Posto qui, dopo averne più volte constatato l'impossibilità editoriale il mio primo libro, scritto tra seconda e terza media ^^.
da allora credo di essere cambiato, e non poco, anche come stile (vedi qui) ma feedback e critiche (anche spietate) sono ben accette, anche perché non mi sento ancora perfetto.
Vi prevengo, è infantile. stereotipato. piatto. questo lo so già (non l'ho pubblicato per un motivo ) ma allora non me ne rendevo conto, come non me ne potrei rendere conto oggi. quindi, se volete/potete, confrontate il libro con il link qui sopra (che forse aggiornerò se vedrò che reclamano il resto del prologo) e ditemi se le imperfezioni rimangono.
allora, ogni settimana posterò un paio di capitoli, per lasciarvi commentare. arriverò a postare il libro intero, poi se vorrete anche parte del secondo.
che dire, sono ansioso di sapere che ne pensate, e pronto a sentire consigli e critiche!
grazie a tutti in anticipo!
Introduzione e prologo
Spoiler:
Nel buio freddo delle prime ore della notte, la locanda emanava una delle poche luci fioche dei dintorni. Alcuni cavalli erano posteggiati fuori, legati saldamente alle travi e coperti con pesanti coperte di lana e una tettoia di legno che li riparava dalla pioggia impetuosa. Dentro aleggiava un odore di birra e alcuni musicisti stavano suonando una musica intrigante, mentre due ballerine improvvisavano una danza sul bancone. La loro bravura, abilmente nascosta sotto le vesti di semplici contadine, ammaliava gli spettatori. Ben presto, però, le contadine smisero di danzare, e la locanda rimase in silenzio. Così, quando il pesante portone di quercia si aprì lentamente, lasciando intravedere uno straniero intabarrato, l’oste del Cervo Bianco accorse con una coperta di lana ricamata e un boccale di tisana calda per il nuovo arrivato. Subito lui si sedette ad un tavolo vicino al camino, dove un nano gentile gli aveva fatto spazio. Un umano ed un’elfa dai fiammeggianti capelli rossi subito si avvicinarono, seguiti da altri due elfi, le ballerine di prima , un altro umano e un
mago alto e slanciato. Il nano che gli aveva fatto posto gli si avvicinò e con aria determinata gli propose:
« Se mi racconti una storia ti offrirò una birra. E migliore sarà il racconto, migliore sarà la birra.
« Tu vuoi che io ti racconti una storia?
« Sì.» Il nano annuì fermamente. Il viandante guardò fisso e assente il fuoco. Poi, voltatosi improvvisamente, disse:
« Io un racconto ce l’avrei. Ma è lungo.» La sala fremette d’eccitazione. Finalmente qualcosa di diverso dalle solite
dispute, risse, o altre cose del genere. Una storia…sì, effettivamente poteva essere di buon gusto. Mistica,
l’esperienza di una storia raccontata durante una notte uggiosa.
« Io ho tempo.» Il nano si accomodò sulla bassa sedia, si avvicinò al tavolo e chiese al barista una dozzina di
boccali della migliore birra. L’altro accorse subito, accomodandosi per vedere chi gli avrebbe pagato duecento
Deltine di birra. Il viandante, per nulla turbato dalla birra invitante che gocciolava sul tavolo, sorseggiando
lentamente la tisana calda, cominciò a raccontare.
Prologo
Un uomo stava attraversando quello che gli pareva un deserto freddo e desolato. Il Monarca aveva fatto tutto con
meticolosa precisione. Non un’anima viva li guardava, solo gli stormi di kinderian, i temibili predatori delle Paludi di
Sylthrim li osservavano, dalle loro cupe sopracciglia di quasi non-morti. Aale non sapeva molto di loro, ma conosceva
abbastanza le leggende da capire che quei tremendi avvoltoi giganti, così vaghi ed empirici da sembrare spettri, non
trovavano seggi da reclamare nell’assemblea degli esseri viventi. Scoccò una fugace occhiata al suo compagno di viaggio,
sperando vivamente di non avere mai a che fare con un viaggiatore del genere. Poteva nascondersi chiunque dietro quelle
vesti nere marchiate di rune violacee; dal più comune dei capi di Set-Khaal ad un pericolosissimo membro delle Psiche
Domate. Rimpiangeva amaramente il giorno in cui era andato in missione. Ma ancora di più rimpiangeva il giorno in cui
aveva accettato il suo aiuto. Che scelta aveva avuto, se non quella di obbedirgli ciecamente? Era un suo superiore, almeno
secondo il travestimento che si era fatto. Era meglio restare bassi con il rango. Indossava la tunica degli Iniziati, quindi
andava bene per le sue capacità magiche. Anche gli Iniziati erano discreti in Negromanzia, dunque poteva essere accettato
alla Loggia dei Set-Khaal. Bastava solo non farsi scoprire…Rabbrividendo per il terrore che gli attanagliava le membra si
costrinse a dare un’occhiata in giro, ma il paesaggio era uguale da tutte le angolazioni. Chiazze d’acqua stagnante di un
insolito colore tra il cuoio e il sangue si estendevano per circa trecento leghe, raramente punteggiate da qualche albero
