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La Nostra Storia - Fantasy


Joram Rosebringer

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  • Amministratore

La situazione era piuttosto imbarazzante.

I due giovani maghi e l'uomo col cane si fronteggiavano nel vicolo, sotto la leggera pioggia che continuava a scendere imperterrita, anche se sempre meno intensa.

"Ehm...già...è veramente un tempaccio. Ma qua è sempre così." disse Veck, pur di spezzare il silenzio. Cercò con lo sguardo un suggerimento da parte di Lariel, ma l'elfa sembrava distratta da qualcosa. Per cui, decise di tentare il tutto per tutto. "Scusi, signore, se posso chiedere... ha mica visto passare un uomo con un mantello nero, da questa parte?"

La domanda cadde come un fulmine. Lariel si voltò, stupita per l'incoscienza di Veck. L'uomo col cane abbassò una mano, avvicinandola alla balestra. "V-va bene, ragazzi. C-chi siete?"

Lariel stava per iniziare a rispondere, ma un gesto di Veck la interruppe. "Noi, signore" disse, con un tono di sufficienza, "siamo maghi dell'Accademia di Aalborg, nonché collaboratori della Guardia Cittadina, e stiamo indagando su un caso. Piuttosto, lei chi è?"

Rudin guardò l'espressione stupita della giovane elfa, e decise che poteva rilassarsi. Si concesse un mezzo sorriso. "R-ragazzi, p-penso che n-non sia il caso che v-ve ne occupiate voi. State l-lontani dai pericoli, è m-meglio."

Veck rimase piuttosto interdetto. Questo tizio sembrava essere lì con più cognizione di causa di loro... ma non per questo poteva dargliela vinta. "Guardi..."

"KIRNE!" gridò all'improvviso Lariel, aggiungendo un "Svijetlo!".

Un lampo di luce bianca illuminò il vicolo. Nella momentanea cecità, Rudin sentì un colpo, come di qualcosa che avesse colpito il muro alla sua sinistra, e il fruscio di un movimento alle sue spalle.

Veck aveva avuto l'accortezza di chiudere gli occhi, per cui riuscì a vedere la sagoma scura che si allontanava di corsa. Un suo "Ild!", e un dardo di fiamma saettò dalla sua mano, per andare a colpire il fuggitivo. Con un gemito, la sagoma si fermò.

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  • Amministratore

Il cane scattò nel vicolo. Dietro di lui, Rudin e Veck si affrettavano per raggiungere il misterioso assalitore. Solo Lariel se la stava prendendo con più calma, i suoi sensi estesi al massimo grazie alla magia, per cogliere qualsiasi minima traccia particolare.

L'assassino era steso a terra. Il proiettile infuocato di Veck gli aveva lasciato un buco su mantello e vestiti, ma la bruciatura sulla schiena non era molto estesa, e si stava riducendo sotto lo sguardo dei due uomini.

"I-indietro." Rudin si chinò sul corpo steso, che stava lentamente ricominciando a muoversi. Con poche rapide mosse, aveva assicurato i polsi dello sconosciuto dietro la sua schiena con delle manette di metallo, e per maggior sicurezza aveva legato insieme mani e piedi, in un nodo complicato che avrebbe vanificato qualsiasi tentativo di fuga.

Quando aprì gli occhi, Mandingo si trovò costretto in posizione seduta, con le ginocchia al petto, e mani e piedi bloccati. Tese i muscoli, ma i legami erano più robusti di quanto pensasse... avrebbe avuto bisogno di tempo. Improvvisamente si rese conto di essere in un vicolo, in compagnia del suo bersaglio e di quello stupido ragazzino umano che aveva visto prima con lui. Riversò sui due un torrente di maledizioni e insulti.

In tutta risposta, udì lo scatto di un dardo incoccato, e una parola magica appena sussurrata. Il vicolo fu illuminato da una fiammella, che apparentemente bruciava sulle dita del ragazzo senza ferirlo. L'altro uomo gli stava puntando una balestra in mezzo agli occhi.

Mandingo girò la testa e sputò, in segno di disprezzo. L'uomo che avrebbe dovuto uccidere gli chiese, con una insopportabile voce incerta: "C-chi sei tu? C-cosa vuoi da me?"

Mandingo sputò di nuovo.

Fu colto del tutto alla sprovvista dalle esili mani che gli si appoggiarono sulle tempie.

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  • Amministratore

Lariel era scivolata alle spalle di Mandingo mentre lui era distratto dai due uomini. Aveva tentato di percepire i suoi pensieri superficiali, come faceva di solito, ma aveva incontrato resistenza. Era come se questo sconosciuto fosse schermato, per lo meno a una lettura superficiale. Pertanto, si era decisa a tentare un approccio diverso, che però richiedeva un contatto fisico.

Agile come solo un'elfa può essere, si era portata esattamente alle sue spalle, e aveva appoggiato le sue piccole mani sulle tempie dell'uomo legato. Lo sentì tendersi al contatto, come se il tocco delicato gli procurasse un grande dolore, e lasciò vagare la sua percezione...

E' buio freddo non puoi entrare vattene vattene

La resistenza continuava. Lariel strinse i denti e, come se stesse cercando di sfondare un muro a testate, si concentrò in modo decisamente più aggressivo, anche se si trattava di un attacco mentale. I suoi sforzi furono premiati, quando la barriera oscura della mente di Mandingo cedette, e le immagini contenute al suo interno cominciarono a scorrere rapidamente davanti ai suoi occhi.

La prostituta di cui mi sono nutrito la sera prima l'uomo a cui ho spezzato il collo tre giorni fa le bambine che piangono mentre succhio il sangue dalla loro madre

Una dopo l'altra, centinaia e centinaia di flash della vita di Mandingo colpirono la sua mente, immagini di crudeltà, di vite che lui si era preso, per fame o per denaro. Un grido cominciò a salirle sulle labbra.

Lariel urlò.

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  • Amministratore

Veck si buttò di peso su Lariel, interrompendo il contatto con Mandingo.

Per un istante, sembrò che tutto si fosse fermato. Il vampiro, ancora bloccato nella sua posizione seduta, aveva lo sguardo fisso del vuoto. Lariel, invece, era stesa a terra, con Veck chino su di lei.

Il cane di Rudin, Schultz, le si era avvicinato, e le dava colpetti col naso. Lariel aprì gli occhi e riuscì a mettersi seduta. Improvvisamente, sentì la bocca piena di uno strano sapore metallico... capì che era il gusto del sangue, sangue delle persone di cui si era nutrita - no, di cui lui si era nutrito - e un conato di vomito le risalì dallo stomaco. Ebbe appena la forza di sussurrare "vampiro..." prima di perdere di nuovo i sensi.

Come se fosse ancora legato a lei, Mandingo eplose in una fragorosa risata. "E' così che pensate di fermarmi, voi ragazzini? Di fermare me, che attraverso queste terre da secoli... che uccido da secoli?"

Rudin si rivolse al giovane mago. "R-ragazzo, porta a c-casa la tua amica. D-di questo qui mi occupo io. La p-prigone di Aalborg è il p-posto che fa per lui."

Veck si caricò in braccio Lariel, ringraziando mentalmente gli dei per la corporatura degli elfi. "Signore, venga a cercarci all'Accademia dell'Arcana Maiestate. E' esattamente accanto al Palazzo del Reggente." Voltò le spalle e se ne andò.

"Bene, umano, siamo rimasti solo noi due... e insomma mi vuoi portare dalle guardie, eh? Povero idiota. Veytik bol!" Le sue ultime parole erano la formula di un incantesimo; Rudin sentì un dolore incredibile all'addome, come se un pugno l'avesse colpito in pieno stomaco, e si ritrovò sbalzato ad alcuni metri di distanza.

Mandingo, approfittando del vantaggio ottenuto, spezzò le corde che gli legavano mani e piedi. Con un movimento fluido, si sollevò. Era ancora ammanettato, ma la prospettiva di un combattimento facile gli disegnò un ghigno sul volto. Sarebbe stato divertente... "Allora, umano, adesso non sei più tanto sicuro della tua forza, vero? Vuoi ancora consegnarmi alle guardie?"

Sentì ancora una volta lo scatto di una balestra che si armava.

"V-vampiro, ha d-detto l'elfa... p-per te non ci sono guardie. Hai v-vissuto abbastanza, p-parassita." La balestra scattò. Un dardo d'argento saettò nell'aria, e colpì Mandingo esattamente al centro del petto.

