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Primo Racconto Fantasy (spostato)


Strikeiron

Messaggio consigliato

Ho pensato e riflettuto un bel po' in questi giorni... diciamo che questa è una cosa che non ho mai fatto leggere a nessuno e mi sono reso conto che non è un bene, perchè nessuno mi ha mai fatto qualche critica (della quale ho bisogno come sprone per andare avanti). Quindi, ecco.... se riuscite a leggere sto papiro ditemi cosa c'è che non va:

L’ombra della notte avvolgeva la città, quietandone i rumori nel sordo brusio dei lampioni elettrici che avvolgevano le strade del loro freddo chiarore. Appena più in là una macchina sfrecciò a folle velocità sull’incrocio, lanciando dietro di sé l’eco delle gomme sull’asfalto. Poi più nulla.

Ma nella stanza, le persiane non completamente abbassate, il rumore giunse ovattato e distante, come appartenente ad un altro mondo. Lì dentro potevano giungere soltanto sottili lame di luce elettrica che illuminavano fiocamente la parete e di riflesso il pavimento, mentre un respiro sottile scandiva il passare del tempo, un secondo interminabile dopo l’altro. Qualcosa si mosse con impazienza, rivelando alla luce esterna due occhi verdi in un viso acerbo da ragazzina; il volto tirato e pallido. In quel silenzio innaturale i pensieri la stavano schiacciando sotto il peso intollerabile della solitudine; proprio perché non c’era nessuno né dentro la stanza, né fuori, che potesse aiutarla ad affrontarli e sconfiggerli. Lì dentro con lei c’erano soltanto parole che non avrebbe voluto mai dire e neppure ricordare.

«Lara, c’è qualcosa che non va, forse?»

Sua madre era di nuovo seduta davanti a lei, ansiosa di ottenere una risposta. Capiva che avrebbe potuto dirle la verità, ma sarebbe stato troppo difficile liberarsi dal peso che teneva dentro per chiedere un qualsiasi aiuto. Era come se avvertisse chiaramente le pareti della prigione nella quale era rinchiusa ed allo stesso tempo misurasse un terrore profondo ed immotivato per la semplice possibilità di liberarsene. Non voleva cercare aiuto proprio perché aveva paura di poterlo trovare.

«Niente, non mi sento troppo bene.» aveva risposto tutto d’un fiato, col terrore ed insieme la speranza che sua madre potesse leggerle negli occhi la bugia.

«È tardi ormai, vai a letto. Un buon sonno ti farà sicuramente stare meglio.» le suggerì, preoccupata.

Si alzò dalla sedia, volando quasi verso la sua camera, con una strana sensazione di esultanza per averla fatta franca, ma insieme anche la disperazione di non poter cercare aiuto.

«Lara?»

Si voltò, sentendo il suo nome e l’esultanza scomparve in una vampata di rossore che le salì al volto. Si sforzò di non far tremare la voce e rispose: «Si, mamma?»

«Buonanotte.» le sussurrò sua madre, ma per un istante lei ebbe l’impressione che avesse voluto dire qualcos’altro. Le sorrise, un sorriso acido e falso che le salì alla bocca, disgustandola profondamente nella sua falsità. Il ricordo si affievolì nel presente, nell’oscurità della stanza vuota, riempita soltanto dalla sua solitudine.

La odiava ora, come tutti gli altri, ma ancora di più per non averla capita mai fino in fondo. Soprattutto perchè lei era l’ultimo legame che le fosse rimasto con la realtà. Era iniziato tutto alcuni mesi prima, quando aveva avvertito per la prima volta quella paura cieca ed indescrivibile che le gelava le ossa. Poteva essere da sola, oppure in mezzo alla folla ed ecco che improvvisamente sentiva sopra di sé il peso di un’orribile minaccia. Questo anche se nel cielo il sole continuava a brillare come prima e le persone attorno a lei non avvertivano nulla, se non il suo profondo disagio. Una nube oscura passava su di lei, lei soltanto, lasciandole la promessa che sarebbe tornata…molto presto. Ed ultimamente tornava sempre più spesso.

Era stato allora che aveva cominciato ad isolarsi sempre di più; dato che gli altri non potevano sentire quello che lei sentiva e neppure capirlo meglio di quanto lei facesse. Non voleva i loro sguardi di compatimento, ma desiderava un aiuto che non potevano darle. Apparentemente tutto era come prima: aveva sempre avuto pochissimi amici ed a casa c’era stata solo sua madre. Nell’ultimo periodo però non si erano neppure parlate granchè, tra il lavoro e lo studio che riempivano le loro scialbe giornate. Era stato facile quindi allontanarsi anche da lei, recidendo giorno dopo giorno legami già deboli, fino a quando non le era rimasto nulla. Ed ora?

Tra poche ore sua madre si sarebbe svegliata per andare al lavoro e l’avrebbe trovata ancora seduta su quel divano; allora non sarebbe più bastato un sorriso per metterla a tacere. Il terrore crebbe dentro di lei, proprio perché alla fine non sopportava il pensiero di poter mostrare tutto l’odio e la paura che covava dentro di sè da troppo tempo. Sentimenti che non avevano neppure un padre sul quale sfogarsi; un padre che non c’era mai stato neppure lui, scappato prima di poter essere incluso nei ricordi sfocati della prima infanzia. Per il resto non un accenno, non una parola che una simile persona potesse essere mai esistita, solo silenzi in risposta alle sue domande.

Sorrise della propria ingenuità con una sorta di cinismo, come se tutto questo potesse giustificare quello che provava adesso. Quasi in preda alla schizofrenia non poteva fare a meno di provare sempre più quel freddo, cieco panico, nel quale non si riconosceva.

Uno strano pensiero le attraversò la mente. Lo considerò un attimo, indecisa, mentre qualcosa dentro di lei le ingiungeva istericamente di alzarsi subito e scappare. E così fece, senza rifletterci più di tanto, raccogliendo in uno zainetto solo alcune cose alla rinfusa: vestiti, un po’ di soldi, qualcosa da mangiare. Addosso aveva poche cose senza valore: una collanina, qualche anello di plastica, pochi soldi. Ma non importava.

La porta d’ingresso si chiuse dietro di lei con uno scatto secco, spezzando l’ultimo legame che ancora la legava a quella casa e facendola voltare indietro di scatto per paura che qualcuno potesse aver sentito. Non aveva preso le chiavi con sè. Ma nessuno si era accorto di nulla. Con il cuore in gola per l’agitazione accelerò il passo sulla strada deserta; allontanandosi il più rapidamente possibile da casa, come se in essa vi fosse l’origine di tutte le sue paure ed angosce. Eppure ogni tanto si girava indietro colla strana impressione che ora qualcuno o qualcosa la stesse inseguendo, senza lasciarla un attimo…si mise a correre ed il sospetto divenne certezza, anche se non vi era altro rumore di quello provocato dal pulsare nel sangue nelle sue orecchie. Continuò a correre trascinata dal panico, urtando le persone che camminavano per conto loro finchè non ebbe il fiato corto ed allora fu costretta a fermarsi esausta. Qualsiasi cosa la inseguisse era ancora là dietro di lei, sempre più vicina. Lo sapeva. Appoggiandosi alla parete esterna di una casa abbandonata si guardò intorno per capire dove fosse finita: attorno a lei c’era solo silenzio, reso se possibile più minaccioso dalle facciate cadenti ed ingombre di vecchi manifesti laceri. Dove si trovava? Soffocò a malapena le lacrime amare che le salivano agli occhi, rendendosi conto di quanto fosse stata stupida. Nel buio lì attorno non c’era nessuno che la inseguisse. Nulla. Assolutamente nulla che giustificasse le sue paure. Avrebbe fatto meglio a ripercorrere i propri passi e tornare a casa, lasciandosi tutto alle spalle: ma adesso non poteva. Perchè aveva di nuovo paura. Una paura raggelante che la bloccò...

Era opprimente come un incubo, sotto forma di una sensazione che la blandiva, mettendola in guardia da un pericolo che non vedeva e tanto meno poteva ancora capire. Nell’incalzante marea di panico che minacciava di travolgerla riuscì d’un tratto a riscuotersi e capì di essere ormai completamente sola, in un luogo a lei assolutamente sconosciuto e senza la più pallida idea di dove poter trascorrere le ultime ore della notte. Immediatamente si pentì di aver agito d’istinto: forse non era troppo tardi, poteva ancora tornare indietro e raccontare tutto a sua madre… Doveva tornare indietro!

No! Non era fuggita per affrontare la sua delusione, per provare odio verso l’unica persona che avrebbe dovuto ancora amare. Era sua madre! Eppure provò orrore al pensare potesse conoscere quali fossero i suoi reali pensieri. Era fuggita colla certezza che non li avrebbe capiti e pertanto non l’avrebbe mai aiutata. Soprattutto era fuggita perché non c’era possibilità di ritorno. Ma ora si pentì di non aver neppure provato mai a cercare veramente il suo aiuto..

Colla forza della disperazione provò di nuovo a guardarsi intorno alla ricerca di un posto dove passare la notte, ma non ne trovò. Né le sarebbe servito, anzi fra poche ore non le sarebbe importato più di nulla. Si riscosse, cercando faticosamente di capire cosa avesse appena pensato, terrorizzata dalla certezza di non essere stata lei a farlo. Quel pensiero veniva da fuori, ma non da lei. Perché era scappata di casa senza nemmeno preoccuparsi di dove sarebbe andata? Non le rimaneva molto tempo…ma per cosa? Scosse la testa con rabbia ed uscì da quella sorta di trance nella quale era appena precipitata. Capì di essersi addormentata e lentamente fece il giro dell’isolato, cercando follemente una porta aperta tra le tante bloccate da grossi catenacci arrugginiti in quel quartiere deserto. Visto che sulla via centrale non ve n’erano girò in uno stretto vicolo deserto, ma fatti pochi passi si bloccò. All’improvviso ebbe di nuovo la certezza di essere seguita, ma questa volta era inutile cercare di scappare. Fu presa ancora nella morsa del panico e si abbandonò completamente stavolta, troppo stanca per poter reagire, i piedi bloccati a terra ed i muscoli irrigiditi. Persino l’aria parve farsi d’un tratto più fredda del normale; anzi, nella tiepida notte d’inizio estate, si alzò nel vicolo un soffio gelido che la investì in pieno, dandole un brivido. Perché non poteva fuggire?

Nel silenzio l’incubo la ghermì mentre l’aria si lacerava davanti a lei e dal nulla un frammento di oscurità cadde pesantemente a terra a pochi metri da lei. L’aria le venne a mancare mentre annaspava nel panico. Sapeva che avrebbe dovuto immediatamente fuggire. Sapeva che qualsiasi cosa fosse, quello era il suo inseguitore. Sapeva soltanto, ma non poteva assolutamente muoversi. Così rimase ferma, aspettando di distinguere qualcosa nel buio. Ma qualsiasi cosa fosse non la poteva ancora vedere, ma soltanto sentire strisciare lontano da lei e poi fermarsi.

Magari era solo un gatto.

No, non poteva essere un semplice gatto. Rabbrividì pensandolo, ma ancora di più nel rendersi conto di avere una vaga idea di che cosa fosse, senza averla vista. La scoperta le gelò il sangue nelle vene. Ed all’improvviso qualcosa la assalì, prendendola completamente di sorpresa: perchè era una voce, ninte più di un sussurro dentro di lei. Com’era possibile? Chi le stava parlando? Cercò di schiacciarla e soffocarla, ma quella guizzò via dal suo fragile autocontrollo, incurante dei suoi inutili sforzi.

Non combattermi.