rinsecchito che svettava come per sfidare la potenza poggiata sul puro terrore delle montagne taglienti e sottili come un
arco da avventuriero elfico: il Circolo Sethis. Con un brivido si costrinse a ripensare agli ultimi eventi e a quelli cui presto
avrebbe dovuto presiedere. Il travestimento aveva funzionato bene: ora doveva entrare e distruggere tutto. Si toccò il petto,
lentamente, controllando d’avere ancora il papiro sigillato: bastava che aprisse il papiro e, grazie alle rune di protezione,
tutto si sarebbe distrutto. Non era una missione suicida, lui sarebbe stato protetto da un incantesimo che avrebbero evocato
alcuni Maghi al momento opportuno. Lo raggiunse un brivido: potevano essere protetti anche i membri della Loggia? Non
fece in tempo a darsi la risposta. Erano arrivati al portale del Circolo. L’Anziano gli sussurrò: “
« Oyna zyrta ethn thakieln Ziya
che verrebbe tradotto con un: “Siamo arrivati, puoi dire tu la parola d’ordine.” nella Lingua Arcana. Parola d’ordine? Lui
non sapeva di nessuna parola d’ordine. Cercò di risolvere la situazione con una patetica, balbettante scusa, ma niente
sembrava più essere d’aiuto per Aale. I Seguaci sanno uccidere in mille modi diversi senza usare attrezzi o magie. Lo
straniero si avvicinò ad un Aale inebetito, terrorizzato. Non poteva più muovere le gambe, sembrava un cadavere.
L’Anziano gli ispezionò la palma destra, senza trovarci niente. Sogghignò e gli disse:
« Te la scriverei io, mia giovane spia, ma non so scrivere. Scoprirai presto cosa significa dimenticarsi di guardare
avanti a sé e non fare simili sciocchezze.
Si allontanò e guardò fisso Aale negli occhi. Mormorò qualcosa che il mago terrorizzato non comprese e
all’improvviso s’innalzò nell’aria, in un globo rosso fuoco, unì le mani e formo con lo sguardo un grafo violaceo sulla
sfera, gridò un:
« Tiniarel Aale etebhis therilas zun yarhet! che il mago apprese con terrore come formule di magia oscura, gli occhi si accesero di una violenza inimmaginabile e
dalla runa partì un raggio purpureo e scarlatto. L’ultima cosa che vide Aale l’Infiltrato.
Il mago atterrò, il viso contratto in una smorfia: amava uccidere ma dopo un ferreo addestramento nessun membro della
Loggia riusciva a sorridere più. Erano rare le smorfie e ancora di più i sogghigni. Certe cose ti allietavano la giornata più di
qualunque battaglia. Fissò il mucchio di cenere, intento a riordinare i suoi pensieri: gli piaceva uccidere, ma gli piaceva
ancora di più insegnare ad uccidere. Scrocchiò le sue dita scheletriche, pensando a cosa ci poteva fare con quella polvere.
Polvere…finalmente un’idea decente. Non sarebbe stata molto potente, ma tanto valeva… Tramutò il mucchio di cenere in
una forma umana, che cresceva a vista d’occhio, fino ad arrivare ai due metri. Prese per mano la Polvere, e mentre le porte
della sede si chiudevano dietro di loro, lo istruiva:
« Tu ti chiami Zunya.
« Zunya
ripeté la Polvere, i piccoli occhi rossi scintillanti nella fredda notte assassina senza stelle di Set-Khaal. Da qualche
parte risuonò un botto, delle grida e dei nitriti, poi una grande esplosione che mandò in aria pezzi di svariati metalli
incandescenti, che svanirono senza rumore nella notte. Risuonò un corno: nessuno poteva più entrare o uscire a Set-Khaal.
Primo capitolo
Spoiler:
Fuochi Artificiali
Miran si alzò dal giaciglio che giaceva nell’angolo della stanza al piano terra. Le occhiaie lo invitavano a tornare a dormire,
ma l’eccitazione e lo stomaco ebbero la meglio. In mezzo a quella stanza con tutti gli attrezzi — tanti, alcuni dicevano
troppi: tenaglie, martelli di ogni forma e dimensione, stampi e un caos apocalittico — molti si trovavano a disagio, ma
Miran sentiva che quello era il suo ambiente. Stancamente, accese il fuoco sotto l’incudine. Un altro po’ di lavoro e la sua
prima creazione sarebbe terminata. Non era solo: dietro di lui sentiva la presenza rassicurante del fratello maggiore, ormai
adulto, che scendeva le scale con la grazia di un orso. Ad Aniam i fabbri erano considerati molto, molto bene. Ed i fratelli
Melnior erano quelli che avevano insegnato a quel luogo dimenticato dagli Dèi cosa voleva dire “forgiare qualcosa”.
« Dai un colpo a lato, o diventerà così duro che non si muoverà nemmeno a pregarlo.
Miran sorrise, impugnando il martello, pronto per cominciare a forgiare il metallo con l’attrezzo. Si sorprese quando capì
che effettivamente gli piaceva la consapevolezza di riuscire a piegare qualcosa che gli altri non potevano muovere. Sbuffò a
quel pensiero, poi, quasi illuminato si voltò verso Frewa:
« Perché, hai paura di essere schiacciato da una meteora? Eddai, Frewa, non resti a forgiare con me?