Un istante dopo, di lui non rimaneva che un mucchietto di cenere, che formava una poltiglia disgustosa in una pozzanghera, e pochi effetti personali.

Rudin raccolse il suo dardo, le sue manette e la sacca del vampiro. "V-vieni, Schultz. A-andiamo a riposare. D-domani abbiamo un bel po' d-di lavoro da fare."

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Procedette lentamente nel bosco per qualche minuto, indeciso sulla direzione da intraprendere. Non aveva la più pallida idea di dove si trovasse, così come un velo grigio gli obnubilava la mente ogni volta che provava a ricordare ciò che gli era accaduto prima di svegliarsi sulla spiaggia. Di conseguenza, ogni direzione avrebbe fatto al caso suo, purchè lo portasse a un insediamento umano, elfico o gnomico.

La foresta non aveva sentieri, così il ragazzo si girò di novanta gradi alla sua sinistra e s’incamminò. L’ambiente attorno lui era di una monotonia ossessiva, cespugli e alberi dal fusto basso crescevano con un rigoglio quasi malvagio in un suolo fatto di pozze d’acqua stagnante. L’aria era talmente umida e spessa che ogni respiro gli costava una leggera perla di sudore sulla fronte.

Dopo più di tre ore di marcia, il giovane si gettò a terra, stremato dalla combinazione fra il caldo e la marcia in quel luogo ostile. Fra le cime degli alberi intravedeva il sole, che in quel momento era allo zenit. Lo si poteva rilevare anche da un ulteriore aumento della temperatura, resa ancora più insostenibile.

Sdraiato supino a respirare lentamente l’aria afosa e soffocante del mezzogiorno, il ragazzo si accorse di avere fame. Era un problema la quale non aveva mai pensato sulla spiaggia Per un istante fu tentato di cibarsi di bacche e frutti, che abbondavano nella foresta, ma poi il suo istinto gli trasmise una sorta di vibrazione negativa, così decise di digiunare, almeno fino a quando non avesse individuato qualcosa di più commestibile.

Dopo un’ora di riposo all’ombra del fusto nodoso di uno strano albero dalle foglie violacee, si rialzò e riprese la marcia. Camminò con la fame che lo incalzava mano a mano più crudele fino al tramonto. Solo allora, esausto, si sedette a terra. Aveva sonno e un gran bisogno di dormire se voleva riprendere le forze senza mangiare. Mentre si sdraiava sulla terra umida, impaurito dalla solenne oscurità della foresta, i morsi della fame si fecero sempre più insistenti. Nonostante il panico strisciante che lo attanagliava ogni volta che il vento muoveva una fronda del bosco, si addormentò in poco tempo.

Sognò una figura incappucciata, due occhi iniettati di sangue, le pupille dilatate, ipnotiche. Era il volto di un folle.

Si svegliò alle prime luci dell’alba, più affamato di come si era addormentato, un dolore pulsante nelle tempie. Stropicciandosi le palpebre intorpidite, venne colto da un profondo senso di nausea per la vita, sentiva che qualcuno usava la sua mente come un antenna di risonanza, era solo un vuoto strumento. Poi la pressione aumentò, diventò insostenibile. Davanti agli occhi vedeva un velo nero, mentre il suo cervello risuonava di una voce fredda e irata, che gli ordinava di fare qualcosa.

Uccidere il mago. Uccidilo prima che llui uccida noi. Lui sa. Non tutto, ma sta cominciando a capire.

Quale mago? Non ne conosco nessuno! non so neanche come fare a ucciderne uno!

Queste sono bugie. Ma non è ancora necessario che tu lo sappia. Trovalo, ti dirò io come ucciderlo.

Ok! come vuoi! basta che questo dolore finisca! Smettila! Ti prego!

Trovalo.

Trovalo.

Trovalo.

Il ragazzo si accasciò a terra, svuotato da qualsiasi sensazione. Cadde a terra, in un vortice di vertigini roteanti. Svenne.

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Lòlindir aveva appena finito di trangugiare una schifezza che il giorno prima gli avevano vendunto come pane, e decise di non mangiare il resto, almeno finchè non fosse stato davvero disperato e stremato dalla fame. Almeno il fatto positivo è che aveva conosciuto l'uomo che forse avrebbe potuto fargli fare un salto di qualità. Si era presentato col nome di Fastolph... falso ovviamente, ma le sue idee lo avevano convinto ed aveva accettato di incontrarlo nel boschetto poco lontano da un borgo abbastanza frequentato per... parlare. Naturalmente Lòlindir non era uno stupido, ed oltre ad essere armato fino ai denti, aveva (come aveva imparato anni prima) esteso i propri sensi, fondendoli con il resto dell'ambiente. Ogni cosa che avveniva nei dintorni era sentita dal giovane monaco come se succedesse a lui personalmente. il sole era gia molto alto, anche se i fitti rami impedivano ai suoi raggi di filtrare sul suolo, e l'ora dell'incontro era ormai prossima, quando da dietro un cespuglio, sentì scoccata una freccia, contro di lui. Impiegò poco ad analizzare le informazioni, allungò il braccio verso la sua sacca, e mentre schivava la freccia lanciò un paio di shuriken verso il cespuglio, con una mira che solo un vero esperto poteva avere, e fatto ciò mise mano alla spada e si girò. ma mentre il suo corpo si voltava, notò qualcosa che non si aspettava. Infatti oltre al sangue che colava dal cespuglio, vide inchiodato dalla freccia ad un albero, l'uomo con cui aveva parlato il giorno prima, il quale però teneva ancora in mano una pesante ascia. prima di morire ebbe solo il tempo per ringhiare contro Lòlindir. Il ragazzo era scioccato, aveva forse ucciso un innocente che cercava di salvarlo. In fondo nessuno glielo aveva chiesto, e se non fosse stato per la sua freccia che lo aveva distratto, si sarebbe accorto del pericolo imminente; o forse no. Decise allora di controllare dietro al cespuglio, ma quando si affacciò, non vide altro che una chiazza di sangue, qualche goccia intorno e poi nulla piu.

Date le circostanze, si diresse verso il paesino, sperando di riposare e guadagnare qualche soldo per il suo prossimo viaggio.

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  • 2 settimane dopo...

Erano passati due giorni e una notte. Il ragazzo era stremato. Delirante per la fame, riusciva a muovere il proprio corpo con la sola forza della disperazione. Il suo unico pensiero fisso era l’immagine di un piatto di carne, con un contorno di insalata, simile ai gustosi piatti che mangiava sempre a… dove non lo sapeva, non se lo ricordava E non gli importava, la sola cosa che contava era che al di là di quel gruppo d’alberi forse avrebbe trovato da mangiare. La notte passata non aveva dormito, per paura che quella forza facesse di nuovo capolino in lui, facendo tornare quel dolore orrendo. Si era costretto a camminare anche nell’oscurità della foresta, la fame più forte del panico che lo pervadeva. Più volte era stato tentato di cibarsi di alcune bacche, ma era sempre riuscito a trattenersi.

In quel momento, però, era veramente distrutto. Se non avesse mangiato qualcosa entro pochi minuti, lo sapeva, il suo corpo si sarebbe ribellato, facendolo morire lì, in quel bosco infame. E il giovane non voleva andarsene in quel modo. In quell’ottenebrante penombra che gli permeava la mente come un velo nero, la sua volontà rifiutava ancora di arrendersi. Avanti. Avanti. Ancora avanti. Quella maledetta foresta sarebbe finita, prima o poi, e lui ne sarebbe uscito vivo.

Ancora qualche passo e il ragazzo non ebbe più energia sufficiente a camminare, così si mise carponi, cercando di strisciare in avanti, nell’estremo tentativo di proseguire nella propria strada. Ma dentro di lui quel qualcosa che lo aveva fatto andare avanti fino ad allora si era spezzato. Quella misteriosa forza che lo aveva spronato a non arrendersi, a continuare a lottare, era svanita Sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Sarebbe morto di lì a pochi istanti, il suo corpo si sarebbe decomposto e nessuno avrebbe mai sospettato della sua esistenza.

Proprio quando il ragazzo sentì l’ultimo barlume di coscienza innalzarsi verso il cielo, non lasciando in lui alcuna traccia d’intelletto, trasformandolo in un guscio vuoto in attesa che il cuore smettesse di pompare il suo sangue secco, vide la foresta finire bruscamente.