La voce continuava con insistenza e con forza, insinuandosi profondamente dentro di lei. Promettendole che se le avesse dato retta ogni sua paura sarebbe svanita. Se avesse accettato spontaneamente non le sarebbe accaduto nulla di male. Doveva lasciarsi andare, doveva fidarsi.

Per un istante fu tentata di farlo, tale era l forza persuasiva di quella cosa. In un istante rischiò di perdersi. Ebbe la sensazione che sarebbe stata finalmente al sicuro, bastava poco…sarebbe tutto finito bene. Non avrebbe più avuto paura, non avrebbe più provato odio, più nulla. Cominciò ad affondare in quelle promesse, sentendosi per la prima volta protetta. Ma se non fosse stato vero? Di chi doveva fidarsi? Era come se all’ultimo istante la sua coscienza assopita si fosse svegliata ed avesse incominciato a strillare istericamente. Ma non poteva fare più niente ora…era naturale che si lasciasse andare…non poteva fare nient’altro. Si lasciò guidare dalla voce: doveva camminare ora ed andare incontro al proprio destino. Vi fu un lampo di calore dentro di lei e dolore. Aprì gli occhi e con terrore si accorse di essersi avvicinata troppo a quella cosa. Tanto da poter essere assalita. L’istinto la buttò a terra un attimo prima che la cosa balzasse alla sua gola. I lunghi artigli la mancarono solo di pochi millimetri. Ancora a terra, si voltò, pronta ad affrontare un nuovo attacco. Questa volta la vide.

La vista di quella cosa illuminata fiocamente dalla luce elettrica in fondo al vicolo le tolse però ogni speranza. Cos’era quella cosa? Ricordava lontanamente un cane, ma l’orribile ghigno deforme era ben lontano dal peggiore degli incubi, le ossa sporgevano dal pelo ispido come lance, mentre gli occhi, se potevano essere chiamati tali, brillavano malignamente. Camminava goffamente su delle zampe dotate di artigli spropositati. Ma in realtà i suoi movimenti erano troppo fluidi e veloci. Lara rotolò goffamente sullo zaino e sentì subito gli artigli lacerarle la pelle. Era stata troppo lenta. Quella cosa era mortalmente reale!

Provò ad alzarsi da terra, ma la spalla le faceva troppo male ora e quell’orribile mostro era già davanti a lei, pronto ad attaccare di nuovo non appena si fosse mossa. In quell’istante avrebbe dovuto provare ancora panico, terrore forse. Invece non provava nulla. Fissava quella cosa, tesa davanti a lei, sicura che adesso sarebbe scattata, dritta verso la sua gola. Invece lentamente qualcos’altro si impossessò di lei, ma non una voce, stavolta. Era una rabbia a lei estranea che non poteva più controllare. Aveva covato a lungo nella sua rabbia e nella sua disperazione. Soltanto ora non poteva più trattenerla. Stava per mettersi a piangere.

E la luce esplose in quello stretto vicolo, lasciandola senza fiato, mentre illuminava l’oscurità di un bagliore accecante: le case abbandonate, le porte marce ed il cielo, tutto scomparve all’improvviso. Rimase solo quell’essere mostruoso che arretrava ora davanti a lei. La luce si riversò senza pietà dentro quel groviglio di ossa e muscoli polverizzandoli in un fetore nauseabondo.

Facendosi leva coi gomiti Lara si raddrizzò a terra, incapace di credere a quanto era appena avvenuto davanti ai suoi occhi. Adesso era sola…con la luce. Come qualcosa di vivo le girava attorno, indugiando in attesa. Finchè non entrò in lei, con una propria volontà, ma senza danno. Girava sempre più veloce e sempre più vicina. E lei vi allungò la mano dentro. Era calda e rassicurante e lei si sentì euforica…come trascinata in quell’impossibile turbinio, che le aveva salvato la vita. La luce subito le avvolse la mano, senza aggredirla e da qui risalì sulle braccia... Allora si immerse ancora di più in essa, sicura che non le avrebbe fatto alcun male. Quasi non si accorse di esserne ora completamente avvolta. L’ultimo suo briciolo di coscienza la fece urlare, con tutte le sue forze, fino a quando l’eco della sua voce non si spense di botto nell’oscurità. La luce era andata.

Un secondo dopo un barbone si affacciò all’imboccatura del vicolo deserto. Brontolò a voce alta fra sé, passandosi una mano fra i capelli unti e quindi sfregandosi forte gli occhi. Eppure aveva sentito un urlo. Tracannò l’ultimo sorso nella bottiglia e la lasciò quindi cadere a terra in un frastuono di vetri rotti…forse era ancora troppo lucido. Starnutì rumorosamente e decise di essersi immaginato tutto; brutta cosa non riuscire a dormire quella notte. Le membra rese pesanti dalla troppa stanchezza e dal troppo alcool tornò sui suoi passi…alla ricerca di una nuova bottiglia. Avrebbe dovuto esserci ancora un vecchio goccio nel suo nascondiglio lì vicino. Barcollando vistosamente sulle sue gambe uscì dal vicolo. Non poteva certo vedere un mucchietto di cenere grigia che il vento scompigliava tra i vetri rotti sul lastricato.

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  • 3 settimane dopo...
  • 1 mese dopo...

Beh, non tanto a breve... ma ecco il secondo capitolo:

2.Nella foresta…

Passò un lungo istante di oscurità prima che nuove immagini e sensazioni emergessero dal vuoto della sua coscienza. Ciò che ora le importava era inebriarsi di quell’illusione, dimenticare chi fosse e cosa stesse facendo…e tutto era così naturale ed invitante, che non avrebbe mai voluto tornare indietro. Camminava nell’erba alta, ora; attorno a lei un bosco immenso sulle pendici delle colline catturava la luce del sole mattutino colle fitte chiome verdi. Alcuni piccoli animali guizzarono via nei loro nascondigli, al suo passaggio. I suoi piedi affondavano leggermente nel suolo umido, in leggera pendenza, che portava verso il limitare dei primi alberi attorno alla radura. Uno scoiattolo le sfrecciò velocemente accanto, fermandosi poi a guardarla con curiosità a qualche metro di distanza. Rimase immobile a guardarlo, mentre la strana sensazione di aver già vissuto quell’esperienza la sconvolse. La bestiola la fissava, irrigidita dalla paura, pronta a scattare al minimo segno di pericolo. In un battibaleno salì sull’albero più vicino e scomparve, per riapparire più su, tra il fitto fogliame, fissandola con curiosità. Poi scomparve di nuovo, indaffarato nelle sue attività. Lara si rese conto di non sentire più alcuna paura in quel luogo; guardò l’invitante tappeto di foglie secche sul sottobosco che l’invitava a stendersi e riposare un attimo. Lì non aveva nulla da temere, tanto più che era soltanto un sogno, dal quale però non si voleva ancora svegliare.

Si sdraiò per terra e respirò il profumo di resina e legno secco che veniva da alcuni grossi pini lì vicino: com’era tutto tranquillo! Chiuse gli occhi e sentì che il terreno sotto di lei era stranamente morbido e secco; dov’erano finite le foglie? Spalancò gli occhi all’improvviso e per un terribile istante si trovò immersa nel buio, allora annaspò nel panico al ricordo della luce che l’avvolgeva e si levò a sedere sul letto. Dov’era finita? Era morta? Si accorse che uno strano odore di resina le pizzicava il naso, l’aria era fresca ed umida…si chiese se stesse ancora sognando. Ma man mano che i suoi occhi si abituavano a quella strana penombra, cominciò a rendersi conto di trovarsi in una stanza, accanto ad una rozza parete in legno. Si girò nel letto morbido, disturbata dal prurito sul corpo di quella che poteva essere un’enorme coperta di lana. Per il momento non riusciva a vedere tutte le pareti della stanza, ma lì vicino indovinò la forma di un tavolo ed alcune sedia, poco più in là un’enorme cassa sulla quale era stato appoggiato il suo zaino. Decisamente per essere un sogno quello cominciava ad essere un po’ troppo realistico. Com’era arrivata fin lì? Quanto tempo aveva dormito?

Non aveva ancora provato ad alzarsi dal letto quando una porta su una delle pareti della stanza venne semplicemente spalancata, lasciando entrare l'aria fresca del mattino, assieme ad una pallida luce. All’istante Lara si ficcò sotto la coperta, spaventata. Poi, nel silenzio, la curiosità ebbe la meglio e sollevò un lembo del suo nascondiglio per guardare. Ferma sulla soglia una figura incappucciata stava ancora frugando in un sacco, alla ricerca di qualcosa; non appena l’ebbe trovata richiuse la porta dietro di sé, gettando di nuovo la stanza nella semioscurità. Lara si nascose di nuovo, impaurita. Al buio l’estraneo si diresse con sicurezza verso il tavolo, vi appoggiò sopra qualcosa di pesante e subito dopo si sentì uno sfrigolio ed il rumore di una sedia trascinata sul pavimento. Poi più nulla. Da sotto la calda coperta Lara si arrischiò a sbirciare fuori e si accorse che c’era luce ora. Una lampada ad olio illuminava tutta la stanza, compresa la persona seduta al tavolo: ora aveva il cappuccio calato sulle spalle a scoprire il volto. E Lara rimase intontita a fissarla: era una donna!

I corti capelli grigi incorniciavano il viso piccolo ma dai lineamenti decisi, ma quello che era più strano in assoluto erano i vestiti che indossava. Lara non aveva mai visto nulla di simile, almeno non qualcosa di paragonabile a quel grande mantello grigio che l'avvolgva interamente, ricadendo quasi fino all’orlo degli stivali in cuoio. Quando loro sguardi si incrociarono la ragazza rabbrividì per un istante davanti a quegli occhi grigi e severi che conferivano al volto un’espressione leale ed aperta, ma al tempo stesso determinata. Si rituffò sotto la coperta, impaurita.

«Se ti alzi forse potresti mangiare qualcosa. Dovresti avere una bella fame ormai.» disse la donna. Poi, non ricevendo risposta continuò: «Mi chiamo Vartenia. Sbrigati ora, non c’è rimasto molto tempo.».

Lara capiva le parole che pronunciava quella donna, ma c'era qualcosa di strano, allo stesso tempo, come se la lingua nella quale erano state pronunciate le fosse estranea: cautamente riemerse dal proprio nascondiglio. Cosa voleva da lei? Chi era? Ma soprattutto…

«Tempo per cosa?» le chiese, indispettita quasi.

« Prima vestiti e dopo ti giuro che risponderò a tutte le tue domande che vorrai farmi. I tuoi vestiti sono sul letto. Sbrigati.». Questa volta il tono di voce non ammetteva repliche: Lara riemerse dalla spessa coperta in lana e scoprì di avere addosso soltanto una specie di vestaglia. Ma in che razza di posto era capitata? Prese i vestiti sul letto e spalancò la bocca, cercando di protestare. Quelli non erano i suoi vestiti! Li osservò a lungo sotto la luce fioca della lampada e constatò che probabilmente assomigliavano a quelli che indossava la donna. Come aveva detto di chiamarsi? Vartenia? Che razza di nome era quello? E chi poteva ancora vestire in quel modo?

Usando goffamente la coperta a mò di paravento indossò tutto quello che aveva trovato sul letto: una maglia in stoffa, un paio di calzoni, calze pesanti, un mantello molto lungo ed un paio di robuste calzature in pelle. Erano un po' strette, ma non si lamentò ad alta voce, anche se la stoffa grezza sulla pelle nuda le dava fastidio. Ma tutto il resto le calzava alla perfezione; strano pensò, senza darci al momento troppo peso.