Le gote di Frewa arrossirono violentemente e un lampo di comprensione brillò negli occhi di Miran.
« Ah, capisco, Javannah…beh, vorrà dire che mi divertirò da solo! Auguri e…» Miran finse di pensare un po’ sulle
parole adatte e proseguì: « Non spiumarla troppo, d’accordo?
« D’accordo!» rise Frewa. « Oh, a proposito… questo è per te!
Tese un involto rosso lungo. Miran prese a svolgerlo lentamente, facendo di tutto per non sorridere: l’emozione era ai
livelli massimi. Un lampo di meraviglia guizzò negli occhi di Miran prima di rivolgersi con ilarità a Frewa:
« Questo si chiama Corruzione con la C maiuscola! Smettila di farmi questi regalini, altrimenti per pagare i debiti
sarò costretto a lavare i piatti tutti i giorni!»
Dentro all’involucro giaceva dormiente un arco in filigrana d’argento con tanto di corde metalliche di ricambio, una cosa
abbastanza rara. Sembrava elfico. Ai due estremi c’erano due ingranaggi che tendevano le corde trattate con alcol dei
soffioni del Deserto del Corno, che passavano da una parte e dall’altra degli ingranaggi, rendendo la corda una doppia
corda, che avrebbe conferito maggiore potenza alla freccia. L’arco era leggerissimo, e dava l’impressione di non essere mai
stato usato. Sgomento si chiese dove l’avesse trovato. Una cosa del genere poteva valere più dell’intero villaggio. Si
sarebbe potuto uccidere per quell’arco. Tutti questi ragionamenti non li disse ad alta voce, ma fece una piccola
osservazione:
« Quando lo uso?
L’ilarità della domanda ebbe l’effetto di sconcertare il povero Frewa, che cercò di schernirsi sostenendo che non gliene
poteva fregar de meno, che i suoi archi se li gestiva da solo, che un ‘povero piccolo messaggero che portava un regalo da
Sua Sovranità ’ non aveva alcun rapporto con la missiva, e soprattutto che il Monarca poteva avere spie dappertutto,
scenate che incontrarono solo l’espressione di conciliante comprensione negli occhi scuri di Miran. Quando il fratello si fu
allontanato, borbottando qualcosa sulla gente paranoica, Miran tornò ad ammirare l’arco: sapeva che non era altro che un
arco da caccia, anche se elfico, ma a Miran, abituato ad avere a che fare con semplici barre di legno, sembrò di vedere il
ritratto della perfezione. Guardando il lavoro che aveva cominciato, e che doveva vagamente somigliare ad una spada, si
rese conto di quanto doveva imparare sull’arte della forgia. Poi decise che in fondo non gliene importava più di tanto.
Miran era immerso nei suoi pensieri e le forge non c’entravano niente. L’appuntamento di Frewa l’aveva messo un po’ sottosopra. Era Miran il più ‘attraente’, e lui lo aveva saputo da una delle chiacchierate che le ragazze facevano in un luogo
appartato e che lui regolarmente spiava. Era alto, forte e profondo di pensiero, e i lunghi capelli castano - mogano gli
davano un’aria da conquistatore barbaro che faceva letteralmente impazzire le ragazze. Ovviamente non bastava il
bell’aspetto o l’intelletto. Bisognava uscire dal tugurio e andare a cercarsi qualche compagna decente. E Frewa aveva
passato anni a parlare con Javannah, cercando in tutti i modi di apparire interessante. Ed era stato premiato per la sua
costanza. I due erano quasi inseparabili, e ormai si parlava di matrimonio. Ma Miran era più carino del fratello. Oltretutto
era intelligente, ma lo sapeva già da prima, da quando suo padre lo aveva invitato a lasciare il villaggio per studiare e
diventare qualcuno, al che lui aveva prontamente ribadito che la sua intelligenza l’avrebbe messa al servizio della
Confederazione del Giusto per combattere il Monarca. Il padre si era limitato a ridere e a scuotere le spalle, ma era rimasto
in silenzio. Era una cosa seria, soprattutto se il vecchio Melnior non trovava niente da ridire. Il padre non era l’unico ad
aver scoperto il suo talento, poiché Frewa si allenava regolarmente con lui a spade ed arco, e Miran regolarmente lo
batteva: conosceva molte mosse solo per sentito dire e molte di più le aveva inventate, ma già dalla prima volta che si era
allenato aveva finito con lo stancare seriamente Frewa, anche se a terra c’era finito lui. E con il tempo non aveva fatto altro
che migliorare. Ora se ne stava in silenzio, osservando da una piccola altura la cittadina di Aniam e il Lago, un’espressione
indecifrabile dipinta sul volto immobile color olivastro, con sprazzi di luce che gli bagnavano il volto quindicenne con la
prima barba, sacrosanta, che gli sarebbe stata tagliata dopo la prima battaglia e offerta agli Dei. Dall’altura poteva vedere il
paesino che era la sua città natale e i campi di bietole, grano e maggese tutt’intorno. E, come in una scatola di sabbia con
tanti granelli di sabbia diversi aveva notato un campo misto, e gli ci volle un po’ prima di associare il bizzarro campo, così
confuso in mezzo agli altri campi di grano, ad una discussione in casa Melnior qualche tempo fa, riguardo a quel pazzo di
