Erano passati due giorni e una notte. Il ragazzo era stremato. Delirante per la fame, riusciva a muovere il proprio corpo con la sola forza della disperazione. Il suo unico pensiero fisso era l’immagine di un piatto di carne, con un contorno di insalata, simile ai gustosi piatti che mangiava sempre a… dove non lo sapeva, non se lo ricordava E non gli importava, la sola cosa che contava era che al di là di quel gruppo d’alberi forse avrebbe trovato da mangiare. La notte passata non aveva dormito, per paura che quella forza facesse di nuovo capolino in lui, facendo tornare quel dolore orrendo. Si era costretto a camminare anche nell’oscurità della foresta, la fame più forte del panico che lo pervadeva. Più volte era stato tentato di cibarsi di alcune bacche, ma era sempre riuscito a trattenersi.
In quel momento, però, era veramente distrutto. Se non avesse mangiato qualcosa entro pochi minuti, lo sapeva, il suo corpo si sarebbe ribellato, facendolo morire lì, in quel bosco infame. E il giovane non voleva andarsene in quel modo. In quell’ottenebrante penombra che gli permeava la mente come un velo nero, la sua volontà rifiutava ancora di arrendersi. Avanti. Avanti. Ancora avanti. Quella maledetta foresta sarebbe finita, prima o poi, e lui ne sarebbe uscito vivo.
Ancora qualche passo e il ragazzo non ebbe più energia sufficiente a camminare, così si mise carponi, cercando di strisciare in avanti, nell’estremo tentativo di proseguire nella propria strada. Ma dentro di lui quel qualcosa che lo aveva fatto andare avanti fino ad allora si era spezzato. Quella misteriosa forza che lo aveva spronato a non arrendersi, a continuare a lottare, era svanita Sapeva che non ce l’avrebbe fatta. Sarebbe morto di lì a pochi istanti, il suo corpo si sarebbe decomposto e nessuno avrebbe mai sospettato della sua esistenza.
Proprio quando il ragazzo sentì l’ultimo barlume di coscienza innalzarsi verso il cielo, non lasciando in lui alcuna traccia d’intelletto, trasformandolo in un guscio vuoto in attesa che il cuore smettesse di pompare il suo sangue secco, vide la foresta finire bruscamente.
Nonostante la vista annebbiata, nonostante più di una volta avesse avuto il miraggio di qualcosa di commestibile nelle ultime ore, il giovane capì di essere riuscito ad attraversare il bosco. Una magra consolazione, pensava, anzi, una beffa, uno scherzo crudele del destino, scoprire di morire proprio quando la vita era a portata di mano.
Senza avere la più pallida coscienza di ciò che stesse facendo, si alzò in pieni e si mise a correre verso la fine della foresta. L’orizzonte si apriva su una pianura, nella quale si intravedeva a brevissima distanza un villaggio. Anzi, a osservarne meglio le dimensioni, una città. A quella vista la sua corsa si fece ancora più frenetica e febbrile. Sentiva il cuore faticare per sostenere il passo scelto dal cervello. Le endorfine lo resero insensibile alla fatica, al dolore, ai crampi allo stomaco, al senso d’impotenza che un minuto prima gli avevano reso impossibile procedere. E mentre si lanciava come un folle nella pianura afosa, dimezzando in pochi secondi la distanza dalla città, non riusciva a pensare lucidamente. Doveva solo correre. Correre. E correre.
E finalmente entrò nella città. Era sera inoltrata, le strade erano quasi del tutto prive di persone, le botteghe e gli esercizi erano chiusi. I pochi abitanti che incrociava sembravano squadrarlo con un misto di pena e paura. Doveva sembrare un invasato. Era un invasato.
Dopo un paio di minuti di corsa forsennata scorse l’insegna sbilenca di una locanda. Non fece in tempo a leggerne il nome, ma gli parve che c’entrasse qualcosa un orso. Ma nulla aveva importanza per lui, tranne il piatto fumante di carne che avrebbe divorato entro pochi minuti.
Entrò sempre correndo, sbattendo la porta in faccia a chi usciva davanti a lui. Senza prendersi la briga di dare segno di conoscere le più elementari regole di civiltà, chiese urlando:
-Datemi qualcosa da mangiare! Vi scongiuro! Muoio di fame!
-Hai danaro?- chiese un cameriere dall’aria stupefatta., riprendendosi con grande tempismo dallo shock.
Senza pensarci un secondo, il ragazzo rispose: -Certamente! Prima voglio mangiare però!
Senza nemmeno accorgersi dello scompiglio che il suo ingresso aveva provocato nella locanda, si stravaccò sulla panca di un tavolino in un angolo e attese. Si concentrò su qualsiasi cosa non fosse mangiare, perché altrimenti avrebbe addentato qualsiasi cosa gli fosse capitata sotto tiro. Si mise a osservare l’ambiente, mentre le mani gli si torcevano febbrilmente in attesa del cibo. L’interno della locando era prevalentemente in legno, gli avventori erano seduti attorno a cinque o sei tavoli e giocavano a carte, cercando di nascondere la curiosità che provavano per il nuovo cliente.
Un uomo in piedi al bancone a scolare boccali e boccali di schiumosa birra scura, osservò divertito il suo simile, il nuovo entrato che avrebbe potuto avere sedici anni, avventarsi sulla braciola che gli veniva portata e divorarla a morsi, come un animale che sbrana la sua preda.