«Sciacquati il viso. C’è un catino d’acqua pulita vicino alla porta.» aggiunse Vartenia.

Lara si alzò con prudenza, temendo di cadere per un capogiro. Si sentiva debole ora e capiva di non essere più in un sogno, ma forse in una trappola. E se fosse stata rapita da qualcuno? E se fosse stata tutta una sceneggiata per osservare le sue reazioni? Si impose di stare calma e l’acqua gelida cancellò in lei le ultime tracce di sonno, mentre nella sua mente si affollavano mille domande. Perché restavano chiuse lì dentro se fuori c’era la luce? Chi era quella strana donna e cosa voleva da lei?

«Ora mangia. Parleremo dopo.» la voce di Vartenia la fece sobbalzare. Ebbe l’impressione che quella donna potesse leggerle nel pensiero, ma evidentemente non poteva essere possibile. Più probabilmente avrebbe dovuto nascondere meglio le proprie reazioni se quella donna poteva così facilmente prevenirla.

Almeno il cibo che c’era ora sul tavolo non sembrava nascondere nulla…anzi. Riconobbe pane, miele, latte e perfino dei biscotti. Le vennero i crampi allo stomaco per la fame; da quanto tempo non mangiava? Sotto lo sguardo impassibile di Vartenia divorò ogni cosa , incurante del fatto che il latte non fosse dentro una semplice tazza di ceramica, ma in una scodella di legno e gustando quei deliziosi biscotti come non le era mai capitato di fare in vita sua…

«Sono contenta che ti piacciano.» disse improvvisamente Vartenia.

Lara si vergognò di sé stessa e rimase allo stesso tempo sbalordita: quella donna in qualche modo sapeva realmente leggerle nel pensiero.

«Scusami, non volevo spaventarti. Ma è evidente che quei biscotti ti piacciono e molto anche..» aggiunse con noncuranza Vartenia, indicando con sarcasmo il piatto vuoto davanti a Lara.

La ragazza rimase col boccone di traverso nella gola ed arrossì violentemente: in qualche modo Vartenia era capace di leggerle nel pensiero… lo inghiottì violentemente e decise di partire all'attacco:

«Puoi dirmi dove mi trovo? Perché stiamo chiuse qui dentro?»

«Siamo al sicuro per il momento.- disse la donna- Siamo chiuse qui per proteggerti da tutto quello che c’è là fuori e soprattutto da te stessa.»

Lara la guardò senza capire e Vartenia riprese: «Quali sono le ultime cose che ricordi?».

Esitò un attimo. Cosa doveva raccontarle? Se le avesse descritto il mostro che l’aveva inseguita nel vicolo l’avrebbe presa per pazza e per il resto era ancora troppo sconvolta per essere in grado di fidarsi di una perfetta estranea.

La donna sembrò comprendere al volo i suoi dubbi: «Se proprio vuoi saperlo ti ho trovata là fuori nel bel mezzo della notte. Dormivi profondamente ed eri molto pallida. I tuoi vestiti erano laceri, come se qualcuno o qualcosa ti avesse aggredita; allora ti ho portata qua dentro, pensando che tu fossi in pericolo. A questo punto se avessi voluto farti del male l’avrei già fatto, no?».

Lara la guardò impaurita: non riusciva ancora a farsi una ragione di quello che le era successo ed ora doveva spiegarle tutto? Però aveva ragione: se avesse voluto farle del male non sarebbe stato difficile. Cosa aveva voluto dire però con “proteggerla da là fuori”? C’erano altri di quei mostri?

Provò a parlare, ma era come se le sue stupide paure le serrassero la bocca.

«Capisco che per te possa essere difficile, ma devi dirmi tutto se vuoi che io ti possa aiutare.» il tono di Vartenia era conciliante ora, ma per Lara era altrettanto difficile superare la propria diffidenza. Le lacrime le salirono prontamente agli occhi, ma non perché fosse triste… semplicemente perché si vergognava di sé stessa. Ed all’improvviso fu come se si fosse rotta una diga. Le sue paure si gettarono inutilmente sulla breccia, cercando di ricacciare indietro le parole che avrebbe potuto dire, ricordandole l’odio e l’indifferenza che aveva provato. Ma questa volta le barriere si sbriciolarono completamente, lasciandola libera di raccontare fin da quando era uscita dalla porta di casa. Non sapeva più come tenere a freno le proprie emozioni, ma man mano che andava avanti nel racconto si accorse che Vartenia la stava ascoltando con una profonda tristezza negli occhi. E questo la spinse a continuare, oltre ogni confine, in quel racconto folle. Ma quando arrivò a parlarle del mostro e della voce nel vicolo ed alzò lo sguardo, convinta di trovare incredulità nei suoi occhi, scoprì che non ve ne era traccia: le credeva! Allora non era stato un incubo, non se l'era immaginato: era stato reale!

Vartenia rimase un attimo in silenzio quando ebbe finito il suo racconto, quasi soppesando ciò che doveva dirle ora:

«Quella luce ha fatto qualcosa di più che salvarti la vita, Lara. Ti ha trascinata via dal mondo in cui vivevi. Ed ora sei qui.» le disse.

«Qui dove?» chiese Lara, terrorizzata.

«Le foreste delle terre alte, a Solnem.» le rispose.

Lara rimase a bocca aperta, ma non ebbe il tempo di replicare.

«Ti accorgerai che questo è un mondo primitivo, con poche regole. Ma qui esistono anche cose che non sei mai stata preparata ad affrontare, cose delle quali hai soltanto sentito parlare nelle leggende del mondo dal quale provieni. Ma qui sono reali. Per questo dovrai imparare poco alla volta ad affrontarle e non dimenticare mai che questo non è il mondo delle favole, ma dei mostri che ti hanno aggredito. Non sarà facile per te ritornare al tuo mondo e dovrai essere forte per farlo. Ricordatelo sempre, questo. Anche nei momenti più disperati. Ed ora prendi le tue cose, dobbiamo andare via da qui il più in fretta possibile».

Detto questo Vartenia si alzò in piedi, spense la lampada ed afferratala uscì fuori dalla stanza. Lara rimase perfettamente immobile, incapace di comprendere il significato delle parole che aveva appena sentito. Cosa intendeva quella donna con “mondo delle favole”? Seguendo il corso dei propri pensieri Lara guardò fuori dalla stanza, attraverso l’uscio rimasto aperto. Là avrebbe dovuto esserci sicuramente una via fatiscente, circondata da case od almeno un paesaggio di campagna con un traliccio solitario della corrente elettrica. Ma non c’erano case là fuori, solo alberi su un terreno reso nerastro dall’humus, coperto da un groviglio di grosse radici ed innumerevoli foglie secche. Si precipitò fuori ed allora le ritornò in mente il sogno che aveva fatto. Alberi in tutte le direzioni. Coprivano con le loro spesse ombre la piccola casupola in legno, filtrando qua e là tra le chiome rossastre i raggi del sole mattutino. Cadde a terra sulle ginocchia, incredula: od in una sola notte l’estate si era mutata in autunno, oppure quello era veramente un altro mondo. Davanti alla capanna c’era la traccia fievole di un sentiero che si inoltrava nel sottobosco…

«Non stare lì impalata, sbrigati!», Vartenia, stanca di aspettare era tornata sui propri passi. Lara si alzò da terra e tornò precipitosamente dentro la capanna, cercando a tentoni il suo zaino. Lo ritrovò facilmente, ma non appena lo prese tra le mani si accorse che alcuni grossi squarci lo attraversavano da parte a parte. Lo svuotò velocemente sul tavolo con un brivido: i vestiti che si era portata appresso erano inutilizzabili, anch’essi ridotti a brandelli. I soldi c’erano ancora tutti, ma le sarebbero serviti? Ne infilò solo una piccola parte nelle tasche del mantello. D’istinto controllò che tutto fosse ancora al suo posto: all’estremità dello spaghetto di gomma il ciondolo che portava attorno al collo dondolava ancora rassicurante. Non c’era molto altro che potesse portarsi dietro: uscì in tutta fretta e raggiunse Vartenia in mezzo agli alberi.

Subito si incamminarono lungo il sentiero stretto e tortuoso, spesso interrotto dalla vegetazione troppo fitta. Non ci voleva molto per capire che quella via era stata abbandonata da tempo e la foresta rivendicava ogni pezzo usurpatole, sbarrando continuamente il passo alle due intruse e costringendole ad aggirare sempre nuovi ostacoli con un grande dispendio di tempo. Ma Vartenia procedeva con passo spedito, costringendo Lara ad arrancarle dietro. Il sole era già alto in cielo e la donna considerava con sempre maggiore preoccupazione il poco tempo che rimaneva loro prima del tramonto. Quella ragazzina non era sicuramente abituata a quel passo di marcia, ma non poteva farci nulla: il tempo era fin troppo prezioso ormai. Sperò soltanto che cedesse il più tardi possibile. Per questo e per l'assoluta mancanza di fiato, non una parola fu scambiata tra loro, durante tutto il percorso. Finchè, entrate in una piccola radura, si fermarono a riposare. Lara si lasciò scivolare a terra con una smorfia di dolore. Non era abituata a camminare così tanto e le nuove calzature, seppur comode, le facevano già male. Senza riflettere slacciò le stringhe in cuoio per togliersele.

«Non farlo. Se ti togli adesso le scarpe dopo non sarai più in grado di rimetterle ai piedi.»

Lara alzò lo sguardo su Vartenia per capire cosa dovesse fare allora, ma non ebbe altre spiegazioni. Improvvisamente si sentì presa in giro. Per quanto ancora avrebbero dovuto camminare?

«Dove stiamo andando?» le domandò.

Vartenia indugiò un attimo, prima di rispondere: «A qualche ora di cammino da qui c’è una grossa città fortificata, governata da un kissal e da un Consiglio. Devo portarti da loro.»

«Cos’è il kissal?»

Vartenia rispose, sorridendo: «Già vero: tu non puoi sapere cosa sia un kissal. Vediamo se riesco a fartelo capire: più o meno è come una persona che si occupi di tutti coloro che abitano nella città. Regola la loro vita ed i loro affari ed è responsabile delle proprie azioni davanti al Consiglio…»

«Più o meno come un re?» la interruppe Lara.

«Non conosco il significato della parola "re", ma suppongo di sì. Adesso basta con le domande, dobbiamo ripartire in fretta da qui se vogliamo arrivare in città prima che sia buio.- E detto questo le porse un fagottino di stoffa ed una borraccia di pelle- Mangia qualcosa o non riuscirai a tenermi dietro.».

Lara non perse tempo: svolse il fagottino e dentro vi trovò un pezzo di carne rinsecchita, forse essicata. Ma in che razza di mondo era finita? Provò a metterla in bocca, sicura che l’avrebbe disgustata e sarebbe stata costretta a sputarla. Invece il sapore non era male. La mangiò tutta e placò la sete con l’acqua fresca nella borraccia.

«Bene, possiamo andare ora.» disse Vartenia e si incamminò velocemente sul sentiero, strappando a Lara un inutile gemito di protesta, che la donna fece finta di non aver sentito.

Camminarono ancora più veloci di prima, ma per fortuna la breve pausa sembrava aver accantonato per un po’ il dolore ai piedi. Lara cominciò a pensare a quello che era avvenuto nelle ultime settimane. Odiava ancora sua madre? Scoprì di non provare più nulla, non odio, ma neppure riconoscenza nei suoi confronti. Si vergognò per questo, ma se ora si trovava veramente in un mondo diverso, allora forse sarebbe passato molto tempo prima che si potessero rivedere. Forse avrebbe avuto la possibilità di districarsi da quel groviglio di sensazioni e paure nelle quali era rimasta intrappolata. Ripensò al panico che l’aveva attanagliata per settimane e scoprì che ora era quasi completamente scomparso, lontano anni luce da lei. Il ricordo della cosa che l’aveva aggredita le si riaffacciò alla mente.

