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Questo classico dell’horror gotico ha la struttura del lungo flashback nel quale il protagonista, il prof. Frankenstein, alla vigilia del confronto finale con il mostro da lui stesso creato si confida col capitano della nave che l’ha soccorso e gli racconta la storia della sua vita: dall’infanzia felice ai suoi studi di filosofia naturale, la chimica e la biologia che gli hanno consentito di creare una creatura vivente, ma un uomo dalle fattezze irresistibilmente orrende tuttavia.
Proprio il suo aspetto orripilante costituisce la causa dell’allontanamento da parte del suo stesso creatore, e il sentirsi rinnegato porterà a sua volta il mostro a intraprendere la via della crudele vendetta e diabolici massacri che possano placare la disperazione che gli deriva dal sentirsi apolide, rifiutato da tutti, incapace di destare anche solo un briciolo di empatia.

In questa prima parte del romanzo io ho trovato il momento di maggiore apertura alla riflessione esistenziale da parte dell’autrice. Non penso affatto che Frankenstein riproponga il mito di Prometeo, come suggerito da autorevoli critici letterari, il contesto mi sembra completamente diverso, così neppure mi è parso equiparabile alla cacciata di Adamo dall’Eden o di Lucifero dal paradiso.
Mi è sembrato molto più chiaramente una riproposizione in chiave pessimistica di Dio, nella figura del prof. Frankenstein, e della creazione dell’uomo, il mostro senza nome, appellato però con i più malevoli aggettivi. L’uomo non è quindi fatto a immagine e somiglianza di Dio bensì una creatura profondamente deforme e corrotta, che Dio non esita a scacciare e rinnegare, relegandolo a una vita di miseria e solitudine. Mi torna in mente la riflessione di Brad Pitt/Tyler Durden in “Fight club”: <<Devi considerare la possibilità che non piaci a Dio. Con ogni probabilità lui ti odia.>>

E dal senso di smarrimento che deriva da tale constatazione segue il male che tutti gli uomini fanno nell’annaspante ricerca di un poco d’amore, da parte dei suoi simili in genere e nell’amore romantico con ancora più disperante ma ancora vano augurio. Solo nel contatto con la natura e l’inanimata bellezza del creato il mostro trova di tanto in tanto parziale sollievo, e tuttavia come prevedibile ciò non basta a soddisfare il suo rabbioso bisogno d’accettazione tra i suoi simili.

Ancora ricco di passaggi di filosofia esistenziale, nel suo peregrinare senza meta il mostro giunge a causare indirettamente la morte di Dio, del suo creatore, e solo allora, quando realizza che la fonte del suo odio esistenziale era suo malgrado, l’unico riconoscimento della sua esistenza, che in qualche modo lo rendeva non-solo nel mondo, allora a lui si ricongiunge ravvedendosi per la vita di miseria che aveva deliberatamente condotto.

E’ un’opera che per quanto mi riguarda interroga profondamente il lettore sul suo rapporto con Dio (che ci creda o meno), con il creato e con l’amore e per questo, pur senza avvicinarsi minimamente allo spessore e il rigore ad esempio di Dostoevskij, merita un posto di rilievo nella grande letteratura di ogni tempo.

La prosa è scorrevole e gli eventi si succedono con grande fluidità. Non gli riconosco il voto massimo solo perché nella seconda parte saltano agli occhi incoerenze incredibili nelle azioni del protagonista e non trascurabili buchi nella trama.

Voto: 4/5

 

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