Nonostante la vista annebbiata, nonostante più di una volta avesse avuto il miraggio di qualcosa di commestibile nelle ultime ore, il giovane capì di essere riuscito ad attraversare il bosco. Una magra consolazione, pensava, anzi, una beffa, uno scherzo crudele del destino, scoprire di morire proprio quando la vita era a portata di mano.

Senza avere la più pallida coscienza di ciò che stesse facendo, si alzò in pieni e si mise a correre verso la fine della foresta. L’orizzonte si apriva su una pianura, nella quale si intravedeva a brevissima distanza un villaggio. Anzi, a osservarne meglio le dimensioni, una città. A quella vista la sua corsa si fece ancora più frenetica e febbrile. Sentiva il cuore faticare per sostenere il passo scelto dal cervello. Le endorfine lo resero insensibile alla fatica, al dolore, ai crampi allo stomaco, al senso d’impotenza che un minuto prima gli avevano reso impossibile procedere. E mentre si lanciava come un folle nella pianura afosa, dimezzando in pochi secondi la distanza dalla città, non riusciva a pensare lucidamente. Doveva solo correre. Correre. E correre.

E finalmente entrò nella città. Era sera inoltrata, le strade erano quasi del tutto prive di persone, le botteghe e gli esercizi erano chiusi. I pochi abitanti che incrociava sembravano squadrarlo con un misto di pena e paura. Doveva sembrare un invasato. Era un invasato.

Dopo un paio di minuti di corsa forsennata scorse l’insegna sbilenca di una locanda. Non fece in tempo a leggerne il nome, ma gli parve che c’entrasse qualcosa un orso. Ma nulla aveva importanza per lui, tranne il piatto fumante di carne che avrebbe divorato entro pochi minuti.

Entrò sempre correndo, sbattendo la porta in faccia a chi usciva davanti a lui. Senza prendersi la briga di dare segno di conoscere le più elementari regole di civiltà, chiese urlando:

-Datemi qualcosa da mangiare! Vi scongiuro! Muoio di fame!

-Hai danaro?- chiese un cameriere dall’aria stupefatta., riprendendosi con grande tempismo dallo shock.

Senza pensarci un secondo, il ragazzo rispose: -Certamente! Prima voglio mangiare però!

Senza nemmeno accorgersi dello scompiglio che il suo ingresso aveva provocato nella locanda, si stravaccò sulla panca di un tavolino in un angolo e attese. Si concentrò su qualsiasi cosa non fosse mangiare, perché altrimenti avrebbe addentato qualsiasi cosa gli fosse capitata sotto tiro. Si mise a osservare l’ambiente, mentre le mani gli si torcevano febbrilmente in attesa del cibo. L’interno della locando era prevalentemente in legno, gli avventori erano seduti attorno a cinque o sei tavoli e giocavano a carte, cercando di nascondere la curiosità che provavano per il nuovo cliente.

Un uomo in piedi al bancone a scolare boccali e boccali di schiumosa birra scura, osservò divertito il suo simile, il nuovo entrato che avrebbe potuto avere sedici anni, avventarsi sulla braciola che gli veniva portata e divorarla a morsi, come un animale che sbrana la sua preda.

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Olbeon uscì dalla porta della locanda.

Fuori da li la folla si era radunata attorno all'orco, che teneva la sua mazza appoggiata a terra.

Già, la terra.

Olbeon si guardò attorno, mentre si portava di fronte all'avversario, lentamente.

Non era una buona giornata per morire, decisamente. Aveva piovuto fino a poco prima, e lui era ancora stordito dall'ubriacatura.

L'adrenalina aveva un po' smorzato l'effetto, e l'acqua che aveva trovato nella sua stanza e che aveva usato per sciacquarsi il volto l'aveva ridestato dallo stato di confusione in cui si trovava.

Ma non si riteneva comunque pronto per uno scontro come quello.

L'orco urlò, all'improvviso, alzando la mazza sopra la testa, con due mani, e schiantandola per terra con violenza.

L'acqua del terreno schizzò tutto attorno, sporcando il viso di Olbeon, che non si mosse, impassibile.

L'acqua. Una serie di pensieri confusi e scordinati percorsero il cranio del nano, che non riuscì a decifrarli, tra lo stordimento dell'alcool e la confusione della folla.

Ma riuscì a rendersi conto che era qualcosa di importante, quello che aveva in testa, e si concentrò per mettere a fuoco.

Si appoggiò l'ascia sulla spalla destra, la lama dietro la schiena e la mano destra appoggiata al manico per bilanciarla.

Con un gesto improvviso dell'altra mano fece tacere il pubblico sorpreso, che dopo qualche secondo scoppiò in una risata sonora, esattamente quando un "Prrrrr" arrivò dalle file retrostanti.

Ma quei pochi secondi di silenzio avevano permesso al nano di fermare i pensieri, e collocarli al loro posto.

Alzò lo sguardo, deciso, giusto in tempo per vedere che l'orco si era stancato di aspettare e stava andando verso di lui con la mazza tra le mani.

L'avversario si era messo un armatura di metallo leggero addosso, sul busto, che offriva una misera protezione; il nano iniziò a indietreggiare, spostandosi tatticamente verso l'angolo dell'edificio, dietro di lui.

Quando si trovò dove voleva sorrise e urlò: "e allora, goblin, hai paura?FATTI SOTTO!".

L'orco sgranò gli occhi, esattamente come voleva lui, e caricò a testa bassa urlando.

Olbeon lo attese, tanto.

Troppo, pensò ad un certo punto.

La mazza stava salendo in un arco dal basso verso l'alto, con una traiettoria decisa verso il suo mento, mentre l'orco proseguiva nella sua corsa.

Olbeon si lanciò all'ultimo momento verso la propria destra, al centro della strada. Fu un vero e proprio tuffo, disperato, incurante della gente a pochi metri da la.

Ma prima di tuffarsi riuscì a fare quello che aveva in mente.

Lanciò la propria ascia, manico compreso, tra le gambe dell'orco caricante. Questo cercò di evitarla come poteva, sbilanciato dalla carica sfrenata che stava compiendo, non pronto all'evenienza, e incespicò.

Non quanto avrebbe voluto Olbeon, però.

L'ascia restò nel fango dietro all'orco, mentre questo cercava di non perdere l'equilibrio rallentando la sua corsa. Ormai la mazza era tenuta con una mano sola, scompostamente, e il peso era tutto sbilanciato in avanti.

E a quel punto il nano si ritrovò a sperare che la pozzanghera in cui era finito prima, quando era volato fuori dalla locanda ubriaco, fosse abbastanza profonda da finire il lavoro che la sua ascia non era riuscita a portare a termine.

E cosi fu.

L'orco ci finì dentro di peso, piantandosi con i piedi nel fango al suo interno, e rimanendo completamente intrappolato.

Cadde a terra in avanti, di faccia, attutendo appena la caduta con la mano libera, mentre abbandonava la mazza.

Fini con il volto nel fango, a gambe all'aria.

Olbeon costrinse il proprio corpo ad alzarsi più in fretta possibile, benedendo il momento in cui aveva deciso di non mettersi l'armatura, in camera.

Corse verso l'orco, con la testa che aveva ripreso a pulsare per l'alcol, dopo quel tuffo, e si lanciò in piedi sulla schiena dell'avversario, che aveva puntato le braccia per cercare di rialzarsi, mentre riacquistava la vista ricoperta di fango.

Il peso del nano sulla schiena lo ricacciò con la bocca nel fango, con un urlo di rabbia.

E rimase fermo, a sentire la lama del pugnale dell'avversario appoggiata alla gola.

"Beh, non urlì più tanto eh? La voglia di aprirti questa sudicia gola sarebbe molta, se non fosse che poi mi ritroverei tutta la guardia cittadina alle costole.

E allora mi limito a impedirti di nuocere ancora!"

Olbeon alzò il pugnale di scatto e lo conficcò a terra, dove si trovava la mano dell'orco.

Un urlò parti sonoro nella strada, un urlo di dolore e rabbia, mentre le dita della mano destra dell'orco si staccavano di netto dalla sua mano.

Olbeon fece un salto di lato, pulì il pugnale sui pantaloni, e raccolse l'ascia, lasciando che la folla si occupasse del suo sfortunato avversario.

Alzò gli occhi, e vide l'uomo con il gatto in mano: "Beh, credo dovrò andarmene anceh da questa città...bah..ormai sta diventanto un abitudine..."