Verrai da me, non puoi scappare.

Rabbrividì, guardandosi alle spalle. C’erano solo alberi lì attorno a lei, ma Vartenia si era improvvisamente fermata e la stava fissando.

«Qualcosa non va? Hai sentito qualcosa?»

«No, no. Tutto bene.» mentì prontamente, convincendosi di essersi solo suggestionata.

«Forza allora, seguimi.».

Probabilmente sua madre a quest’ora la stava già cercando; speriamo soltanto che non si preoccupi troppo, pensò. Tutto quanto lì attorno le sembrava ancora tutto troppo irreale: quella foresta infinita, nella quale stavano camminando da ore cominciava ad opprimerla e non le era certo d’aiuto quella donna taciturna ed imprevedibile, tanto quanto le sue affermazioni. Era forse impazzita d’un tratto, senza essere più capace di distinguere tra sogno e realtà? E se dopotutto non lo fosse stata? Erano state le sue paure la causa di quella situazione assurda? Si disse che le persone normali non hanno la capacità di addormentarsi in un mondo e svegliarsi in un altro e lei di certo non poteva fare eccezione. Se veramente si trovava in un altro mondo, come mai Vartenia parlava la sua stessa lingua? Scosse la testa, confusa da quei pensieri inconcludenti e decise che col tempo, forse, avrebbe trovato le risposte che cercava, ma non adesso. Non ora che doveva arrancare per non perdere terreno rispetto a Vartenia.

Dopo non molto la traccia del sentiero divenne meno chiara, fino a perdersi nel folto della foresta e sparire. Vartenia però non sembrava prestare la minima attenzione al sentiero; era come se conoscesse il percorso nella sua testa e non stesse facendo altro che avanzare spinta dalla propria memoria. Questo rallentò notevolmente la loro marcia. Per quanto la donna potesse procedere spedita, ora il terreno meno battuto si era fatto progressivamente più infido e difficile da percorrere, soprattutto per Lara. Aveva l’impressione che quella foresta non avesse mai fine, mentre il passare inesorabile del tempo gettava le prime ombre sugli alberi.

Proprio quando fu al limite delle forze Vartenia le fece segno di fermarsi:

«Siamo quasi arrivate. Al di là di questi alberi finisce la foresta e c’è una grande pianura: al centro di essa c’è la città della quale ti ho parlato prima: Olnemain. Dobbiamo sbrigarci però perchè le porte sono aperte soltanto fino al tramonto. Dopo diventerebbe assai difficile entrare senza attirare l’attenzione su di te e questo è precisamente quello che non voglio che accada. Dovrai seguirmi da vicino e tenere la testa bassa. Hai capito bene tutto?».

Lara annuì con un cenno del capo.

«Bene allora, copriti la testa col cappuccio e stammi vicina.».

Veramente quella foresta si sarebbe interrotta poco più in là? Mentre camminava cogli occhi fissi sui piedi di Vartenia, per assicurarsi di essere capace di seguirla senza guardarsi troppo in giro, sentiva la stanchezza intorpidirle le membra, eppure la forza di volontà la costringeva ad andare avanti. Sollevò lo sguardo preoccupata e vide la traccia di un sentiero ricomparire nel sottobosco ingombro di foglie secche. Davanti a lei la sagoma della sua accompagnatrice procedeva spedita. Chi era Vartenia? Lara realizzò di non esserselo mai chiesto prima di allora: aveva semplicemente eseguito quello che le era stato detto come un automa. E soprattutto non sapeva assolutamente nulla di lei. La seguiva, facendosi guidare verso una città ignota, colla promessa che l’avrebbe aiutata a tornare indietro. Ma c’era qualcosa di strano anche in quelle promesse: perché la stava aiutando e soprattutto perché tutta quella fretta? Ancora domande alle quali non sapeva e non poteva rispondere. Soprappensiero non vide una grossa radice che attraversava il sentiero. Fu un attimo per lei perdere l’equilibrio e trovarsi dolorante a terra. Trattenne il fiato per il dolore: così non riusciva più ad andare avanti. Una mano la afferrò saldamente per la spalla rimettendola in piedi.

«Siamo quasi arrivate ormai. Guarda laggiù, quella è Olnemain. Siamo quasi arrivate.»

Lara seguì collo sguardo la mano di Vartenia che indicava un punto laggiù tra gli alberi: incorniciata tra i possenti tronchi al limitare della foresta la sfera incandescente del sole sembrava quasi in procinto di spegnersi nella linea piatta di terreno spoglio. Il riflesso della luce sembrava avvampare le mura grigie di una città, interrotte ad intervalli regolari da enormi bastioni. Come incastrate in esse i tetti delle case e dei palazzi si vedevano sopraelevati, quasi che all’interno delle cinte murarie vi fosse un innalzamento naturale del terreno, contenuto dalle mura stesse. Alla base di queste ultime invece il sole rifletteva in un corso d’acqua che a guisa di lama tagliava da una parte all’altra l'immensa pianura.

«Su, dobbiamo sbrigarci ora.» Vartenia non aspettò di vedere se Lara la stesse seguendo, ma riprese la sua andatura, inoltrandosi tra gli ultimi alberi. In breve tempo si trovarono a camminare su un largo stradone rozzamente lastricato, circondate da altri gruppi di viaggiatori. Lara tenne tutto il tempo lo sguardo fisso sulle pietre sconnesse, il viso nascosto dall’orlo abbondante del mantello.

Ma ognuno di essi camminava con circospezione, scuotendo leggermente i larghi mantelli autunnali, senza dare alcun segno di interesse esterno alle proprie personalissime attività. Fortunatamente nessuno sembrò fare troppo caso a quella ragazzina, quando si fermò ad osservare le mura, stupita della loro imponenza. Vartenia le scoccò un’occhiata allarmata e la ragazza subito riportò il volto dietro il riparo del mantello e si affrettò a superare dietro alla sua guida severa l’ampia arcata del ponte in pietra che introduceva nella città. Superate le mura , si separarono dal resto della folla infilandosi subito in un dedalo di strette viuzze. Vartenia avanzava instancabile, impegnata in una personale corsa contro il tempo che ora volgeva all’imbrunire, mentre Lara proseguiva ormai solo colla forza di volontà. Procedevano in silenzio nelle vie sempre più buie, badando ad acquattarsi velocemente contro una parete quando la porta di un’osteria veniva aperta improvvisamente davanti a loro, riversando in strada fumi di vino e schiamazzi. Ormai Lara non sapeva nemmeno più da quanto tempo stessero camminando in quel labirinto. Infine sbucarono in un largo piazzale: in fondo ad esso due fuochi illuminavano a giorno uno strano portale. Vartenia vi si diresse con decisione, prendendola per mano e guidandola verso la luce. «Stammi vicina.» le sussurrò e quindi, muovendo le mani nell’aria pronunciò qualcosa di simile ad una cantilena. Lara sbattè gli occhi assonnati, crededendo per un attimo di aver visto male. L’aria intorno a loro sembrava tremolare come attorno ad una fiammella mentre passavano davanti alle sentinelle.

Quando fu capace nuovamente di mettere a fuoco i contorni degli oggetti riconobbe i contorni di una stanza buia con in mezzo un letto a baldacchino. Qualcuno, Vartenia forse, l’aiutò rudemente a svestirsi e la distese sotto il letto.

«Ci vediamo dopo. Intanto approfittane per dormire» le disse prima di uscire in fretta dalla stanza, ma già molto prima di scivolare sotto le coperte Lara si era addormentata profondamente, esausta.

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Ed il terzo... sappiatemi dire se vi piacciono in qto dipendentemente andrò avanti...

3.Fratelli elfi

Il cavallo affondava sempre di più nella neve fresca ed ansimava in modo orribile, quasi stesse per cadere per terra sfiancato. Cercò di tranquillizzare l’animale accarezzando il fitto manto e quindi, con una veloce stretta alle briglie, gli girò intorno per tornare indietro. Era stato pressoché un miracolo se fino a quel momento era riuscito ad evitare gli spessi e scivolosi lastroni di ghiaccio che stavano percorrendo. Sul margine sinistro si innalzava la parete liscia della montagna mentre alla sua destra si apriva uno stretto crepaccio, ma non abbastanza stretto da non far passare un cavaliere con la sua cavalcatura. Ad ovest il tramonto gettava gli ultimi bagliori rossastri sulle più alte cime dell’Ister. Dietro di loro, tanto vicino da credere di poterlo toccare, l'altissima vetta del Lifir si accese all’improvviso, avvampando nell’ultima luce rossastra del giorno, spargendo in un attimo il suo bagliore nelle valli sottostanti e sui rilievi vicini. Quando la luce si spense nel crepuscolo, anche il Lifir scomparve tornando a confondersi colle altre cime innevate. Eppure riusciva ancora ad indovinare il profilo delle pareti scoscese e liscie come il vetro, tanto liscie che nessuno di quelli che avesse osato sfidarle aveva mai fatto ritorno per raccontarlo. Lama di fuoco, ecco cosa significava il suo nome nell’idioma elfico e veramente, in quei brevi istanti del tramonto, la montagna assumeva le sembianze di una fiamma levata al cielo. Una fiamma gelida però, estranea ed irraggiungibile.

Tallein inghiottì a fatica, sia preso dall’emozione che dalla preoccupazione di quel viaggio insensato che li esponeva tutti a mille pericoli: non avrebbero dovuto trovarsi lì, soprattutto con dei cavalli, dato che quella strada era più adatta ai muli. Tra poco il buio avrebbe sorpreso la loro piccola comitiva ancora su quello stretto sentiero di montagna, costringendoli tutti a fermarsi per passare la notte esattamente dove si trovavano, lontani dal passo. Strinse gli occhi perplesso, in un’espressione che accentuò ancora di più i tratti del suo volto: occhi allungati a mandorla e sopracciglia appena accennate, naso sottile, occhi e capelli scuri su orecchie vistosamente appuntite.

Presto sarebbe diventato a tutti gli effetti un cittadino ed avrebbe potuto sostenere la Cerimonia dell’autunno per diventare cavaliere, se solo avesse voluto. Ma questo ora era soltanto un piccolo problema insignificante. Non mollando un istante la presa sulla briglia ripercorse a ritroso la strada dalla quale era appena venuto, osservando attentamente se vi fosse un luogo più adatto dove accamparsi con l’animale per la notte, ma non ne trovò. Mentre raggiungeva il fondo della fila gli altri elfi lo degnarono appena di uno sguardo, per lo più ignorandolo apertamente. Fece finta di nulla, come sempre, nonostante non fosse facile vivere così: dover fare il doppio di quanto facessero gli altri per venire considerato appena con sufficienza, ma mai completamente accettato. Sentì qualcuno caracollare precipitosamente giù per lo stretto sentiero dietro di lui,accompagnato dalle proteste di quanti erano stati quasi tra volti nel suo passaggio.

«Ehi tu! Perché ti sei fermato? C’è ancora strada prima di arrivare in fondo a questa lunga comitiva di imbranati!»

Tallein si girò e rispose, riconoscendo immediatamente la voce, senza nemmeno guardare:

«Bene, allora vai avanti e mettiti al tuo posto con gli altri, Critas.»

L’altro ricambiò la battuta con un sorriso beffardo. Vicino a loro nessuno sembrò prestare attenzione a quanto aveva appena detto.