Jim il Folle, che alla spartizione dei terreni aveva annunciato che avrebbe piantato tutte le piante che poteva, e alle stupite e
ironiche domande della folla aveva risposto che, se un campo dava un tot, immaginiamoci tanti campi di grano! Alle risate
che ne seguirono, Jim il Folle, disperato e confuso, scese dal pulpito e attraversò la folla rispondendo ad ogni osservazione
frasi del tipo: “così faccio prima a raccoglierli!” e “si arrangerà il terreno!”. Vedeva anche il lago, che veniva riempito dal
fiume Aasgram, leggermente allargatosi a causa degli spostamenti del letto. “Il fiume non dorme”aveva commentato
qualcuno. Miran personalmente trovava ripugnante anche solo pensare di inoltrarsi in quelle acque che arrivavano dai
domini delle Polveri. Miran seguì con lo sguardo le stradine che seguivano i confini dei campi, fino a che s’imbatté nel
fiume. Guardando la limpidezza dell’acqua Miran si sentì improvvisamente stupido per aver pensato a cose tipo: “Chissà
se, bevendola, diventerò anch’io una polvere…” e si gettò in una folle corsa giù per il campo, dimenticandosi
temporaneamente delle forge, dell’arco e persino di Javannah. Ad un tratto si fermò e cominciò ad ascoltare: gli era
sembrato di sentire un fischio…ma forse era solo la sua immaginazione…riprese a correre, ma dopo un po’ si fermò di
nuovo, con la stessa sensazione accompagnata da un senso di rovina e morte: corse fino ad arrivare alla Piazzola delle
Stelle; molte volte era venuto lì ad ammirare gli astri. Non era molto più che uno spiazzo in mezzo alla foresta, ma aveva
una eccellente vista sul cielo. Miran si fermò ansante in mezzo alla Piazzola, e quando si alzò per guardare in alto vide una
cosa che mai avrebbe dimenticato: un pezzo di metallo incandescente passava lento nel cielo, e dietro la sua scia tutto si
tingeva di scarlatto. Ad un certo punto il meteorite sembrò esplodere in un lampo bianco accecante, e prese velocità
dirigendosi verso il villaggio indifeso: ‘Perché, hai paura di essere schiacciato da una meteora?’ le parole che Miran aveva
pronunciato la mattina gli tornarono in mente, nude e crude come le aveva dette, ed il cacciatore si rese conto della tragicità
della situazione, troppo scontata per essere una coincidenza. Pensò a tutti quelli che aveva lasciato sotto il letale ammasso
di materia infuocata che bruciava l’aria ogni secondo. Miran si mise a correre più veloce che poteva con un opprimente
senso d’impotenza verso le centinaia di persone in serio pericolo di vita. Era quasi arrivato ai piedi della montagna quando
un lampo esplose, i suoi occhi catturarono un’impressionante serie di acrobatiche allegorie pirotecniche e, quando un fascio
di onde gialle lo sbatterono contro un albero, prima di svenire Miran riuscì solo a sospirare una parola:
« Frewa…
Si risvegliò la mattina seguente: subito corse verso il villaggio ma non c’era più. Al suo posto c’era un cumulo di macerie
annerite e fumanti. Subito gli venne un dubbio: si precipitò verso il monte e ne uscì seriamente rinfrancato con l’arco e la
faretra piena di frecce: alla vista di quello che un tempo era stato il suo mondo e ripensando alla vita appena perduta, una
vita semplice e serena, non poté fare altro che gettarsi a terra e piangere. Piangeva di rabbia per avere lasciato che ciò
accadesse, e di rabbia verso gli artefici della meteora assassina. Piangeva la famiglia che aveva lasciato al suo destino, che
la mattina prima aveva lasciato sorridente, pronto per un’altra giornata di lavoro. Finito di piangere, dopo aver lasciato
l’arco da una parte cominciò a prepararsi all’ultimo omaggio, quasi un onere, che doveva a tutti. Prese una pala mezza
bollente e cominciò a scavare tra le rovine alla ricerca dei concittadini defunti: ne trovò parecchi e li raggruppò da una
parte, a cerchio, con la testa verso il centro. Finito il lavoro ricominciò a piangere. Con il viso sporco raccolse legna e al
centro della pira improvvisata dispose della paglia miracolosamente scampata all’incendio. Poi si fermò a ragionare: di
solito si metteva un oggetto che era appartenuto al defunto sulla pira. Non aveva trovato niente, ma in compenso ci mise
l’arco elfico. Gli sembrava un gesto giusto e doveroso nei confronti di Frewa, forse in mezzo ai tanti cadaveri sformati che
formavano il cerchio. Quindi accese la paglia e stette a guardare il falò che cresceva. Fu allora che, forse per volere degli Dei o più probabilmente per un ciocco di legno esploso proprio sotto il manico, l’arco descrisse un complicato arabesco
aereo prima di riatterrare fumante ai piedi dello stupito Miran. Quando lo prese notò il marchio di famiglia impresso
probabilmente da un usbergo incandescente a contatto con la canapa del manico, ma chissà perché, Miran preferì optare per
la soluzione degli Dei e dimenticare il carbone. Dopo aver degnamente onorato i morti cominciò a pensare alla sua vita e a
ciò che il futuro poteva riservargli. Prese l’arco e si diresse verso la meteora, pensando intensamente a che poteva servirgli.