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  • 3 settimane dopo...

A Lariel sembrò di essere di nuovo sulla piccola barca bianca, con cui suo padre portava lei e la madre sull’Angafel, il Lago lucente. Si sentiva invasa da una sensazione di torpore da cui desiderava solo in parte riprendersi. Alla fine, con uno sforzo notevole, aprì gli occhi, sbattendo più volte le palpebre, cercando di mettere a fuoco il viso sopra di lei.

No, decisamente non era suo padre. Era Veck, e la stava portando in braccio. Non riusciva a capirne il motivo, non ricordava cosa fosse successo.

La nausea la assalì improvvisamente, mentre davanti ai suoi occhi si ripresentavano quelle terribili immagini. Cerco di allontanarle con le mani, agitandosi tra le braccia di Veck.

“Lariel, calmati! E’ passato ormai… siamo quasi arrivati all’Accademia” le disse con la voce un po’ affannata.

Finalmente arrivarono di fronte al grande portone d’ingresso della scuola. Veck aiutò Lariel a rimettersi in piedi e la sostenne mentre salivano i pochi scalini che conducevano alla porta. L’elfa si sentiva estremamente debole, completamente svuotata di ogni energia, mentre le immagini nella sua mente si facevano sempre più indistinte e nebulose.

Veck la guardò perplesso: entrare nella mente di un non-morto non doveva essere un’esperienza piacevole.

Una volta nell’atrio, Lariel si bloccò e fissò con sguardo supplicante Veck: “Kirne, io… io non mi sento bene. Sarebbe un problema per te, andare a presentare il rapporto da solo?”.

Veck sorrise lievemente: “No, assolutamente. Più tardi, quando ti senti meglio, ti farò sapere com’è andata”.

Lariel si diresse verso la scalinata che portava al piano superiore e salì lentamente gli scalini, mentre un angolo della sua mente rielaborava ciò che aveva visto nella stanza di quel palazzo.

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Ancora una volta, Vecadian Kirne si trovava nell’ufficio del rettore. Dall’altra parte della scrivania, oltre all’anziano direttore dell’Accademia, c’erano due uomini cupi, con l’uniforme delle guardie cittadine e un distintivo che ne indicava un grado piuttosto alto.

“…e oltre ai segni di bruciatura, all’interno dell’appartamento abbiamo trovato diversi oggetti fuori posto. Supponiamo che ci sia stata una… una specie di lotta, e uno dei due abbia usato un qualche incantesimo di fuoco.” finì di raccontare Veck.

“Bene, giovanotto” intervenne in tono glaciale una delle due guardie, un uomo con un paio di baffoni neri. “Formuleremo noi il verbale esatto. C’è altro da segnalare?”

“Beh…” Veck esitò un attimo. “No, nient’altro. Sicuramente voi saprete tirar fuori più cose utili da quell’appartamento di noi. Io direi che la segnalazione dell’esplosione sia un uso improprio di magia offensiva.”

Le guardie si scambiarono un cenno con la testa. “Bene. Grazie per la vostra collaborazione, e alla prossima.” Si avviarono verso la porta, poi la guardia con i baffi si fermò: “E comunque, non possiamo mettere a verbale l’uso non autorizzato della magia. Pare che il proprietario dell’appartamento avesse una licenza da stregone.” Salutò di nuovo, e uscì.

Dopo che le guardie furono uscite, Veck rimase in piedi di fronte al rettore. Si sentiva vagamente a disagio. “Ah, signor Kirne” disse il vecchio mago, “ritengo abbia dei buoni motivi per tacere tante informazioni alle guardie.” Veck deglutì; aveva l’impressione che il rettore potesse leggerlo come un libro aperto. “Questo, tuttavia, significa che sta a lei e alla signorina Elencur arrivare in fondo a questa questione. Gradirei che i vostri progressi mi siano riportati con una frequenza almeno settimanale. E ora, vada a vedere come sta la sua collega, se non c’è altro.”

Veck sospirò. “Mi scusi, signor rettore, avrei una domanda… sul luogo dell’esplosione abbiamo trovato questo.” Gli mostrò il copricapo di piume. “Sa cosa significa?”

“Sì, ne ho visti alcuni. Prima di andare dalla signorina Elencur, passi in biblioteca, e cerchi un libro sulla tradizione dei Piromanti del Fuoco Purificatore. Dovrebbe rispondere alle sue domande.”

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Il gatto sembrava ancora tramortito, eppure Xarioki lo depose sul terreno bagnato e si fece incontro al nano che lo guardava con determinazione. Allungò la mano:

-Devo ringraziarti a quanto pare. Il mio nome è Xarioki.-

Il nano non ricambiò la stretta di mano e tutto sommato ragionò Xarioki era meglio così a giudicare dal fango che lo imbrattava.

-Piacere- gli ringhiò quasi in risposta- Il mio nome è Olbeon e non mi devi nulla straniero. L'ho fatto soltanto per divertimento…e poi a dirla tutta non mi piace la gente che tortura gli animali.-

Cassiel dietro di loro scoppiò a ridere suscitando in Olbeon un'espressione perplessa. Quando se ne accorse il sorriso gli morì immediatamente sulla labbra:

-Scusa. Non era mia intenzione offenderti. Il mio nome è Cassiel.-

Olbeon lo salutò con un cenno.

Xarioki riprese in braccio il gatto, ma questo non sembrò gradire.

No non ne ho bisogno.

Gli sfuggì tra le braccia ed avanzò verso il nano.

Puzza. Come una botte di vino andato in aceto.

Il nano ricambiò l'attenzione con interesse.

-E' tuo il gatto?-

-E' il mio famiglio,-rispose Xarioki- e penso di sì penso che tu gli piaccia per quanto gli possano piacere le persone…-

Il nano scoppiò a ridere e si voltò ad osservare gli inutili tentativi dell'orco di risollevarsi dal fango. Nonostante qualcuno della taverna lo stesse aiutando ora la sua stazza era talmente robusta da rendere ogni tentativo pressochè inutile. Uno degli avventori della taverna raggiunse il nano e gli restituì l'ascia con rispetto: -Ha detto l'oste che se preferite potete essere suoi ospiti nella locanda per stanotte.-

Olbeon grugnì stavolta quasi, alzando la testa verso il cielo che andava annerendosi. Prometteva pioggia, ancora. Grosse gocce cominciavano già a martellare il terreno schizzando tutt'attorno di fango.

In lontananza si udì un tuono, basso e profondo.

Xarioki alzò la testa verso il cielo nero, sentendo che c'era qualcosa che non andava. Qualcosa della quale avrebbe dovuto rendersi immediatamente conto.

Un altro tuono rimbombò cupo… ma stavolta più vicino, molto più vicino.

Mentre il gatto sfrecciava verso l'ingresso della locanda e la pioggia scendeva sempre più violentemente Xarioki capì.

Non si era visto alcun lampo.

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Rudin Evarick aveva un traccia.

A Unniver, negli ambienti frequentati dalle guardie cittadine, si sapeva bene cosa questo comportasse: un'ossessione quasi morbosa per quel dettaglio, un'orma, un pezzo di stoffa, un pugnale, una macchia di sangue...

E se anche quell'indizio probabilmente non c'entrava nulla con la pista che stava seguendo, doveva scoprire cos'era.

Tuttavia, non era ad Unniver: non poteva contare nè sullo studio alla sede delle Guardie Cittadine nè sulla scrivania piena di appunti a casa sua. Una taverna non era certo il luogo adatto, e non poteva permettersi di affittare una stanza solo per avere un po' di privacy. Però forse c'era un luogo appropriato...

«Che n-ne d-dici Schultz? Aalborg è abbastanza grande p-per avere una bi-biblioteca?»

Si rivolse verso un passante, ma questi non diede ascoltò al suo balbettio, così come il secondo. Finalmente, un ometto alto poco più di un metro, uno gnomo probabilmente, con un cappello a cilindro, baffetti a spazzola, bastone da passeggio e un mantello nero molto sofisticato si fermò ad ascoltarlo.

«Sì? Mi dica, mi dica!»

«M-Molto gentile. Vorrei s-sap...»

«Ohi, signore, signore! Non morde mica quel cane, vero?»

«Non abbia ti-timore. Schultz, a c-cuccia.» Il cane si sedette sulle zampe posteriori «Adesso po-potrebbe...»