«Lo farei se sapessimo dove andare. Ma a quanto pare l’esperto in cima alla fila ha troppo freddo persino per pensare. Non che abbia mai dubitato che ne fosse capace!». Critas accennò con un gesto del capo nella direzione dalla quale era appena arrivato.

«Quindi ci fermiamo qui!» protestò Tallein, esasperato.

«Così pare al momento. Un buon posto per slavine, valanghe, frane e soprattutto per congelarsi i piedi.».

Questa volta Tallein non riuscì a trattenersi e rise apertamente: «Non sembri essere molto contento di questa piccola gita all’aperto, chissà che direbbe tuo padre!»

«Nostro padre, vorrai dire, Tallein. E di sicuro avrebbe un sacco di consigli da darci in un momento come questo.»

«Non penso che ci darebbe soltanto consigli…».

Si guardarono di sottecchi per un istante, prima di scoppiare a ridere sonoramente al pensiero di ciò che avrebbe detto. Tallein gli fu grato per questo: Critas era l’unica persona che non gli stesse lontana, l’unico a considerarlo come un fratello, nonostante così non fosse. In realtà lui soltanto era il figlio legittimo, riconosciuto e rispettato e non sapeva cosa potesse significare essere degli illegittimi, portare addosso dalla nascita una colpa che non avrebbe mai potuto essere ignorata, in nessun caso.

«Io torno indietro. Hai qualcosa da riferire personalmente al nostro comune amico Dreint?»

«Nulla che tu poi possa ripetere.» scherzò Tallein.

«Bene. Vedo che su certe cose la pensiamo allo stesso modo.- e dicendo questo Critas sogghignò- Vedi di tenerti ben stretto alla parete e dormi bene stanotte.»

«Anche tu, grazie.» gli rispose.

Tallein fece scattare bruscamente il cavallo mentre si chiedeva con stupore come Dreint potesse essersi addossato la responsabilità di quella pericolosa comitiva. Personalmente lo considerava un idiota senza cervello, ma questo di per sé non poteva sufficientemente spiegare la situazione nella quale si erano cacciati. Erano tutti troppo giovani ed inesperti per una simile spedizione. Possibile che gli Osteller, non lo sapessero? Perché rischiare tutte le loro vite? Non prestavano alcuna attenzione alle voci che circolavano negli ultimi mesi? Abitanti di interi villaggi che scomparivano dal giorno alla notte senza lasciare traccia alcuna, viandanti che riferivano di essere stati inseguiti e talvolta anche attaccati da strane presenze nelle foreste più a sud. Dapprima nelle regioni degli uomini, ma ultimamente sempre più spesso a nord, ai confini con le regioni degli Elfi. I racconti passavano di bocca in bocca mutando e deformandosi in miti, leggende, o talvolta soltanto storielle prive di significato. E forse era questo il motivo per cui gli Osteller non vi avevano dato troppo credito. Ma se anche una sola di quelle storie fosse stata vera? Nel buio qualcuno intimò l’alt e l’intera colonna si arrestò improvvisamente in silenzio. Qualcuno in cima alla fila alzò improvvisamente la voce in un acceso diverbio e Tallein sorrise, riconoscendola. Critas stava già litigando con Dreint. Non si potevano accampare in un posto del genere per la notte, meglio sarebbe stato mandare avanti degli esploratori, assicurarsi se non vi fosse lì vicino un altipiano o comunque un posto migliore dove fermarsi. Ma Tallein conosceva già la risposta: ormai era troppo tardi. Già gli elfi preparavano dei fuochi con la legna raccolta durante il cammino. Alcuni montavano dei giacigli improvvisati, altri assicuravano gli animali alla parete rocciosa, in modo che non potessero fare male a sè stessi od ad altri. Nel buio si montavano già i primi turni di guardia.

Tallein si preparò come gli altri, fiducioso che l’indomani sarebbero finalmente arrivati ad Olnemain, ovvero al sicuro. Ripensò alla sua casa, alle alte guglie cristalline di Laivor e provò una fitta di nostalgia. Olnemain sarebbe stata egualmente bella? Era una città di uomini, ma ciò nonostante, dicevano, possedeva una sua grazia e forza. Si chiese se avrebbe potuto essere la sua nuova casa, mentre fissava le stelle che si stagliavano nel cielo limpido ed incredibilmente profondo. Si sarebbe sentito meglio di quanto si sentisse a Laivor, guardato da tutti come un figlio bastardo e non meritevole?

«A cosa pensi, fratellino?»

Critas era tornato indietro e lui, completamente assorto nei propri pensieri non l’aveva neppure sentito avvicinarsi.

«Nulla. Le solite cose. Cosa ti ha detto Dreint?» gli chiese.

«Che conta di essere ad Olnemai al più tardi entro domani sera. Ma io ho espresso i miei dubbi, come forse hai sentito...» rispose con un sorriso beffardo.

«Sì. Lo sanno tutti qui: basterebbe una bufera a fermarci. Qui il tempo potrebbe cambiare in fretta e non ci troviamo in una posizione molto felice.».

L’altro annuì con un cenno del capo ed entrambi rimasero in silenzio, condividendo per un istante le medesime preoccupazioni.

«Inutile starci troppo a pensare- sbottò quasi Critas- dopo una buona dormita tutto si sistemerà, vedrai.» e senza dire altro gli voltò le spalle e se ne andò bruscamente. Tallein sorrise nel buio, capendo che il fratellastro era tutto tranne che tranquillo, ma ciò nonostante non voleva rendere del tutto palese il suo nervosismo e la sua irritazione.

Guardò di nuovo in cielo: non una nuvola sembrava offuscare le stelle.

Lentamente sul campo scese il più assoluto silenzio, solo pochi mormorii degli elfi di guardia, con le palpebre pesanti per la lunga giornata faticosa. Il tempo passava quieto, assieme ad un impaziente vento gelido che spazzava ogni cosa e faceva rabbrividire gli elfi immersi nel sonno.

Tallein aprì improvvisamente gli occhi nel buio: non un suono... tutto nel più perfetto e terribile silenzio. Nulla era cambiato da prima, per cui potevano essere passati pochi minuti come alcune ore, impossibile dirlo. Tese il suo udito al di là dell’oscurità, cercando un segnale di pericolo, ma non sentì nessun rumore. E poi capì cosa l’avesse allarmato così tanto: non sentiva le sentinelle. Rimase immobile pensando di essersi sbagliato. Ma non era così: era come se nessuno stesse facendo la guardia in quell’istante. Dormivano forse? C'era solo silenzio tutt’attorno a lui, come se una coltre di ovatta fosse scesa ad intrappolare ogni cosa. Fece per alzarsi e correre per avvertire qualcuno, ma prima che potesse muovere un solo muscolo il silenzio fu interrotto da sibili. Non appena li udì si lanciò a terra sulla neve gelida e con un colpo improvviso e soffocato una freccia si piantò nella neve nel punto in cui un attimo prima si trovava la sua testa, mentre da ogni parte altri sibili ed altri tonfi seminavano morte...

Qualcuno urlò nel per dare l’allarme, ma era già troppo tardi. Le frecce ora colpivano senza pietà, decimando qualsiasi cosa si muovesse, animali imbizzarriti od elfi. Ai confini di quell’accampamento provvisorio non si sentiva rumore di armi, ma solo gemiti agghiaccianti ed urla di morenti. Tallein chiuse gli occhi con forza e rimase immobile. Non era possibile, stava sognando! Ma i gemiti si avvicinavano sempre più, rendendo ogni ribellione inutile in quella sorta di trappola. Nessuno di loro poteva scappare: potevano soltanto attendere la propria morte nel buio. Ma lui non voleva finire così, riaprì gli occhi e faticosamente prese a strisciare sulla neve gelida, tra i corpi dei compagni morenti e feriti. Ma il freddo per terra era troppo intenso: non aveva più la sensibilità per osservare ciò che accadeva lì vicino. Sapeva soltanto di dover continuare a strisciare, anche se non aveva la minima idea della direzione nella quale fosse diretto. Poi toccò con le mani intorpidite l’orlo tagliente del dirupo, al di là il nulla... nessuna via d’uscita. Ma almeno lì non era sotto la luce e pertanto neppure un bersaglio visibile per le frecce. Faticosamente si alzò in ginocchio e sguainò lentamente la propria spada. Se non c’era più speranza nella fuga, almeno avrebbe lottato contro quel nemico implacabile, fino alla morte. Ciò nonostante i gemiti si stavano allontanando da lui ora, lasciando dietro di sè uno strano silenzio di morte. Poi il nemico arrivò nel buio davanti a lui. Vedeva tutto rallentato ora, anche quella strana figura contorta che gli si avvicinava; poi si accorse di conoscere quel respiro, anche se ora era affannoso. Abbassò la spada e lo chiamò, sussurrando:

«Critas! Sei salvo!»

Le mani del suo fratellastro si strinsero attorno al suo braccio con una dolorosa fitta, sul viso macchiato di sangue un’espressione folle: «Scappa, subito! Non c’è altro da fare qui!». Lo trascinò via di peso appena in tempo. I pochi cavalli imbizzarriti rimasti in vita scaraventavano gli altri elfi fuori dal sentiero nel ghiaccio infido, giù nel vuoto.

«Lasciami! Voglio combattere!» gridò Tallein e si scosse, ma fu come se avesse parlato al vento. Non aveva paura: sarebbe rimasto lì fino all’ultimo se le mani forti dell'altro non l’avessero spinto a tradimento nel crepaccio. Urlò di disperazione contro Critas e l’ultima cosa che vide fu il suo volto contorto da un’espressione di dolore. Per un istante le sue mani si aggrapparono freneticamente all’orlo di ghiaccio liscio come il vetro per scivolare al di là, verso il vuoto. Chiuse gli occhi mentre cadeva rapidamente nell’oscurità verso una morte orrenda. Ed invece nell'oscurità l’acqua gelida e scura gli frustò la schiena e si richiuse dietro di lui, premendo sui polmoni con la sua stretta gelida. Riemerse a fatica nella corrente vigorosa e riaprì gli occhi per vedere davanti a sè una strana luce. Nuotò, lottando verso di essa per lunghi istanti, verso l’aria calda, il corpo già dolorante che scattava per sopravvivere ai morsi dell’acqua gelida. Ancora pochi secondi e la corrente l’avrebbe riportato giù intorpidito, verso la morte. Ed una mano l’afferrò con vigore e lo trasse a riva proprio mentre stava perdendo le ultime forze.

«Accidenti giovane amico. Non mi sembra la notte giusta per una nuotata questa. Cosa ti è passato per la testa? Mica sarai piovuto dal cielo?».

Tallein riconobbe a fatica la sagoma di un nano accanto al fuoco caldo:

«Lassù... lì stanno uccidendo tutti... devi aiutarmi.» mormorò e scosse la testa, senza fiato, i vestiti fradici ed insieme pesanti sugli arti intorpiditi. Una strana sonnolenza si stava impadronendo di lui...aveva freddo…

Il nano lo scosse vigorosamente, togliendogli di dosso i vestiti bagnati ed avvolgendolo in una coperta asciutta: «Stai sveglio ancora un istante, non addormentarti!- il tono di voce era pressante- Bevi adesso! Ci penseremo domani ai tuoi amici.» sussurrò, seccato, porgendogli una fiaschetta.

Subito dopo aver bevuto Tallein tossì rumorosamente, mentre una specie di fuoco liquido gli scendeva nelle viscere, dopodichè crollò addormentato.