Alla fine optò tra tutte le scelte possibili e immaginabili la più sensata, in altre parole la forgiatura di frecce per poi
l’emigrazione nella Confederazione del Giusto ad esercitare il mestiere di famiglia in tempo di pace; in caso di guerra
sarebbe sicuramente stato tra i primi ad arruolarsi, lui e il suo arco. Non era molto bravo a tirare con l’arco, ma la sua forza
fisica acquisita con la forgiatura, poteva sicuramente fare carriera. Oppure poteva forgiarsi una spada ed andare…ma tanto,
ci avrebbe pensato più tardi. Prese un lembo di metallo dalla meteora assassina, che aveva cominciato a colare un liquido
rossiccio, e si stupì nel sentirlo tiepido e malleabile. Lo mise nella forgia, prese uno stampo di punte di ghisa leggermente
deformato e cominciò il suo lungo lavoro…
Miran era arrivato a tarda sera, ma i risultati non erano modesti. Con tutte quelle frecce poteva distruggere un intero
esercito. Aveva cominciato a mangiare le carcasse degli uri che avevano catturato la settimana prima. Tanto non ci sarebbe
stato nessun mercato… in compenso il combustibile non era poco. Poteva durare tutta la notte. E doveva, perché di notte, le
fredde notti invernali, scendono i lupi. Sentì un lieve flap flap, e alzò lo sguardo, lievemente spaventato. Non si vedeva
niente, solo le stelle stavano lì, immobili, illuminando la notte scura come una mediocre lucerna. Di nuovo si sentì il
rumore, e l’arciere alzò gli occhi al cielo, dove continuavano ad avvolgersi le spire della pira funebre. stavolta seriamente
irritato. Non era un’aquila, ma molto più grande. E molto più tremendo.
Zunya aveva ricevuto un ordine dal suo padrone. Doveva obbedire. Molte frustate lo attendevano al fallimento. Ma al
successo lo attendeva carne. Carne fresca, carne umana. Umani, sciocchi piccoli umani. Si credono capaci di misurarsi con
il grande padrone, il ‘Monarca’, come lo chiamavano. Sostenevano che era un tiranno. Non era vero. Profetizzavano che li
avrebbe uccisi tutti. Non era vero. Dicevano che voleva la distruzione di Arensalda. Il contrario. Egli era un gran
condottiero, nonché altissimo benefattore e uomo d’onore, con altrettanto alte intenzioni. Zunya era lieto di lavorare con
lui. Anche alcuni elfi erano stati abbastanza saggi da unirsi al Padrone, ma molti lo avevano definito uno sfruttatore. Stolti.
Stolti e ingenui. Il Padrone ama e protegge i propri amici, ma è crudele con i nemici. Zunya diede uno strattone al Drago
Oscuro. Erano arrivati. La Polvere scese dal bestione e atterrò in quella che pareva una landa desolata, inconsapevole che
due penetranti, terrorizzati occhi scuri la stavano spiando da un cespuglio. La Polvere si guardò un po’ intorno: gli avevano
ordinato di portare il Metallo…tirò su da un cumulo di macerie un pezzo di metallo appuntito, ma poi la gettò via. Non era
questo il metallo che cercava…quella si chiamava spada, ed era una cosa abbastanza comune alla Loggia di Set-Khaal. Il
Padrone non avrebbe mandato una Polvere perfettamente addestrata con un Drago Oscuro e un sacco di corde a prelevare
una spada. Alla fine scorse una sfera di metallo. Era molto grande: era il metallo che doveva prelevare. Lo tirò in spalla e lo
mise sul reticolo di corde e fibbie, poi si arrestò: gli era parso di sentire un gemito soffocato, quasi roco. Si avvicinò ad un
cespuglio e proprio allora emerse un uccellino. Si strinse nelle spalle trattenendo l’impulso di distruggere la creatura, e si
avviò, dando ordini e incitamenti, verso la Rocca.
Miran si tirò a sedere, ansimando per la paura. Quel giorno, ne era sicuro, aveva guardato la Morte negli occhi. Ed era
sopravvissuto.
Secondo Capitolo
Spoiler:
Un ramarro…?