«No, no, perchè sa, mi pareva mi ringhiasse contro!»

«N-no, è b-buono.»

«Mi scusi se la interrompo eh, giovanotto, mi scusi, ma per caso le metto soggezione? Perchè mi pare di notare una certa difficoltà a parlare... non la mangio mica, sa!» e spiccò una risata argentina «Al massimo mi mangerà il suo cane!» un'altra risata.

Rudin strinse l'indizio nella mano e si concentrò su di esso. Poi, lentamente, parlò: «No, n-non ho pa-paura, è un di-difetto, un problema co-congenito che ho d-dalla nascita. E n-no, il mio c-cane non l-la attaccherà. Ora, p-potreb...»

«Era una battuta, quella del cane, eh, giovanotto! Non te la sarai mica presa!» lo gnomo sorrise ancora di più e fece l'occhiolino da sotto il cappello.

«Avevo c-colto. Ora, p-per cortesia, mi-mi sa d-dire se c'è una bi-bi-biblioteca qui ad Aalborg?»

«Ah, la biblioteca! Sì sì, certo che c'è! Una grande bella biblioteca, abbiamo qui ad Aalborg! Non si direbbe, vista la città, ma è molto fornita e decisamente ben tenuta!»

«Le s-seccherebbe m-molto d-dirmi dove?»

«Ma no, certo! L'edificio più grande di tutti! Qui ad Aalborg, la biblioteca la gestisce l'Accademia dell'Arcana Maiestate! É giusto...»

«G-grazie! So d-dov'è. É s-stato molto g-gentile. B-buona giornata.»

«Oh! Di niente! Dovere! Ha bisogno d'altro? Un alloggio, o altro? Conosco molto bene la mia città: mio cugino di secondo grado lavora al catasto!»

Rudin, muovendosi verso l'Accademia seguito da Schultz, fece finta di non sentire.

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La pioggia ora cadeva in maniera martellante, quasi come un temporale di mezza estate. Xarioki e Cassiel non poterono fare altro che rientrare nella sala comune della locanda, là dove il pasto ormai freddo aspettava di essere ancora iniziato, da prima. L'oste con incredibile solerzia passò a ritirare i piatti e li sostituì con un pasto caldo. Forse le cose si stavano mettendo bene per loro…

Olbeon si era fatto preparare un altro bagno caldo e per il momento era scomparso; aveva promesso che li avrebbe raggiunti e che avrebbero parlato. Dopo.

Che gli tenessero da parte qualcosa da bere, non birra però, ne aveva avuto abbastanza per oggi. E soprattutto aveva bisogno di qualcosa da mangiare: la tensione del combattimento gli aveva messo su una certa fame.

Cassiel rimestava con un rozzo cucchiaio di legno il contenuto bollente della propria minestra di verdure, od almeno di qualcosa che ne aveva l'aspetto. Una cipolla intera venne a galla con uno strano gorgoglio. Fuori tutt'ad un tratto si era fatto scuro, come la pece. L'acqua scrosciava minacciosa in un rimbombo che minacciava a momenti di irrompere come un fiume in piena anche in quella locanda, ora calda e tutto sommato accogliente. Per lo meno nessuno degli altri avventori osava più rivolgere loro neppure uno sguardo, ora. Forse perché rispettavano Olbeon, oppure perché li ritenevano fin troppo strani per poterli avvicinare. Xarioki non se ne fece un cruccio. Forse era meglio così. Erano accadute tante di quelle cose da quando si era ritrovato in questo strano mondo, adesso era venuto il momento di riflettere con calma su che cosa fare.

Cassiel era silenzioso. Per fortuna, pensò, Kyra non aveva voluto entrare in città. Troppi rischi, troppi pericoli. E difatti erano già rimasti coinvolti in una rissa. Chissà come se la stava cavando lei là fuori.

Il gatto si stava asciugando vicino al camino, curandosi con malcelato interesse le zampe infangate.

Tutto bene? Gli chiese Xarioki, senza avere risposta.

Per il momento era troppo indaffarato forse.

Devo forse chiamare l'orco? Xarioki accentuò il pensiero in maniera sarcastica, sperando di attirare l'attenzione dell'impertinente famiglio.

Certo. Non c'era bisogno che tu mi minacciassi, avevo sentito. Soltanto che sono occupato al momento.

Xarioki preferì non commentare e lasciò perdere, incapace di capire chi o cosa fosse realmente quel gatto.

Ora però avevano un altro problema da affrontare e per questo si rivolse con impazienza a Cassiel:

-Abbiamo una questione da risolvere in sospeso.-

L'altro sollevò il capo con espressione perplessa, scosso per un istante dai propri pensieri. Poi con un cenno secco del capo indicò di avere capito: -Non oggi. Non con questo tempo. Kyra là fuori saprà cavarsela…-

Quasi a sottolineare il concetto un rombo vicino si ripercosse nell'aria. Nessun lampo.

Xarioki guardò fuori dalla finestra della locanda ma era come se vi fosse una cortina impenetrabile di acqua e di oscurità. Non si vedeva nulla.

Poi un uomo grondante e trafelato infilò la porta e l'unica cosa che riuscirono a sentire fu:

-La foresta brucia! Fuoco! Fuoco dappertutto!-

Un istante di silenzio precedette un'immensa risata comune. I canti e le chiacchere continuarono come se nulla fosse. Ma l'uomo rimase sulla soglia, un'espressione terrorizzata sul volto.

-Brucia brucia tutto! È l'acqua che brucia…- urlò per poi accasciarsi a terra.

Nessuno ci fece più di tanto caso. L'uomo era riverso all'ingresso della locanda, ma evidentemente era un pazzo od un ubriaco. Fuori l'acqua si riversava dal cielo quasi con violenza. Non c'era bisogno di prestare attenzione alle farneticazioni di un pazzo… Ma Cassiel guardava con stupore lo specchio della porta.

Xarioki si girò osservando l'espressione sconvolta di Cassiel ed osservò il nuovo arrivato.

Aveva la pelle arrossata ed ustionata da un incendio, ma i vestiti erano al contempo anneriti dal fumo e completamente fradici, appiccicati alle forme flessuose della metà umana del corpo. Era tutta intera ed in perfetta salute.

Kyra agitò con impazienza gli zoccoli sull'ingresso della locanda, guardandosi attorno. Ed improvvisamente tutti si voltarono ammutoliti a fissare la centaura.

-Dice la verità invece, -esclamò- la foresta sta bruciando.-

Un brusio si diffuse nella locanda.

-Ma com'è possibile? Fuori sta piovendo!- esclamò di rimando un uomo vicino a Xarioki.

La centaura tese una mano verso l'individuo sulla porta della locanda e lo aiutò a rimettersi in piedi prima di rispondere.

-Non sono fiamme normali. Sono fiamme blu e l'acqua non le sta spegnendo… se non troviamo il modo per fermarle ridurrà tutto in cenere, visto che il vento le sta portando da questa parte.-

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La pioggia fuori scrosciava più forte di prima. Le gocce che battevano violente sul vetro rendevano il silenzio della stanza inquietante.

Lariel stava stesa sul letto, fissando il soffitto come se potesse vedere ciò che vi era oltre. Non riusciva a riordinare le idee: la stanza, l'aggressione, la sensazione di oscurità, l'essere immondo che aveva riversato nella sua mente tanto dolore. Sentiva una profonda angoscia ma, allo stesso tempo, un angolo della sua mente, ancora ancorato alla razionalità, cercava di dare un filo logico a tutto quanto.

Il bussare alla porta la fece sussultare e rimase qualche secondo in apnea, prima di chiedere chi fosse.

"Lariel, sono io", la voce pacata della professoressa Malinal la tranquillizzò. Si mise a sedere, mentre l'elfa entrava con passo leggero nella stanza.

Keryal Malinal insegnava nell'Accademia da più di settant'anni, dopo aver studiato a lungo nell'Alta Scuola Elfica di Nilindë, ed aveva raggiunto tali livelli nell'arte divinatoria, da venir consultata da molti incantatori dal nome prestigioso.

Ma per Lariel era soprattutto una guida e una confidente. E quando Keryal non aveva visto la giovane elfa insieme a Kirne, aveva capito che doveva essere successo qualcosa di spiacevole.

Si sedette nel letto accanto a Lariel, attendendo paziente che le dicesse cos'era accaduto.