Quando si svegliò era ormai l’alba. Era ancora avvolto strettamente in una rozza coperta, mentre il nano che l'aveva recuperato dal fiume se ne stava ancora con la testa a ciondoloni dal sonno sulle ceneri ormai fumanti del fuoco, cercando ancora di tenersi sveglio. Tallein riconobbe in quel nano la sagoma confusa che aveva intravisto poche ore prima e ricordò tutto. Doveva sbrigarsi e subito. Non appena si mosse il nano scattò in piedi lì accanto, sospirando e stiracchiandosi, come se avesse appena fatto una sana dormita. La sua faccia placida era uno strano accostamento con l’ascia grande almeno il doppio di lui che portava a tracolla.

«Buongiorno giovane elfo, ti senti meglio stamattina?»

«Un po’ impacciato da questa coperta, ma bene. Vorrei i miei vestiti però e subito.» gli rispose.

«Ehm sì certo naturalmente- il nano tossicchiò leggermente, quindi gli porse un fagotto asciutto- Questi sono i tuoi vestiti, puzzeranno un po’ di fumo, ma per lo meno sono ben asciutti.»

Liberandosi a malapena dall’intrico delle coperte ed indossando velocemente i vestiti sgualciti Tallein si rese conto che il nano indossava una pesante tenuta da guardiacaccia. Ma cosa ci faceva lì da solo sulle montagne?

«Il mio nome è Tallein ed il tuo?» gli chiese.

«Pantekor, gli amici mi chiamano Pan- rispose il nano sorridendo- Ed ora che ci siamo presentati mi vuoi dire cosa diavolo...»

«Devo arrivare lassù.» lo interruppe il giovane elfo che aveva già finito rapidamente di vestirsi e si rimise in piedi, guardandosi attorno.

«Ecco appunto. Mi vuoi dire da dove sbuchi fuori? Questa notte sei arrivato dal cielo...hai fatto un bel volo tra l’altro se non m’inganno e deliravi che erano morti tutti. Mi vuoi dire per che accidenti di motivo ti sei buttato nel fiume? Volevi morire?»

Tallein non lo considerò nemmeno, ma con la maggior rapidità che gli fosse consentita individuò il sentiero che si inerpicava sulla parete rocciosa. Doveva assolutamente tornare indietro e subito.

«Tu non vai da nessuna parte, mio caro amico. Non senza di me almeno.» Il nano, indovinando le sue intenzioni, gli si era piantato davanti maneggiando con grazia l’enorme ascia bipenne che faceva roteare come un fuscello.

Tallein si fermò terrorizzato: per ogni istante perduto potevano esservi altri suoi compagni morti lassù, se ancora vi fosse stata la flebile speranza che qualcuno si fosse salvato.

«Senti Pantekor, questa cosa non ti riguarda. Ti ringrazio per avermi tirato fuori dall’acqua stanotte, ma non posso rimanere qui, quindi lasciami passare.»

Il nano pensò che quell’espressione fosse dettata dal timore della sua arma e sorrise sarcasticamente, senza muoversi di un millimetro:

«Bla, bla, bla. Tutta chiacchera. Tu di qui non ti muovi senza di me.» lo sfidò.

«D’accordo - si rassegnò Tallein, sospirando rassegnato- vieni con me.»

Pantekor sorrise: «Così andiamo bene giovane elfo- rimarcò-fammi strada.».

Insieme si inerpicarono sulla rupe scoscesa che formava uno dei pendii in fondo al quale scorreva impetuoso il ruscello. Tallein cercò di orientarsi e capì presto di essere stato tratto in salvo sulla riva opposta rispetto a quella dalla quale era caduto. Si fermò incerto ed allora fu la volta di Pantekor di mostrargli la strada; rapidamente lo guidò ad un passaggio roccioso ed insieme ritrovarono il proseguimento della strada che Tallein ed i suoi compagni non erano riusciti a percorrere. Contrariamente a quanto l’elfo avesse potuto pensare non si allargava, bensì si restringeva a formare quasi un collo di bottiglia. Dopo quasi un’ora che camminavano il sentiero cominciò quindi ad innalzarsi sempre di più, allontanandosi bruscamente dall’acqua. Ma per quanto tempo era stato trascinato dalla corrente? Ricordava vagamente ora quello che era appena successo quella notte, vaghi frammenti separati che lo riempivano di angoscia. Le rocce si coprirono di ghiaccio e neve, eppure il nano sembrava essere perfettamente nel suo elemento. Tallein faticava a stargli dietro.

Poi li vide.

Larghe ombre nere nel cielo che vorticavano su un punto là, poco sopra di loro. I corvi planavano gracchiando in cerchi sempre più piccoli. Improvvisamente sia il nano che l’elfo accelerarono il passo, capendo di essere prossimi alla loro meta. Lo stretto budello si aprì improvvisamente davanti a loro e Tallein riconobbe a fatica il luogo dove si erano accampati la notte prima. I corpi straziati erano sparsi dappertutto sulla neve vermiglia. Chiunque fosse stato il loro assassino si era divertito bestialmente a straziare i corpi; perfino i cavalli non erano stati risparmiati. Alcuni dei cadaveri orribilmente straziati erano ormai irriconoscibili.

Pantekor cacciò i corvi con un’espressione nauseata e Tallein capì in quel momento: non vi erano sopravvissuti. Ciò nonostante cominciò a camminare lentamente tra i corpi straziati. Cercava Critas. Ma per quanto si facesse forza non lo riconobbe in nessuna di quelle figure. Lentamente, sopraffatto da un tale orrore, si mise a piangere. Le lacrime gli velarono gli occhi, impedendogli di osservare più a lungo quell’orrore. Inconsciamente li aveva contati, passando tra loro: capì in un solo istante di essere rimasto l’unico superstite. Aveva odiato quelle persone soltanto poche ore prima ed ora odiava sè stesso per non essere morto con loro. Critas gli aveva salvato la vita.

“Giovane elfo! Guarda qui!» lo richiamò improvvisamente Pantekor. Aveva raccolto qualcosa da terra e la stava esaminando con interesse. Tallein si avvicinò, guardando stupito nella neve davanti a lui, notando qualcosa che non avrebbe dovuto esserci, ma che la sua mente faticava ancora a comprendere. Pantekor lo guardò seriamente mentre gli allungava l’oggetto che teneva tra le mani: era una freccia.

«La riconosci?» gli chiese.

Tallein fece cenno di no. Non aveva mai visto una freccia del genere.

«Uomini- brontolò il nano- ma non comuni. Non uomini delle montagne. Queste frecce vengono dalla pianura... sono le armi dell’esercito di Olnemain.»

Tallein faticò a comprendere: «Uomini?- chiese- Ma perchè mai?»

«Appunto, per quale motivo avrebbero dovuto spingersi fin qua? E poi guarda questo...» si accucciò a terra, indicando con la mano una porzione di terreno in ombra, dove ancora la neve non si era del tutto scongelata. «Non mi risulta che gli uomini abbiano artigli.» aggiunse, preoccupato.

Tallein guardò con attenzione, quelle avrebbero potuto essere tracce fresche, di qualche animale passato di là dopo che era già successo tutto. Ma nella neve fresca si riconosceva ancora l’impronta di un piede...dotato di lunghi e spessi artigli.

Niente di umano poteva aver compiuto quella strage ed allora Tallein ricordò: i sibili tutt’attorno a loro delle frecce nell’oscurità, ma anche le urla di terrore. Per cosa? Cosa poteva esserci di tanto orribile?... Tranne qualcosa che si muovesse rapidamente nel buio, senza essere visto nè sentito. Nell’oscurità rivide l’espressione folle del fratellastro, il volto sporco di sangue, poco dopo aver udito quei terribili gemiti. Perchè Critas lo aveva spinto nel precipizio?

Il nano osservò con attenzione il lieve cenno che Tallein faceva con la testa, soprappensiero. No, non poteva essere possibile.

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  • 1 mese dopo...
  • 1 mese dopo...

Complimenti per le storie, sono intelligentemente divertenti e ben strutturate, anche se troppo lunghe.

Secondo me sarebbe meglio se le spezzassi in + paragrafi (posts) di modo che siano + leggibili e meno pesanti :wink:

Mmm, grazie, buona idea! Ed io che avevo sempre pensato che come capitoli fossero troppo corti.... :roll:

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  • 1 mese dopo...

Sono andato lentamente e faticosamente avanti:

4.Incontri

Tutt’ad un tratto si svegliò in una stanza fortemente illuminata dal sole brillante, attraverso pesanti, ma rozzi tendaggi. A quanto pareva Vartenia non era tornata a svegliarla e così aveva dormito per tutta la notte. E con questa erano due le notti che mancava da casa: ci sarebbe mai potuta tornare? Ad un tratto si sentì stupida: fino a ieri avrebbe dato tutto per non dover stare in casa con sua madre ed ora, appena sveglia, già provava nostalgia per quello che aveva appena lasciato. Avrebbe dovuto essere felice per come il destino aveva accontentato i suoi desideri. Ma non lo era: in parte perchè si era ficcata in un mare di guai. E tutto per colpa sua! Ficcò la testa testardamente nel cuscino, tentando invano di non dare più retta alla propria coscienza, allo stesso tempo confusa e sconfitta. Per ogni minuto che passava così, le sembrava di essere lacerata dai propri pensieri, soprattutto da tutte quelle domande senza risposta. Ma alla fine si decise: appena fosse scesa dal letto avrebbe immediatamente cercato Vartenia. Capì di non poter aspettare così un solo momento di più. Rapidamente scostò le coperte e si alzò in piedi sul pavimento gelido. Guardandosi attorno si accorse che dopotutto il sole, per quanto brillante, non riusciva a far penetrare il proprio calore in quella stanza. Sembrava tutto così distante e tetro, adesso. I vestiti erano sempre accuratamente piegati su una sedia lì accanto. Ed una persona aspettava in silenzio, seduta in un angolo della stanza.

«Vartenia? Sei tu?» chiese, bloccandosi nel panico, pronta a scattare e fuggire.

«Sì sono io, non devi aver paura.» le rispose, alzandosi di scatto ed avanzando verso di lei sotto la luce, fuori dall’ombra. La lunga veste nera che indossava sembrava poter scivolare sul terreno senza toccarlo. Lara la osservò, ammirata.

«Stai bene? Hai dormito?»

«Sì grazie, ma...»

La donna le fece il segno di tacere: «Non adesso, mi spiace ma non c’è n’è proprio il tempo. Sbrigati, il kissal ci sta aspettando.».

In un batter d’occhio Vartenia scivolò fuori dalla stanza. Lara indossò velocemente i propri vestiti e la raggiunse nel corridoio. Si guardò attorno, quantomai sorpresa: non si sarebbe mai aspettata di trovarsi in uno spazio angusto, poco illuminato e scavato rozzamente nella pietra. Ma forse la notte era tutto diverso: ora non tutte le lampade nelle nicchie annerite dal fumo erano accese.

«Vieni con me.» le disse Vartenia.

E subito si inoltrarono in una ragnatela di corridoi egualmente poco illuminati e deserti. Vartenia sceglieva con assoluta sicurezza ad ogni bivio e se talvolta il corridoio era quello più largo, altre volte invece, dopo una stretta curva, si infilavano in sorte di budelli. Una volta sbucarono addirittura in una sorta di crocevia, passando accanto ad una processione di figure silenziose. Ma nessuno prestò loro la minima attenzione. Continuando a girare in quella specie di sotterraneo, Lara si rese conto di sfuggita di non essere passata di lì la notte prima. Ma forse era soltanto un’impressione. Nulla le era familiare.

Salirono alcune strette scale a chiocciola inoltrandosi in corridoi sempre più larghi e meglio illuminati; stavolta sembrava quasi di poter sentire il tepore del sole avvicinarsi. Finalmente arrivarono in una stanza, intiepidita dalla luce mattutina.