Per tutto il giorno seguente Miran oltre a salare la carne per prepararsi a fuggire da lì si fece una bella scorta di sassi e un
rozzo scudo circolare ricavato da un paio d’assi che aveva trovato nella scorta di legna per l’inverno, che di solito erano
umide, ma con l’impatto della meteora si erano seccati, ed erano perfetti per farne scudi degni di uno spadaccino. Sì, perché
la spada trovata e scartata dalla Polvere portava il suo nome. E non era l’unica sorpresa. Sull’impugnatura, fredda per la
morsa letale della Polvere, oltre ad un’incisione, c’era anche un messaggio d’appunti che aveva l’aria di essere stato scritto
più da una gallina che da un essere umano, che recava la scritta: “Miran il Protettore, 24simo giorno del quinto mese del
136° anno del governo di N.S. il Monarca.” Ed il 24simo giorno del quinto mese era proprio il giorno dell’Addio, il giorno
in cui i trovatelli venivano orientati verso una scelta: stare nel villaggio o andare alla ricerca della propria avventura. Quindi
Melnior & Co. Non era la sua famiglia, né Aniam la sua città natale. Sospirò, ripensando ai sogni che faceva da piccolo, di
restare a casa a fare il fabbro che gli aveva insegnato a combattere e a forgiare armi temibili. Ma i tempi erano cambiati,
non c’era più Aniam e tanto meno la possibilità di restare in quella piana torrida di giorno e gelida di notte, con i lupi, la
classica ciliegina sulla torta. Tornò ad ammirare la spada e la trovò perfetta, come l’arco elfico. Era quella che si poteva
definire una spada possente. L’elsa era a forma di testa di drago, o almeno così sembrava a Miran, ma sotto le fauci c’era
un curioso incavo sferico. Miran seppe con assoluta certezza che dentro ci si doveva infilare qualcosa, come seppe con assoluta certezza che l’avrebbe riconosciuta al momento opportuno, risparmiandosi così una patetica caccia al sasso tra gli
oltre 300 che aveva accumulato. La guardia era lunga circa una spanna e mezzo, facendo rientrare lo strumento di morte
nelle file delle spade “Bastarde”. All’elsa la guardia si piegava ad angolo retto costruendo una complessa struttura
simmetrica al baricentro, creata da triangoli Dava una meravigliata sensazione di rudezza e di perfezione che faceva
ammutolire persino il veterano più esperto. E la lama era ancora migliore. Cominciava ad una larghezza di circa tre quarti
di spanna, e dopo una spanna netta dall’elsa s’inclinava a mezzo angolo retto, scendendo rapidamente ai 10 centimetri,
come continuava per un metro circa, finendo con una punta a guglia, con curve troppo morbide per non essere taglienti
come un rasoio. Dalla fine della lama larga cominciavano a spuntare dei cunei di tre dita, ricurvi, con la punta rivolta verso
l’elsa. Miran sapeva che i cunei così disposti aiutano la lama ad entrare e ostacolano la sua uscita, e si complimentava
mentalmente con il fabbro artefice della spada (o Densei, che significa La Primogenita). Già, perché l’artefice della spada
non apparteneva alle terre Nord-Occidentali, e l’aveva capito dopo un dubbio risolto confrontando il Metallo delle frecce
con la pala funebre e con la Densei: i primi combaciavano (e ciò dava a Miran un ottimo motivo in più per mettersi contro
il Monarca, il rifornitore di Aniam), mentre Densei non combaciava per niente con le frecce. La spada era più morbida, ma
più resistente. Era un’opera sublime, un’intera vita di sapienza e di studio fusi in un unico, freddo, letale, meticoloso e
preciso strumento di giustizia. E cercando ancora tra le rovine trovò una mappa d’Arensalda con dietro un discorso datato
24simo giorno del quinto mese. Miran svolse il papiro mezzo sigillato e cominciò a leggere:
“Concittadini, siamo qui per annunciare la partenza di Miran di Aniam. Il nostro caro concittadino si è dimostrato leale,
paziente e coraggioso. Purtroppo alcuni fatti ci costringono a lasciarlo partire per le terre della Confederazione del
Giusto. Un Mago Elementale ci ha urgentemente richiesto la sua presenza ad Avia Leniae. Pur non sapendo le intenzioni
del Mago abbiamo deciso di lasciarti partire, Miran. Ma non prima di altri consigli e di alcune rivelazioni che ci sentiamo
di doverti dare. Prima di tutto tu non sei un Melnior. La famiglia ti ha trovato in una piccola imbarcazione sul fiume.
Abbiamo deciso di adottarti, sperando di poterti un giorno vedere accolto come uno di noi. Purtroppo i progetti quasi mai
si avverano, e tu dovrai rinunciare alla favola che hai vissuto in questi anni. Speriamo un giorno di poterti rivedere. Ma
non c’è tempo per gli addii: raduna le tue cose e parti. Vai verso Sud, percorri strade poco frequentate, protette dagli
alberi. Dormi di giorno e spostati velocemente di notte. Questo ha detto il Mago. Ha aggiunto che arrivato ad Avia Lenae
Egli si farà trovare. Ti auguriamo una buona fortuna, Miran, e ti auguriamo anche di non avere l’occasione di usare
questa spada, omaggio del Mago. Ti salutiamo, Miran il Liberatore.”