"Keryal", disse infine l'elfa, dopo un lungo silenzio, "oggi ho visto qualcosa che qui all'Accademia non mi è mai stato insegnato".

L'elfa più anziana le rivolse uno sguardo preoccupato: "Non tutto può essere insegnato, e non a tutti. Ma le tue conoscenze sono comunque ad un livello più che discreto. Che cosa puoi aver visto di così... insolito?".

"No, insolito non è la parola corretta, direi... spaventoso!".

Le mani di Lariel cominciarono a tremare, come anche la sua voce: "In quella stanza, dove siamo stati mandati, c'era qualcosa di incomprensibile, di insondabile. Quando ho provato a visualizzarlo meglio, è stato come venire inghiottita dall'oscurità. Era come se la luce fosse sparita, assorbita". Lariel pronunciò queste ultime parole con particolare enfasi, conscia che nessun termine avrebbe potuto spiegare appieno ciò che aveva visto.

Keryal rimase in silenzio, riflettendo sulle parole della sua allieva.

Lariel continuò: "E poi, quella creatura... quel vampiro!".

A queste parole l'insegnante sollevò un sopracciglio, incuriosita. Era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva incontrato un simile essere e non era affatto contenta che ne fosse comparso uno proprio lì ad Aalborg.

Lariel le raccontò dell'incontro inquietante col vampiro e anche con quell'uomo particolare, Rudin. Keryal l'ascoltò con attenzione e trasse un profondo respiro. Si alzò in piedi e cominciò a camminare avanti e indietro per la stanza.

"Vedi, la magia oscura con cui hai avuto a che fare, non solo non verrà mai insegnata in questa scuola, ma è probabile che anche molti degli insegnanti non la conoscano".

"Ma la magia nera non è vietata, almeno, non in assoluto".

"E' vero, ma non è solo una questione di divieto. Certi rami della magia nera vengono accuratamente evitati, perché pericolosi e moralmente inaccettabili".

"La magia è comunque pericolosa: noi studenti conosciamo incantesimi che potrebbero uccidere...".

"No", la interruppe bruscamente Keryal, è pericolosa in quanto in grado di corrompere lo spirito e, se manipolata troppo a lungo, anche il corpo".

Lariel rimase inorridita da queste parole. Chi mai avrebbe pagato un tale prezzo pur di utilizzare simili incantesimi? Però, pensò anche, vi sono creature che forse non temono conseguenze di tal genere, per esempio... per esempio i vampiri... Non poteva essere una semplice coincidenza in fondo.

La sua riflessione fu interrotta da Keryel, che nel frattempo si era avvicinata alla finestra: "La foresta! Cosa sta succedendo?".

Lariel si precipitò di fianco alla sua insegnante ed osservò stupita lo strano fenomeno. Sembrava che gli animali e le creature della foresta stessero fuggendo in preda al panico. Eppure non vi era niente di insolito. Certo, il temporale era notevole, ma non poteva essere la causa di un tale subbuglio.

Le due elfe ebbero un tuffo al cuore, quando la porta della camera si spalancò all'improvviso.

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Finalmente smise di piovere. E nell'aria si diffuse l'odore della cenere e della resina bruciata. Dalle mura le guardie distinguevano ormai bene le fiamme azzurre che consumavano gli alberi in un'enorme pira sfavillante, contro il cielo plumbeo. Approfittando della confusione generale che si era creata nella cittadina all'ingresso della centaura, Xarioki e Cassiel l'avevano accompagnata sulle mura, per vedere con i propri occhi quanto stesse accadendo. Olbeon era rimasto indietro, in locanda, a badare al gatto che a quanto pare gli si era affezionato. Sempre che un simile animale potesse affezionarsi a qualcuno.

Ti ho sentito. Comunque il nano ora puzza più di prima, deve essersi messo un profumo.

Era mia intenzione fartelo sapere prima o poi, pensò Xarioki.

Un vento teso e gelido si sollevò, mentre osservavano dalle sommità delle mura, quanto stava accadendo.

-Sta venendo verso di noi- disse Kyra, indicando gli alberi più vicini, dove le cortecce bagnate dalla pioggia torrenziale sembravano già essere lambite dalle strane fiamme azzurrognole.

-Che si fa allora?- chiese Cassiel, dubbioso- Pensi che abbia qualcosa a che fare con il vecchio nella foresta?-

Xarioki fissava inorridito quanto stava accadendo. Di sicuro quelle fiamme erano magiche, avvolgevano il legno e si nutrivano di esso circondando al contempo la città… escludendo ogni via di fuga. Il vecchio li aveva messi in guardia da qualcosa o da qualcuno. Doveva essere fermata… ma come? Kyra si era salvata per un puro caso, soltanto perchè aveva avuto sentore di un incendio ed era fuggita dalla foresta prima che fosse troppo tardi. Forse, pensò Xarioki, il lato animale che faceva parte della centaura, l'aveva per sua fortuna avvertita in tempo.

Kyra non aveva risposte. Guardò Xarioki con aria perplessa:

-Io non sono un mago, non ho le risposte per fermare questa cosa.-

-Sempre che i maghi sappiano come poterla fermare. Mi dispiace, ma io non posso essere d'aiuto.- le rispose. Tutto sommato era inutile, finchè non avesse ricordato chi e cosa fosse esattamente avrebbe potuto dare loro ben poco aiuto. Per lo meno negli ultimi giorni la sua memoria sembrava essersi stabilizzata, non aveva più delle lacune.

-Forse i maghi di questa città potrebbero.- intervenne Cassiel voltandosi sul lato interno delle mura.

Xarioki si voltò e vide che un messo che stava correndo trafelato su per le scale in pietra, verso di loro.

-Non so perché, ma qualcosa mi dice che stai per essere convocata, Kyra.-

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  • Amministratore

La biblioteca dell'Accademia era forse la più grande raccolta di volumi del Nord, soprattutto per gli studenti che avevano accesso ad una sezione di testi arcani non accessibile al pubblico. Trovare il libro consigliatogli dal rettore non fu difficle; Veck si sedette ad uno dei tavoli ed iniziò a sfogliarlo.

"Dunque... Fuoco Purificatore... gruppo di maghi votati alla causa del bene... peculiare utilizzo di magia arcana e divina contemporaneamente... il fuoco della fede... ah ecco: <<grazie ad un particolare addestramento, questi potenti maghi riuscivano ad utilizzare una sorta di fuoco sacro, cioè fuoco magico caricato di energia positiva, che danneggiava i nemici, soprattutto non morti, e curava e potenziava gli alleati. Questa tecnica era nota solo ai membri della gilda, composta da non più di 20 persone, e non è mai stata riprodotta al di fuori di essa.>>" Veck continuò a leggere. "<<...pare che la gilda sia stata distrutta durante uno scontro con un qualche gruppo non meglio specificato. Se ci furono superstiti, non si hanno loro notizie da anni.>> E questa cos'é?"

Dopo le poche pagine di informazioni, c'erano alcune tavole illustrate, che mostravano l'abito cerimoniale dei Piromanti... e tutti indossavano un copricapo di piume, uguale a quello che avevano trovato nell'appartamento distrutto. Ora alcuni frammenti del mosaico si incastravano!

Veck si precipitò fuori dalla biblioteca, verso la stanza di Lariel. Incrociò moltissima gente nei corridoi, ma non riuscì a capire perché ci fosse tanto movimento. Infine, raggiunse la camera dell'elfa, spalancò la porta ed entrò, trovandosi davanti due elfe perplesse.

"Buongiorno, professoressa. Lari, non indovinerai mai cosa ho scoperto in bi..."

La sua frase fu interrotta dal segnale d'emergenza dell'Accademia. La voce del Rettore, magicamente amplificata, li raggiunse.

"Tutti gli studenti di magia elementale devono recarsi subito all'ingresso e presentarsi al professor Lajos. Ripeto: Tutti gli studenti di magia elementale devono recarsi subito all'ingresso..."

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Il ragazzo divorò la sua braciola in meno di un minuto e scolò il boccale di birra scura e schiumosa in un sorso. Si sentì pervadere da un lieto senso di benessere e calore, in parte dovuto anche all’alcol tracannato così d’un fiato. Rimase qualche minuto seduto sulla panca, incapace di muoversi, con le ossa doloranti per lo sforzo.