«Aspettami qui un attimo. Non muoverti per nessun motivo.» le disse subito, scomparendo velocemente attraverso un ampio portale in pietra alla loro sinistra

.

Adesso era di nuovo sola. Lara si guardò attorno incuriosita: se non poteva muoversi avrebbe però sempre potuto guardarsi attorno, si disse. In un primo momento non era riuscita a vedere bene nulla in quella nuova stanza. C’era troppa luce rispetto ai corridoi bui. Ma adesso distingueva nettamente gli ampi arazzi appesi alla parete di destra. I riflessi dorati della luce del sole squarciavano le ampie finestre illuminandoli in pieno. Lara si avvicinò, senza riflettere: distingueva a malapena le figure in colori vivaci. Potevano essere cavalli o bestie di forme inusitate. Non fece in tempo a rendersene conto.

Vartenia la strattonò improvvisamente per un braccio, facendola sussultare: «Vieni con me, ragazzina. Adesso puoi entrare.».

Stavolta attraversarono insieme il portale: al di là di esso c’era un’ampia stanza, ancora più ricca e luminosa della precedente. La forma ovale accompagnava i cerchi concentrici di scuri seggi lignei, che contrastavano in mezzo con una piattaforma sopraelevata in pietra. Alla sommità di essa c'era un trono. E seduto su quella sorta di scranno ed avvolto in una lunga mantella grigia, c'era un vecchio che stava ascoltando con attenzione altre due persone. In un primo momento Lara non capì assolutamente cosa stessero dicendo; anzi, per un attimo la sfiorò il dubbio che non stessero parlando nella sua lingua. Ma poi una voce tra le altre si fece improvvisamente più chiara e precisa nella stanza, come scandita:

« ... Presto manderanno qualcuno per vedere cosa sia successo. Devo arrivare là prima che questo accada, devo avvertirli, anche se per questo dovessero considerarmi un traditore.»

Lara entrò completamente nella stanza, spinta da Vartenia e vide che chi stava parlando non era un uomo. Non proprio nel senso stretto del termine, almeno. Un uomo sicuramente non aveva i tratti del volto così affilati e le orecchie appuntite. Chiunque fosse sembrava estremamente dibattuto ed impaziente... accanto a lui quello che doveva essere un nano annuiva e commentava con degli strani borbottii. Quando l’altro si interruppe alla vista di Lara, anche il nano sollevò lo sguardo perplesso su di lei. Sovrappensiero sistemò l’ascia che portava ancora a tracolla e Lara non potè evitare di spalancare la bocca, sorpresa. Ma chi erano quelli?

Il vecchio, accortosi della sua presenza le sorrise benevolmente: «Benvenuta ragazza, avvicinati.»

Lara obbedì e cercando a stento di ignorare il nano che ora la stava fissando con aria di sfida, si avvicinò alla piattaforma.

«Spero tu abbia fatto buon viaggio.» le disse il vecchio, sorridendo.

Quasi per nulla confortata dalla presenza di Vartenia dietro di lei, Lara annuì terrorizzata e ricambiò forzatamente il sorriso. Aveva ancora voglia di scappare da lì, visto che fino a pochi giorni prima non sopportava la compagnia dei suoi simili. Ora però non sapeva se il suo fosse ancora odio o piuttosto un genuino terrore. Per il momento aveva semplicemente rinunciato a parlare per timore che gli altri non la capissero. Ma ora cosa doveva fare? Perché Vartenia l'aveva portata lì?

Il vecchio le sorrise nuovamente, da dietro quella barba incolore, riempiendo così il silenzio impacciato che era venuto a crearsi nella stanza. Anche il compagno del nano la fissava ora, incuriosito. Lara notò il suo sguardo e non potè fare a meno di rimanerne stupita: era giovane, forse quanto lei stessa ed indossava vestiti semplici; non portava armi, almeno non in vista.

All’improvviso, per rompere quel lungo istante di silenzio, Vartenia si fece avanti:

«Mio Signore, ho trovato questa ragazza non più tardi di due notti fa, nei boschi a nord del Tissen. Era stata attaccata da strane creature, ma quel che è peggio è stato che, ascoltando la sua storia, ho capito immediatamente che proviene dal mondo al di là del Passaggio.»

A questa affermazione tutti la guardarono con stupore ed orrore insieme. Il vecchio quasi si ritrasse sul suo scranno, spaventato:

«Ma non esiste nulla al di là del Passaggio. É soltanto una vecchia leggenda!» sbottò.

Vartenia aggiunse: «So che può sembrare impossibile. Era tanto, tantissimo tempo che nessuno attraversava il Passaggio. Eppure questa ragazza lo ha fatto; ti prego di ascoltare la sua storia.».

«Avvicinati.» borbottò il vecchio, ancora non del tutto convinto.

Vartenia la spinse decisamente verso la pedana stavolta, accanto al nano che ora la guardava con crescente sospetto. E Lara rimase in silenzio. Come poteva raccontare loro quello che le era successo, cosa aveva provato? Era successo tutto così rapidamente da non lasciarle neppure il tempo per rendersene conto, figuriamoci se avesse potuto descriverlo ...

«Su racconta, non aver paura.» la apostrofò gentilmente il vecchio, notando il panico sul suo viso.

Doveva farlo.

Lara cominciò, suo malgrado, a raccontare. All’inizio le fu molto difficile trovare le parole giuste per esprimersi, quasi che un groppo in gola le impedisse di parlare. Ma poi pian piano fu come se le fosse più facile parlare: le ultime barriere dentro di lei cedettero alle emozioni. Alla fine provò la netta e terribile impressione di non parlare neppure di lei stessa, ma semplicemente di un’estranea. Sembrava tutto così lontano, seppure fosse passato solo un giorno. Quando ebbe finito il suo racconto il vecchio continuò a fissarla preoccupato.

«Questa storia non ha nè capo nè coda! Il Passaggio è stato chiuso nei Tempi antichi e questa ragazza non avrebbe potuto sopravvivere ai confini che lo proteggono. Sempre che tutto quello che ci ha raccontato sia vero! – sbottò il nano e concluse:- Secondo me. non ci dice affatto la verità!».

Lara lo guardò impaurita, già pronta a scappare via da lì nella vergogna. Come potevano credere a quello che aveva detto se lei per prima stentava a crederci?

«Ricordati che le leggende possono sempre tornare a far parte della realtà.» lo redarguì Vartenia.

«Ma sono solo favole! Fiabe di tempi andati e sepolti. Che prove abbiamo per crederci? Nessuna!»

«Il mio popolo, il popolo degli elfi del nord ci crede.».

Tutti si girarono sorpresi. L’elfo, ovvero quello che per Lara era un uomo dalle orecchie appuntite, scosse la testa annuendo, come rassegnato: «Sì, noi ci crediamo. Le nostre leggende ci hanno sempre avvertito che questo avrebbe potuto accadere. Il Passaggio può essere riaperto. Sempre che si abbiano poteri sufficienti a farlo.»

«Ciarlatanate. Non fate altro che ingannarci tutti» soggiunse il nano, sprezzante.

Vartenia lo ignorò per il momento.

«Io non vengo a presentarvi delle prove, ma dei fatti. Appartiene al kissal la responsabilità di decidere. Io mi rimetto al suo giudizio ed alla sua prudenza.»

Il vecchio si alzò in piedi di scatto, innervosito. Sul suo viso passavano nubi scure, mentre contemplava possibilità che solo ora arrivava pienamente a comprendere. Infine si decise a parlare:

«Non parlare in maniera così avventata amico mio, forse le leggende sono ritornate veramente in questo mondo o forse no. Non possiamo comunque ignorare la possibilità che ciò sia avvenuto e neppure illuderci che non vi saranno delle conseguenze da affrontare.»

Il nano si agitò, irrequieto: «Ma...!»

«Niente ma,- lo interruppe subito il kissal- Per ora ho bisogno di calma per riflettere. Prego ciascuno di voi di ritirarsi per breve tempo nelle proprie stanze. Vi farò richiamare quando avrò preso la mia decisione. Fino ad allora rimarrete com'è ovvio miei graditi ospiti.».

Con delicatezza Vartenia prese Lara sottobraccio e la ricondusse nella sala degli arazzi. Mentre usciva, Lara vide con la coda dell'occhio il nano e l'elfo che si allontanavano dalla parte opposta del salone.

«Ti ricordi la strada dalla quale siamo venute prima?» le chiese Vartenia.

Lara rimase in silenzio, cercando di recuperare il ricordo del labirinto che avevano percorso poco prima. Ma subito si rese conto di non essere assolutamente capace di tornare indietro. Fece di no con la testa.

«Aspettami qui dentro allora, non tarderò.» la rassicurò Vartenia e quindi scomparve.

Lara sospirò rumorosamente e rimase sola nel centro della stanza ad aspettare. Poi quando la curiosità divenne troppo grande si avvicinò a quegli strani arazzi: non aveva notato prima che le figure sembravano muoversi.

Seduto sul suo scranno il vecchio passava nervosamente le dita sugli intagli, riflettendo tristemente su quanto stava succedendo. Non era più quello di una volta: ogni giorno cercava un rinnovato vigore per combattere, ma di volta in volta si sentiva sempre più vecchio e soprattutto sempre più debole. Oramai era stanco di lottare e sarebbe arrivata una mattina nella quale, svegliandosi, avrebbe saputo di aver perso completamente la voglia di combattere; temeva anzi che quel giorno potesse essere molto vicino.

Dove avrebbe trovato allora un buon successore? Pensò a tutte le persone che quotidianamente gli si affollavano intorno: bastava una sola mano per contare quelli veramente fidati. Ed allora? Aveva sempre saputo che coloro che lo circondavano volevano in realtà solo potere e prestigio,magari anche ricchezze e gloria. Quanti gli si affollavano attorno per dargli veramente un aiuto? Poveri stolti: coltivavano sogni che la sua morte avrebbe velocemente dissipato. Eppure doveva trovare un successore, doveva pensare già ora a cosa sarebbe successo dopo. A chi avrebbe preso il potere tra le proprie mani per proseguire il lavoro che andava fatto. Ma chiunque fosse tale persona non aveva ancora un volto: se non avesse scelto, alla sua morte gli sarebbe semplicemente succeduto il figlio. Ma il sangue del suo sangue non era adatto per assumersi una simile responsabilità, era fidato, questo sì; ma non avrebbe mai imparato la saggezza e la prudenza necessarie per assumere il potere nelle proprie mani. Suo figlio era impulsivo, incosciente, per nulla diplomatico e per giunta immaturo. L’unico problema era che non era ancora pronto e forse dopotutto non lo sarebbe mai stato. Amava la guerra invece di saper cercare la pace, spendeva il denaro per sé stesso piuttosto che per gli altri, inseguiva l'effimero… non sarebbe mai stato un buon kissal. Ma chi altri poteva succedergli? Chiunque altro avesse designato al posto del proprio figlio non avrebbe avuto il diritto del sangue. Erano tempi oscuri questi e senza il diritto del sangue nessuno sarebbe resistito a lungo al suo posto. Se non altro suo figlio non si sarebbe piegato facilmente ai voleri dell'alta nobiltà: l'orgoglio era il suo miglio pregio, ma anche il suo peggior difetto… Sospirò su quei pensieri ancora una volta e volse lo sguardo attorno alla stanza vuota.

Od almeno così credeva che fosse.

Il debole fruscio di una veste lo raggiunse dall'ombra e già prima di alzare gli occhi seppe che si trattava di Vartenia. Quella donna una volta gli faceva paura: ora non più.