Miran lesse con le lacrime agli occhi per la commozione. Le parole del vecchio sindaco, per pompose che fossero,
lasciavano trapelare un grande affetto per il giovane cacciatore. Girò la carta per non pensare più alla vita passata, quella
che non avrebbe mai più avuto, e si costrinse a scrutare la mappa, miracolosamente intatta. Doveva andare ad Avia Lenae,
vero? Bene. Non doveva fare altro che seguire l’ovest. Con qualche piccola deviazione, orientandosi con le stelle (Miran
sapeva che la coda del Drago indicava il Sud) sarebbe arrivato in capo ad una settimana. Incuriosito, guardò i confini delle
Terre del Nord: a Nord le Polveri dominavano su un terreno montagnoso sui confini e tetramente piatto, quasi piallato,
nella zona centrale. A Nord-Ovest la Confederazione del Giusto governava un territorio montuoso. Ad Ovest il Mare del
Drago, con i mitici animali dell’Isola del Drago, con la città in rovina proprio sul collo, sotto le ali: Derys la Leggendaria.
Nella mappa scorse anche i territori di Set-Khaal, e cominciò a riflettere sul suo “armatore”. Non aveva dubbi sulla
provenienza del misterioso Mago. I Membri della Loggia erano chiamati Stregoni, lui era un Mago…Ma non riusciva a
capacitarsi del fatto che un solo Mago, per quanto potente, riuscisse a dare ordini (anche se era così carismatico da farli
assomigliare a dei consigli e ad una preghiera appassionata) persino al Sindaco. In ogni caso non aveva motivo di ignorare i
moniti e riteneva non punibile con la morte sotto tortura l’anticipazione della partenza per Avia Lenae. Cominciò a
preparare le provviste essiccando la carne salata e incartando legumi e mele. Sarebbe partito il giorno dopo, con Densei e
Frewa (così aveva chiamato l’arco in omaggio al fratello morto) e un bagaglio sufficiente ad alimentarlo per il viaggio.
Trovò anche delle monete, 278 Deltine per la precisione, e le mise in una tasca della giacca da viaggio. Doveva solo stare
attento a non sperperarle. Avrebbe potuto comprare altre provviste, e una buona cavalcatura. Si preparò tutto in un’ala
riparata dalle intemperie in una delle tante case mezze sfasciate di Aniam. Se Aniam significava Città Splendente, ora,
forse non era più degna del suo nome. Tradita dal Monarca, che era intervenuto non per salvare la città, ma per recuperare
un pezzo di ferro partito per sbaglio dalla sua fucina personale a Set-Khaal, era ora ridotta a un camino spento. E la
Polvere…Miran rabbrividì, non sapeva se per il freddo delle ultime ore della sera o per il ricordo improvviso
dell’immagine della Morte fatta ossa e carne…o meglio polvere. La creatura fredda e spietata sembrava l’ideale per
assassini, ma Miran era certo che sotto il mantello esse nascondevano abbastanza potere da frantumare un esercito con un
solo gesto, e un’intelligenza almeno tre volte quella umana. Pensò ai nani che da tempo fermavano le Polveri, ai passi del
Nord, e reputò la Confederazione fortunata della loro alleanza. Pensò ai vari motivi che avevano spinto il mago a chiamarlo
via dalla sua cittadina, tra cui la possibilità di impiegarlo nell’Esercito Libero, quella di mandarlo al sicuro, anche se aveva
appena avuto una manifestazione della potenza del Monarca, e la possibilità recondita ma presente di essere stato preso in
giro, in modo che il Mago potesse usarlo come spia. Assorto in questi pensieri, ad un tratto si sentì osservato, si girò e gridò
in avvertimento all’aria. Non c’era nessuno. Ma la sensazione non diminuiva. Si fece all’erta…e la sensazione lo
abbandonò gradualmente.Da qualche parte qualcuno in una radura con un laghetto circondato da alberi imponenti si alzò di scatto da una bacinella
d’acqua, e una nebbia azzurrina si alzò dal liquido, dissipandosi fino a sparire. Il mago si passò una manica nera sulla
fronte. L’aveva scampata bella. Ma poteva fare ancora un ultimo tentativo…
Miran si alzò dal falò che stava preparando per la carne da essiccare. Le parole gli martellavano in testa…no, quelle non
erano parole, ma sensazioni, premonizioni…gli procuravano un senso di fretta, di persecuzione cui sfuggire: doveva
andarsene al più presto, l’indomani mattina. Non poteva restare più di tanto nella radura indifesa, tra le macerie ormai
nemiche e in balia dei lupi, che ormai, attratti dai fumi, erano scesi dalle montagne basse per cercare qualche cadavere tra le
rovine. Miran radunò le poche cose che gli restavano e le dispose dentro ad alcune macerie, preparandosi all’assalto dei
lupi, che in quella zona erano particolarmente temuti. L’ultima loro vittima era stata una bambina di sei o sette anni. I
genitori non l’avevano più trovata, fin quando nella foresta ne era stato riscoperto lo scheletro, vicino ad un lupo morto,
azzannato dai compagni affamati che non volevano dividere…compagni lunghi circa due metri senza contare la coda, e alti
circa la metà. Potevano azzannare un orso adulto imbufalito senza troppe difficoltà. E nelle sere d’inverno si sentiva il loro
ululato perdersi nelle tormente di neve, mentre i vecchi e i bambini stavano davanti al fuoco, i vecchi a narrare gli antichi
miti dei famosi lupi Lendiani, i bambini ad ascoltare rapiti e i loro genitori a sparecchiare, passando lì davanti ad affermare
o a negare ciò che era appena stato detto dal nonno. Una goccia di pioggia bagnò il naso di Miran, scotendolo dalla visione
piena di colori caldi del camino con la famiglia riunita e lo pose davanti ad un serio dilemma: come fare contro la pioggia?