I suoi pensieri, che ormai non avevano più nulla di lucido, ruotavano blandamente intorno a come avrebbe fatto a pagare, ma non gli importava realmente. Ciò che contava era che aveva mangiato e bevuto. E presto, in un modo o in un latro, avrebbe trovato un posticino comodo dove sdraiarsi e abbandonarsi al sonno che si negava da troppo tempo.

Si era quasi addormentato quando dei passi di corsa e delle grida all’esterno lo strapparono a quelle fantasticherie allucinate. Il ragazzo si sforzò di riscuotersi, e ce la fece. Nella locanda sembra essere appena stata annunciata una notizia di vitale importanza, una notizia funesta che presupponeva un’immediata reazione.

Un uomo alto con un gatto rosso fuoco accoccolato fra le braccia stava in mezzo alla stana, l’attenzione degli ascoltatori tutta rivolta verso d lui. Stava dicendo qualcosa di molto importante, dal modo in cui parlava.

Il ragazzo si alzò dalla panca e si unì agli istanti disposti a cerchio attorno all’oratore. L’uomo diceva:

-…bruciando tutto con la magia. La centaura è andata a chiedere aiuto all’accademia di magia. Ciò che chiedo a voi ora è di uscire tutti in strada in tranquillità e silenzio. Dovrete aspettare altri ordini. Non fatevi illusioni, nel caso in cui non si riesca ad arrestare il fuoco magico moriremmo tutti, ma dobbiamo tentare… E per tentare ci servono le energie di qualsiasi persona. Probabilmente vi sarà chiesto di dare una parte di voi stessi ai maghi dell’accademia. Non protestate. Tutto ciò che verrà fatto d’ora in poi sarà volto solo ed esclusivamente a fermare il fuoco. Ho detto tutto, adesso cominciate a uscire con ordine dalla locanda.

Nella stanza piombò improvvisamente il silenzio. Dopo una decina di secondi di quiete interminabile, un mezz’orco dall’aria bellicosa disse sguaiatamente all’uomo che aveva finito di parlare e si avviava verso la porta:

-Ma tu chi ***** sei per dirci cosa dobbiamo fare, straniero?

-Già, per quanto ne sappiamo noi potresti essere soltanto il primo imbecille di Gravar-Dan che ci vuole infinocchiare!- rincarò la dose un uomo basso e tarchiato vicino al mezz’orco.

L’uomo con il gatto fra le braccia non riuscì a far sentire la sua replica al di sopra della confusione che si era creata nella locanda. In meno di un minuto, quasi la metà degli occupanti era convinta che quanto detto dall’uomo fosse uno scherzo o una bugia. Gli insulti rivoltigli si facevano sempre più violenti, e un gruppo ristretto sembrava ritenere opportuno passare alle vie di fatto.

Mentre si scatenava il putiferio, il ragazzo pensò che non c’era tempo per litigare e mettere in dubbio le parole dell’uomo con il gatto. Era convinto che l’uomo dicesse il vero, l’espressione del suo volto gli era apparsa sincera e preoccupata. E poi, qualcosa in lui gli diceva che era in pericolo, che lo erano tutti, e che se non avessero fatto qualcosa subito, la situazione sarebbe diventata insostenibile.

Così si frappose fra l’uomo con il gatto e un piccolo gruppo formato da due uomini e tre mezz’orchi che sembravano avere intenzioni bellicose. Questi lo ignorarono, guardando con rinnovato interesse l’uomo che si accingeva ad uscire dalla locanda. Un attimo primo che il suo corpo valicasse la porta, un mezz’orco scagliò un pugnale che mancò di pochi centimetri la cosa del gatto arancione e andò a conficcarsi nel legno dello stipite.

L’uomo si girò e fronteggiò i suoi assalitori. Erano cinque, troppi per un uomo solo. Sembravano molto agguerriti, e per di più erano esaltati dal vino e dalla paura che rosicchiava il loro subconscio, ovvero che la loro città in breve si sarebbe trasformata in un’enorme pira funeraria.

Uno dei mezz’orchi tirò fuori un altro coltello ma prima ancora che potesse tirare indietro il polso per caricare, una spada nera gli mozzò la mano. Il ragazzo uscì allo scoperto e incominciò d’istinto a menare fendenti con la spada. Non aveva mai combattuto prima di allora, non aveva nemmeno creduto di essere capace di sollevare la spada con una sola mano, ma il suo corpo era guidato da una sorta di rabbia interiore. Tranciò arti, menò fendenti all’impazzata ovunque scorgesse una parte scoperta dalla guardia nemica, mulinava la spada come un invasato, roteando su sé stesso come un uragano e colpendo ogni centimetro quadrato di carne che i nemici gli offrivano.

In pochissimi secondi lo scontro era terminato. Il ragazzo, incredulo di ciò che era appena riuscito a fare e non avendo idea di che cosa fosse successo in lui, si riscosse da una sorta di trance. Ripose la spada nera nel fodero mentre i feriti strisciavano lontano dalla sua portata, gemendo e urlando.

Senza guardare i suoi avversari annientati, il ragazzo uscì con l’uomo al quale con tutta probabilità aveva salvato la vita. Una volta usciti l’uomo lo guardò fisso negli occhi e disse:

-Grazie. Se non fosse stato per te mi avrebbero fatto a fettine.

-Non c’è di che. Appena ti ho guardato ho capito che dicevi la verità, e quella feccia ti voleva linciare solo perché troppo debole per accettare di essere in pericolo.

-Va bene, ma ora non c’è tempo Dobbiamo andare ad aiutare i maghi. Solo loro possono fermare questo disastro.- Con un gesto della mano tesa indicò la foresta che avvampava di fiamme bluastre, a non molta distanza dalla città. Ormai il fuoco era talmente vicino che si avvertiva il calore del fuoco e lo scoppiettio che il calore produceva carbonizzando i rami degli alberi. L’uomo chiese:

-Vieni con me?

Pensando di non avere niente da perdere, il ragazzo rispose -Vengo, non so che altro potrei fare, sennò.

-A proposito, io mi chiamo Xarioki, e questo è Nhemesis, il mio famiglio.- Notando l’espressione incredula del giovane continuò –E’ una storia complicata, ora non c’è tempo.

Il ragazzo non aggiunse niente, sapendo di non potersi presentare. Aveva scordato il proprio nome.

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-Non preoccuparti, non serve che dici molto. Quello che hai fatto vale più di mille parole...-

Xarioki sorrise al ragazzo sconosciuto.

Beh sorridere era l'unica cosa che gli convenisse fare al momento vistro che gli aveva salvato la vita e visto il putiferio che aveva combinato in quella locanda. Avrebbe dovuto aspettarselo, dopotutto. Quella gente non avrebbe creduto nelle sue parole neppure se all'ingresspo della locanda avessero cominciato a scoppiettare le prime fiammelle azzurre.

E poi dato il modo in cui avevano cercato di ammazzare il gatto non c'era di che stupirsi..

Soltanto Xarioki si chiese dove fosse finito Olbeon. Possibile che stesse ancora a mollo nell'acqua calda? Sicuramente a quest'ora avrebbe dovuto essere già asciutto da un pezzo.

Cosa vuoi fare?

Nhemesis aveva già capito e Xarioki sorrise, una leggera smorfia beffarda.

Se Olbeon non si era ancora fatto vivo doveva essergli successo qualcosa.

Ci ha salvato, come questo ragazzo. Potrebbe avere bisogno di una mano.

Il gatto non rispose. Era ovvio: dovevano ritornare là dentro.

Xarioki si fermò e guardò fisso il ragazzo.

-Mi spiace, ma ho ricordato che prima dobbiamo fare una cosa.-

Il ragazzo senza nome lo guardò perplesso.

-Lo so che sembra, anzi- si corresse- è una pazzia.. ma dobbiamo ritornare dentro la locanda. Devo vedere che fine abbia fatto un nostro amico, un nano...-

Il ragazzo spalancò la bocca incredulo.

-Ma vuoi scherzare? Se ti hanno appena fatto la pelle!- esclamò.

-Non preoccuparti, non dobbiamo per forza entrare direttamente... ci penserà lui per noi..-

Xarioki guardò il gatto.

Puoi farlo?

Nessun problema... quel nano puzzerà ma mi è sempre simpatico.

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Fu un viaggio breve, quello di Rudin verso l’Accademia dell’Arcana Maiestate. Era certamente l’edificio più vistoso, se non il più grande, con le imponenti torri asimmetriche dalle quali grondavano piccole cascate di pioggia ed il suo portone i cui colori brillavano magicamente.