«Donna, sei venuta qui ancora come un corvo del malaugurio. Non ti avevo detto di ritirarti nelle tue stanze?» le chiese con sarcasmo. La conosceva ormai, da tanto, troppo tempo. E sapeva che qualunque cosa le fosse stata detta quella donna avrebbe comunque fatto di testa propria.

Vartenia si fermò davanti a lui e quindi si inchinò lentamente a terra:

«Sai bene che non è per mio volere che porto tali messaggi. Pure qualcuno deve portarli.»

«Già, avevo perso l'abitudine alle tue frasi sibilline. Tu aggiungi altre amarezze a quelle che già coltivo io stesso nella mia vecchiaia.» le disse, con amarezza.

Vartenia si rialzò lentamente da terra e tacque.

Il vecchio kissal prese coraggio e continuò: «Come puoi chiedere a me di assumere simili responsabilità? Non solo sono vecchio, ormai, ma anche terribilmente stanco. Non voglio più sentir parlare di catastrofi, di guerre e delle tue magie! Le mie preoccupazioni sono altre.. e ben più importanti»

«E le conosco bene anch'io, mio signore,- lo interruppe Vartenia- ma ciò nonostante devi conoscere quali terribili pericoli ti troverai ad affrontare. Qui non sono in gioco soltanto le nostre due vite, ma è minacciata l'esistenza di qualsiasi essere vivente su Solnem. Un'enorme pericolo ci minaccia, tutti quanti, se sta avvenendo quello che temo. Puoi forse prenderti la responsabilità di ignorare cose molto più grandi di te? Puoi mettere in gioco vite che non ti appartengono?»

«Io so soltanto che come al solito non dici mai completamente quello che sai ed io non posso neppure essere sicuro di non essere manovrato per i tuoi scopi. Chi è veramente quella ragazzina? E cosa vuoi da me e da lei? Cosa c'entra con tutti noi?» sbottò incollerito.

Vartenia fece per rispondere ma il vecchio kissal non la lasciò rispondere, tale era la sua ira:

«Porti qui una ragazzina che secondo le leggende dovrebbe venire da un altro mondo e vuoi che sia io a decidere del suo destino. Sai cosa ti rispondo? Che non voglio saperne più nulla di questa storia!»

Vartenia trattenne a stento la propria rabbia: «Ai miei occhi sembri soltanto un vecchio egoista che non è più capace di guardare al di là del proprio naso.». Pronunciò le parole a voce alta e con un tono gelido, come se dovesse farle sentire ad un grande auditorio. Ma erano soli nella stanza.

«Fuori di qui! Come osi offendermi?» Il vecchio kissal si alzò in piedi dal proprio scranno, puntandole contro un dito. Ma Vartenia non si mosse di un millimetro. Non sembrava più una persona indifesa ora e chiunque si sarebbe spaventato davanti ad una simile trasformazione, ma non Vartenia.

«Mi ricordo ancora quando salisti su quel seggio. Allora eri più saggio e prudente. Allora capivi quando la tua gente aveva bisogno di te e mettevi davanti a te la speranza. Come hai potuto farti togliere le tue certezze? Come hai fatto a smarrire la tua strada?»

Il kissal sembrò vacillare davanti a queste parole e davanti allo sguardo accusatore di Vartenia. Lentamente si risedette sul proprio seggio, lo sguardo perso in strani pensieri: «Non ho perso nulla, donna. È ancora tutto dentro di me, ma non sempre la saggezza consiste nel prepararsi alla guerra. Talvolta bisogna tenersi stretti a quel poco che si ha. La speranza che mi hai appena ricordato forse è svanita, ma non per questo voglio infliggere nuove sofferenze al mio popolo.» aggiunse a bassa voce.

«Non sono io a volerti manovrare, ma gli eventi. Se tutto questo sta succedendo, non puoi incolpare nessuno. Ho visto i segni da tempo ed ora che la ragazza è giunta fin qui ti consiglio di non ignorare quello che deve essere fatto. Almeno questo ti chiedo: non aspettare che la rovina bussi alle porte della tua città soltanto perché intendi ignorare ciò che accade al di fuori di queste mura che ci proteggono.»

Si affrontarono ancora per un attimo, fissandosi negli occhi. Il vecchio voleva capire se quella donna gli avesse detto la verità, nonostante sapesse già dentro di sé da tempo che non gli avrebbe mai mentito su una simile cosa. Lo sentiva. Eppure non riusciva ancora ad accettare che delle profezie così oscure si potessero avverare: avrebbe potuto scoppiare una guerra, questo sì. Ma l'arrivo di una sconosciuta, di una semplice ragazzina, non poteva coincidere con l'inizio di uno sterminio. Non poteva costituire una simile minaccia. Eppure gli elfi…. gli venne da pensare.

Fissava ancora quegli occhi davanti a sé, senza trovarvi alcuna traccia di menzogna. Quella donna era convinta di ciò che diceva. Il vecchio rabbrividì quasi e distolse lo sguardo; ormai in lui l'ira era completamente svanita, sostituita dalla rassegnazione.

«Cosa mi chiedi di fare?» le chiese.

Vartenia sospirò: «Quella ragazza viene realmente da un altro mondo, ma per farlo ha utilizzato una magia molto, molto potente…una magia paragonabile a quella del gioiello. Anzi potrei dire che è come se l'avesse usata.»

«Il gioiello? Cosa c'entra con tutto questo?» le chiese, incredulo, con il fiato mozzato.

Vartenia rimase un istante in silenzio, valutando tra sé quello che stava per dire: «Quella ragazza porta con sé una parte, come un frammento del gioiello. Ogni volta che mi avvicino a lei ne percepisco il potere.. ma è come se non fosse completo.»

«Incredibile, ma questo significa…»

«Che chiunque sia a conoscenza di questo piccolo segreto farà di tutto per avere da lei il suo pezzo di gioiello. Se è riuscita a raggiungerla nell'altro mondo non si fermerà neppure in questo.» concluse per lui Vartenia.

Il vecchio rimase in silenzio a riflettere: «Ed io cosa dovrei fare a questo punto?»

«Mandare la ragazza a cercare ciò che resta del gioiello.»

«Ma come è possibile? Fino ad ora si credeva che fosse stato perso o distrutto!»

«Ma così non è stato, -gli rispose pazientemente- per questo quella ragazzina potrebbe essere l'unica persona su Solnem a poterlo recuperare. Inoltre sono convinta che una volta trovato il gioiello potrebbe portarlo sul suo mondo una volta per tutte. E là non avrebbe più alcun potere.»

«Dunque l'unico modo per fermare tutto questo è soltanto riportare quella ragazza nel suo mondo.» disse il kissal. «Ma come intendi farlo? Intendi dirle tutto?» chiese.

Vartenia annui: aveva mentito, ma il vecchio kissal non poteva saperlo. La ragazza non poteva e non doveva conoscere tutta la verità. Nessuno doveva farlo, neppure il kissal. Però…

«C'è un'altra cosa. Il massacro degli elfi non è stato casuale.-aggiunse Vartenia- Chiunque l'abbia realizzato segue un piano preciso ed intende portarlo a termine qui: ad Olnemain. Ti suggerisco di far partire la ragazza subito. Deve andare via da qui. E qualcuno dovrà accompagnarla…»

«Chi?»

«Non abbiamo molto tempo: io pensavo al nano e a quell'elfo: Tallein. Loro non avrebbero problemi ad accompagnare la ragazza. Io stessa la seguirei, ma non posso…»

«Tu mi chiedi troppo, donna! Non posso coinvolgere dei perfetti estranei! Per di più sarebbe meglio affidare quella ragazza ad una scorta armata....».

«Niente di più sbagliato,- disse Vartenia e continuò:- affidarla ad una scorta armata sarebbe come rendere più facile il compito a chi la cerca. Ha bisogno di viaggiare leggera e soprattutto di passare inosservata. Oltretutto non abbiamo molto tempo per organizzare la sua partenza. Chiunque la cerchi potrebbe avere i suoi emissari già qui dentro, in città. Per questo dobbiamo essere molto rapidi.»

Il kissal cominciò a riflettere: che quella piccola ragazzina potesse avere a propria disposizione una parte del potere del gioiello era a dir poco incredibile. Ma se fosse stato vero chiunque la stesse inseguendo era senz'altro disposto a tutto pur di stanarla. Il vecchio conosceva le leggende sul gioiello e rabbrividì al pensiero che solo un decimo di quella storia potesse essere vero. Se Vartenia aveva ragione in quella storia c'era in ballo ben più di quanto potesse osare immaginare. All'improvviso gli balenò alla mente una terribile possibilità:

«Quegli elfi massacrati sulle montagne, non mi dirai che hanno qualcosa a che fare con questa storia!» esclamò.

Vartenia non gli rispose direttamente: «Chiunque sia ad inseguire la ragazza non ha intenzione di fermarsi davanti a nulla. Potrebbe voler scatenare una guerra solo per confonderci o per qualcosa di peggio. Anche se ancora non so quali saranno le sue prossime mosse.».

Anche stavolta aveva mentito, ma proseguì, era necessario farlo: «Anche per questo il giovane elfo va allontanato da qui. È l'unico superstite e non verrebbe mai creduto. Finchè rimane in questa città corre il rischio di venire eliminato.».

Il kissal annuì, convinto. La rabbia era sbollita e così anche la rassegnazione. Ora vedeva chiaramente cosa fare: «D'accordo allora.- disse- Manderò con la ragazza quel nano e il giovane elfo. Ma dove potranno cercare quello che rimane del gioiello se è andato distrutto? Dopotutto la ragazza ne possiede nulla di più che un frammento, a tuo dire!»

Vartenia sorrise amaramente anche stavolta: «Forse le cose non stanno come sembrano. Prima che gli eventi precipitino c'è forse ancora una via sulla quale indirizzare quella ragazza, ma…»

«Cosa ancora?» chiese il kissal, esausto.

«Il nano e Tallein non bastano per accompagnarla. Le serve anche quello zigar, quello che tenete nelle prigioni.» rispose Vartenia.

«Ma sei impazzita? Non puoi pretendere una cosa del genere!» il kissal era sbalordito. Non poteva credere che quella donna arrivasse a chiedergli una cosa simile.

«È la nostra ultima possibilità.» confermò Vartenia, senza battere ciglio.

«Ma è una pazzia! Ti rendi conto che è un rischio troppo grande? E poi quel nano non accetterebbe mai!»

«Delle due l'una: o dovremo convincerlo noi, oppure dovrà convincersi da solo.» concluse Vartenia freddamente e fatto un rapido inchino, si girò ed uscì dalla stanza.

Se erano arrivati a quel punto allora non avevano altra alternativa possibile. Non più.

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la stampante chide pietà, ma alla fine sono riuscito a stampare i quintali di materiale!

forse sta sera, dopo che avrò studiato e successivamente letto il papiro, ti dico un po di peste e corna... :wink:

:twisted::twisted::twisted:

Ihih intanto ho la suprema soddisfazione di aver esaurito la tua stampante...

Cmq sto lavorando già al prox capitolo.... :roll:

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ho letto solo il primo capitolo.

bello!molto noir e un pochino triste.

piccola critichina( :twisted: ):secondo me la descrizione della creatura dovevi particolareggiarla meglio:mentre leggevo me lo immaginavo,ma i dati erano un pò pochini.anche la luce calda che avvolge lara...secondo me dovevi soffermartici un pò di più.

per il resto buono.

ah,un'ultima cosa anche se te l'hanno già detta:dividi di più i capitoli dai!!!

mo per continuare col racconto devo per forza stamparlo perchè mi ha interessato ma non ho voglia di spararmelo tutto in ufficio. :wink:

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