Non poteva dormire, non con un acquazzone sulla testa. Decise di tendere un telo dal muro, e al contempo che doveva farsi
amicizie. Se no sarebbe caduto nel circolo vizioso del parlare da soli…
Miran era in attesa. Non aveva chiuso occhio, raggomitolato nel ciuffo di sterpaglie non aveva dormito per niente. Non gli
sarebbe servito, l’unica cosa che poteva ricavare dal giaciglio era quel po’ di calore che l’avrebbe tenuto su, pronto per la
battaglia imminente. Sì, ci sarebbe stata battaglia, e lui lo sapeva. Aveva preparato i sassi, lucidato la spada e messo a
seccare su una lastra di ferro caldo dei bastoni corti. I lupi quella notte avrebbero avuto del filo da torcere! Miran era in
attesa, sì, in attesa di provare il suo arco e la sua spada contro un vero avversario, non contro un fratello o contro un
fantoccio di paglia. Voleva far capire ai lupi che non aveva paura né degli artigli né degli ululati che risuonavano vicini.
Era in piedi, la spada in pugno, lo scudo sistemato e un pezzo di legno in mano. “Coraggio, vediamo che sapete fare”si
ripeteva ogni tanto, in preda ad un’euforia che nascondeva appoggiandosi ad un palo tiepido, il viso calmo incorniciato da
capelli sporchi e sudici. Sembrava un assassino. E all’alba del giorno dopo lo sarebbe stato. Assassino di lupi. Gli ululati si
avvicinarono, centinaia di occhi di brace lo fissarono e Miran deglutì. Non pensava che fossero così in tanti. Si
nascondevano nella foresta, circondando il rifugio provvisorio, digrignando i denti minacciosi. Ad un tratto un lupo più
grosso emerse dalla penombra. Era una femmina, probabilmente la capostipite del “Clan”. Numerosi graffi risaltavano rossi
sul pelo nero, mentre si avvicinava ad un piccolo umano con un pezzo di metallo in mano. Miran aspettava che il lupo
venisse più vicino, ma l’animale si fermò a poca distanza dal fuoco. Miran decise di rischiare, e si avvicinò con passo lento
al lupo, tenendo in mano la spada. Sapeva cosa sarebbe successo. L’animale si accucciò e con un ululato spiccò il balzo.
Miran si gettò di lato e colpì di punta la bestia, che rantolò, cadde e non si mosse più. Regnava il silenzio. Miran sapeva
cosa sarebbe successo. Lentamente si mosse verso il falò e avvicinò il ramo secco alle fiamme. Appena il fuoco crepitò,
l’orda di lupi si gettò su Miran. Miran sapeva cosa sarebbe successo. Prese la torcia e la gettò in un punto predefinito. Le
fiamme bramose di più spazio attaccarono subito la legna secca. Miran sapeva cosa sarebbe successo. Il fuoco divampò,
ardendo e bruciando i lupi che vi erano sopra. Miran sorrise complimentandosi tra sé e sé. Sapeva che sarebbe successo.
L’aveva provato e riprovato durante la mattina. Era il suo asso nella manica, e aveva funzionato alla perfezione. I lupi si
ritrassero, inorriditi e sgomenti, guardando i cadaveri dei compagni arsi vivi dalle fameliche fiamme, che vivevano ancora
da qualche parte, reprimendo ogni tentativo da parte dei lupi di attaccare. Non sarebbero durate ancora per molto. Miran
cominciò a tirare i sassi, colpendo a destra e a manca, stordendo e spaventando gli aggressori, che si ritrassero sottomessi.
Poi ad un tratto un ribelle ringhiò ed attaccò Miran, seguito dal branco. Miran cercò di lanciare un altro sasso, ma un lupo
deviò il lancio. Sentì la massa compatta assalirlo, facendolo cadere. Avvertì un vago senso di luminescenza, e poi i lupi lo
abbandonarono. Scombussolato li guardò fuggire con la coda tra le gambe. “Beh, almeno per stanotte non torneranno”si
diceva per rassicurarsi. Poi guardò verso il fiume e vide la pietra che aveva lanciato risplendere d’oro mentre rotolava sul
terreno, poi di azzurro quando cadde nel fiume. Lo vide scuotersi e frantumarsi. Poi la luce divenne verde acqua, forse a
contatto con un’alga, e quando divenne bianca il bagliore avvolse tutto intorno a lui. Poi Miran non fu più nulla.
Quando si svegliò dallo stato di torpore in cui era caduto, meravigliato di essere tutto intero, guardò per terra, e vide una
grossa lucertola dorata con un paio di membrane che sventolava con pigrizia. Prima di cadere addormentato ebbe appena il
tempo di pensare: “Cielo, un ramarro…”.