Per quanto infastidito dalla pioggia, Rudin si concesse un momento di contemplazione di quell’edificio fantastico; poi si mosse rapidamente verso l’ingresso. Giunto al riparo della tettoia si scrollò di dosso tutta l’acqua così come fece Schultz ai suoi piedi. La porta si aprì prima che lui potesse bussare: sull’ingresso stava un uomo di almeno quarant’anni, alto e scheletrico, avvolto in una tunica rossa e azzurra con il simbolo dell’Accademia ricamato all’altezza del cuore.

«Benvenuto all’Accademia dell’Arcana Maiestate di Aalborg. Desidera?» chiese quindi con tono piatto, piantando i suoi occhi grigi in quelli verdi di Rudin.

«B-b-buongiorno. Mi-mi chiamo Evarick. V-vorrei c-consultare la bi-biblioteca, s-se ciò fosse p-possibile.»

«Ma certo che è possibile, signor Evarick, ma vede, l’ingesso della biblioteca… oh, beh, non la farò tornare là fuori con questo tempaccio. Entri, prego.»

Quando Schultz sgattaiolò dentro seguendo il padrone, l’uomo magrissimo ebbe un fremito.

«Quel cane, ecco…»

«Oh, le a-assicuro che è m-molto b-ben educato. Non d-disturberà.»

«Non lo metto in dubbio, tuttavia temo che non sia possibile ammetterlo alla biblioteca. Dovrà aspettarla qui nell’ingresso.»

Rudin si chinò e carezzò dietro le orecchie fradice il suo cane, compagno di tante avventure «Adesso s-starai qui b-buono buono, Schultz. A c-c-cuccia. A cuccia!» il cane si sedette sulle zampe posteriori «B-bravo il mio cagnone» l’uomo prese dalla sua bisaccia un pezzo di galletta rafferma e la lanciò al cane, che la prese al volo ed iniziò a sgranocchiarla.

L’inserviente dell’Accademia guidò Rudin attraversò quattro scalinate, due atri e una dozzina di corridoi, alcuni larghi ed illuminati, con soffici tappeti e splendidi dipinti alle pareti, altri stretti, umidi e in penombra, con pavimenti e pareti di roccia nuda.

«Normalmente non sarebbe così difficoltoso accedere alla biblioteca, ma capisce bene che essendo lei entrato dall’ingresso riservato agli studenti, la strada si allunga notevolmente. Ecco, siamo arrivati.» l’uomo aprì l’ultima porta «Ecco la biblioteca. Se ha bisogno di qualcosa, Mastro Lorchisedech sarà felice di aiutarla. Buona giornata.»

Rudin si trovava all’ingresso di una sala enorme, con librerie massicce che si espandevano nelle tre dimensioni, cariche di volumi polverosi.

Alla destra di Rudin, schiacciato tra una scrivania ordinatissima e una poltrona imbottita, stava quello che doveva essere Mastro Lorchisedech, che sembrava tutto tranne che felice di aiutarlo.

Lorchisedech era un nano, nessun dubbio su questo, ma era il nano più grasso che Rudin avesse mai visto: la braccia tozze sembravano grottescamente corte emergendo da quelli che sembravano punti casuali del torace. Le guance piene e rubizze, visibili sotto una curata barba grigio ferro, le labbra grosse e carnose, il naso rotondo, gli occhi infossati: Lorchisedech aveva un aspetto spaventoso.

Rudin rivolse un breve cenno al nano, poi si sedette al tavolo più vicino e tirò fuori dal sacchetto di tela quello strano indizio raccolto a terra, una lente di vetro convessa, un foglio di pergamena stropicciato, una penna ed una boccetta di inchiostro. Ora poteva lavorare.

Aveva appena iniziato ad esaminarlo che un ragazzo lo distolse dal suo lavoro correndo rumorosamente fuori dall’enorme sala, con le ampie vesti svolazzanti. Rudin lo riconobbe «S-signor Kirne…» provò a fermarlo, ma il giovane mago si dileguò senza sentirlo.

Rudin sbuffò ed iniziò il suo lavoro di analisi. Indossando i suoi guanti di pelle sottile, sollevò quello che aveva trovato osservandolo per la prima volta: era qualcosa di cui non aveva mai visto eguale.

Quello che sembrava un banale rettangolo di tela nera, di meno di una spanna di lato, contravveniva ad alcune delle più elementari proprietà fisiche.

Rudin iniziò a scribacchiare sul suo foglio.

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Olbeon aveva appena finito di rivestirsi, quando sentì la confusione.

Era stato tutto sommato fortunato: aveva vinto lo scontro con quell'orco, e questo gli aveva dato una soddisfazione enorme.

E come conseguenza aveva potuto fare un bagno, avrebbe da li a poco mangiato e bevuto gratuitamente, e gli era tornata voglia di birra.

Tutto sommato un pomeriggio proficuo.

Però sapeva che la calma sarebbe durata poco, il tempo che gli amici di quell'orco decidessero che era il caso di fargli la pelle.

Sperava solamente che finisse presto il temporale, e poi avrebbe potuto andarsene da quella città, e riprendere il suo eterno errare.

Quel gatto gli si era affezionato, e quindi magari avrebbe potuto trovare dei compagni di viaggio in que Xarioki e nel suo amico.

Mentre scendeva le scale però le urla lo raggiunsero. Si inginocchiò sullo scalino, in modo da vedere quanto succedeva nella stanza di sotto.

Vide un ragazzo armato di spada ingaggiare una furiosa battaglia con una serie di bestioni, che a quanto pare ce l'avevano nuovamente con il mago.

beh, forse me ne andrò prima del previsto, se ce l'hanno con lui per via dello scherzo di prima..

Il nano tornò in camera sua di corsa, afferrò tutta la sua roba, e guardò fuori dalla finestra.

Sotto di lui c'erano 3-4 metri di vuoto, forse qualcosa di più, e sotto un lago di pioggia e fango. Poco di fianco, sotto alla finestra della camera di fianco alla sua, c'era una pianta cespugliosa che avrebbe potuto attutire la caduta.

Olbeon tornò sulle scale di corsa, guardò il tafferuglio nella stanza grande, e si rese conto che stava diventando troppo seria, per i suoi gusti, la cosa.

devo fare in fretta..

Si girò di scatto, e si lanciò di peso contro la porta della camera di fianco, per sfondarla.

Era aperta!

La spallata spalancò la porta di colpo, lasciandolo a volare nel vuoto della camera, mentre la porta sbatteva contro il legno e rimbalzava contro lo stipite.

Cozzò contro il letto con la schiena, sbattendolo violentemente contro il muro e spaccandolo.

Ci mise 20 secondi a rialzarsi, stordito e imprecando rumorosamente.

Afferrò l'ascia e furioso colpì il letto.

Si era completamente dimenticato del casino di sotto, voleva solamente spaccare tutto.

Dopo un paio di colpi si riprese, tutto arrossato, e spostò il letto.

Si avvicino alla finestra e guardò di sotto. Il cespuglio era alto un paio di metri, e avrebbe funzionato bene. Pioveva ancora a dirotto, e sentiva anche odore di fumo che non capiva da dove venisse.

Non sentiva più rumori provenire da sotto, ma quasi non se ne rese conto, impegnato com'era a imprecare contro il tempo atmosferico, e alle sfortune che lo colpivano.

Aprì completamente la finestra, imprecò più forte, molto più forte, e mettendo un piede sulla finestra si lanciò di sotto.

Sfondò il cespuglio con tutto il suo peso, finendo tra le foglie bagnate e spaccando tutti i rami.

All'inizio pensò di aver sbagliato i calcoli, notando che i rami non rallentavano assolutamente la discesa.

Poi man mano che si avvicinava alla base rallentò la caduta e l'impatto fu ben assorbito.

Sbattè comunque contro un ramo un po' più grosso, con la spalla destra, e il colpo gli tolse il fiato per qualche secondo.

Poi rotolò di fianco, e si trovo disteso a terra, di schiena, con le gambe ancora incastrate tra i rami, e la testa più in basso in una pozzanghera.

Mentre muoveva rabbiosamente le gambe per cercare di liberarsi e rimettersi dritto vide qualcosa muoversi sopra di lui.

Allora si fermò, per osservare meglio.

Il gatto lo osservava, dalla finestra della sua camera, con un espressione strana e stupita.

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