei minori – sta dicendo lo strizza - mi sento in dovere di farle presente per l’ennesima volta – repetita iuvant – dicevano i latini - che ciò che lei si ostina a ritenere imputabile a se stesso in realtà non lo è. Il risultato dei test ha evidenziato la marginalità del suo coinvolgimento nella pianificazione del reato…
Peccato che l’idea in realtà fosse mia – pensa Franz con un gemito. E’ atterrito. La finestra pullula di varie specie di insetti e una decina di grosse falene svolazza stridendo per la stanza urtando la scrivania o gli scaffali della libreria, si posa sulle pareti. I ronzii delle ali, zampette che strisciano sul pavimento e i tonfi contro la finestra si uniscono a formare un’unica litania dolente in continua crescita.
- Lei deve considerarsi del tutto innocente – continua imperterrito lo strizza, la voce ridotta a un soffio che Franz paradossalmente riesce a sentire in quel frastuono. – Ha commesso un errore, certo, ma se proprio ha la necessità di trovare un colpevole, questi è Rashid Iqbar, il pregiudicato che a suo tempo – quando fu processato per spaccio - non avevo esitato a definire ‘instabile e violento’, reo di essersi servito di lei – se posso esprimere l’ennesimo parere personale – come strumento di autolegittimazione subconscia. Influenza da cui lei peraltro si è sottratto nel momento in cui la vita di quella donna è stata messa in pericolo. Lei ha agito con estremo coraggio – mi creda. Altro che colpevole, lei è un eroe!
Un ronzio lancinante lacera l’aria, ogni centimetro della stanza brulica di insetti di tutte le specie, che si accalcano gli uni sopra gli altri, divorandosi a vicenda in un'orrida pantomima della vita. Completamente preda dell’orrore, Franz cerca di proteggersi il viso, ma sono troppi. Lo ricoprono come un manto, gli pesano addosso, lo graffiano, lo mordono, gli si intrufolano nei vestiti, gli entrano in bocca e nelle orecchie e nel naso… Sono ovunque dentro di lui... Proliferano, gli lacerano il cuore, lo riducono a un guscio vuoto...
Lo strizza, trasformatosi in un immenso scarafaggio verdastro, striscia verso di lui punzecchiandogli le palle con le antenne pelose. E ora che Franz si riversa come una cascata di fumo nell’oscurità, lo stridere di cento milioni d’insetti diventa un urlo inconcepibile che si ripete all’infinito. – Eroe! Eroe! Eroe!
Annaspava nel buio fradicio… Affogava nella bile del cadavere putrefatto della notte-insetto…
Eroe! Eroe! Eroe!
Il mio salvacondotto per l’inferno…
Si svegliò. Era sdraiato su una panchina con la testa che gli pulsava dolorosamente, dall’odore capì che mentre dormiva si era vomitato addosso. Strisciò in avanti senza aprire gli occhi e vomitò di nuovo.
- Sono questi gli eroi? – urlò al parco silenzioso dopo un conato particolarmente violento. – Sono quelli come me gli eroi? – fece un altro conato. – Mi fanno schifo allora! ********** gli eroi!
Poi si sdraiò supino…
Sarà la decima volta questo mese. Devo smettere di bere.
Si riaddormentò.
3.
Sorse il sole e una brezza tiepida - inusuale per la fine di gennaio – spazzò via le nuvole. Franz andava verso casa, storcendo il naso per il fetore di vomito che lo circondava, e lentamente il pulsare alla testa diminuiva, si allentava anche il groppo allo stomaco, si schiarivano i suoi pensieri.
E mentre camminava sul ponte sopra il fiume guardava il parco tutt'attorno e gli venivano in mente tante cose. Pensava all’enorme prato verde bruno giù sulla destra, ai mille tramonti passati seduto là in compagnia, quando il sole screziava l’erba di luce e la rendeva d’oro, indicibile. Pensò alle canne, alle chitarre, alle sbronze, alle canzoni in cuffia, madide di boschi d’estate.
Pensò al sogno felice di quel maggio di cinquecento anni prima quando era strafatto di vita e ogni atomo del suo corpo ardeva d’isterica gioia, a quando saltava la scuola e si rotolava tutto il giorno su quel prato con il suo angelo più biondo dell’alba. Toccarsi come prigionieri, come due che stanno per morire, tossici dei rispettivi corpi; torturarsi di dolcezza finchè fa troppo male; due umidità una dentro l’altra – la connessione che salverà l’universo.
Pensò a come anche l’amore si era consumato passando per la solitudine, allo scheletro con il cuore infranto che era diventato per sbaglio. Al suo passo ubriaco di tante sere storte dedite al vomito e ai ricordi. Sembri un vecchio spezzato – gli rideva in faccia la gente; qualcuno cambiava strada per non passargli vicino. Quelle notti in cui aveva covato la sua rabbia montante.
Pensò al suo letto tagliente quando dormire era impensabile e perfide stelle gli graffiavano gli occhi. Quando tutte le canzoni facevano scricchiolare il cervello, e ogni pensiero s’incancreniva. Alle domeniche insensate quando il rasoio sembrava l’unico modo.
Pensò alle serate nei bar, lui e Rashid che sussurravano con le teste chine, sospettosi di tutti. Rabbia, odio, speranza. Abbiamo bisogno di cash, fratello. Prendiamocelo. Conosco un tipo che suo cugino lo hanno gamato colla cozza tipo doma gli vengono in casa e deve levarsi dalle palle un ferro. Si può fare.
Quando era arrivato quasi alla fine del ponte e già doveva girare la testa per scorgere il prato passò davanti ai suoi occhi il supermercato e l’incubo vissuto là dentro. Il rumore degli spari e il colore del sangue e gli occhi di Rashid. Era passato un anno ormai. Un anno di vuoto, un anno di vomito. Svegliarsi in posto sconosciuti, ricoperti di vomito.
Sì. L’ultima cosa a cui pensò prima voltare le spalle al prato e attraversare la strada fu che l’aveva ammazzato.
Chissà dov’è ora Rashid?
Una sola lacrima gli rigò la guancia.
In un posto dove non ci sono casini, sbirri, padri *******. In paradiso. Ne sono certo.