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Manzo Dixit


Manzotin

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Hola, infida marmaglia di canaglie sgocciolanti! 8)

Questo è il mio piccolo angoletto dei racconti. Il primo, qui sotto l'ho scritto oggi.

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Prigioniero

Un’altra notte era scesa fredda nelle strade di Budapest. La pioggia batteva pesante sull’acciottolato, mentre mi stringevo addosso l’impermeabile e mi dirigevo veloce verso la mia destinazione. Quella sera ero uscito presto, perché dovevo arrivare dall’altra parte della città e non avevo la macchina. Il sacchetto che tenevo sotto il braccio cominciava a diventare pesante. Era da tempo che cercavo quell’uomo, l’unico superstite ancora in vita, si diceva, l’unico che aveva vissuto veramente quei giorni e non li aveva solo letti sui libri di storia o visti in qualche raro filmato nascosto nella parte più polverosa della biblioteca. L’unico che mi avrebbe potuto spiegare, che mi avrebbe fatto capire. Intravidi in lontananza la vietta che avrei dovuto imboccare, e attraversai la strada correndo. Non c’erano lampioni in qulla zona, o forse c’erano, ma nessuno si era preso la briga di ripararli. Un tizio con la barba mi chiese se volevo un po’ di droga. Biascicai un no frettoloso e proseguii dritto, tra i topi. Alla fine giunsi alla mia destinazione: Juju’s, uno dei peggiori pub della città. Entrai.

L’aria era afosa e piena di fumo. Il posto era piccolo, con tre tavoli e un bancone dietro il quale un barista alto stava servendo da bere ad una puttàna. L’uomo che cercavo era seduto ad un tavolo, davanti ad una bottiglia vuota di whiskey. Mi diressi con movimenti lenti verso il tavolo, poi vi appoggia una mano sopra. Lui non alzò nemmeno gli occhi, e allora decisi di sedermi. Aveva il volto scarno, con gli occhi infossati, gli zigomi alti, il naso aquilino e i capelli radi. Era sulla cinquantina, ma i suoi occhi erano stanchi come quelli di un vecchio. In quel momento non seppi bene che fare, come cominciare. Pensai che la bottiglia di Golden fosse un buon inizio, e così aprii la zip del sacchetto e tirai fuori la bottiglia, poggiandola in mezzo al tavolino. Era il rum migliore che ci fosse in circolazione, e sicuramente in quel bar non ne era mai entrato neanche un bicchiere.. Lui guardò prima la bottiglia con sguardo rassegnato, poi guardò me, sempre con lo stesso sguardo, e mentre la stappava e si versava un bicchiere mi chiese:

“Quindi tu sei qui per sapere. Sei qui perché vuoi sapere.”

“Si” risposi io, teso.

“Uhm. Non credo di poterti dare veramente quello che tu vuoi. Io ti posso dare solo la mia storia, la mia visione dei fatti. Del resto non ne so niente.”

“Mi va bene”

L’uomo fece spallucce, mentre si scolava il terzo bicchiere. Per un minuto non disse niente, immerso nei suoi pensieri fissando il tavolo. Poi lentamente alzò gli occhi e fece un cenno al barista, che appese un cartello alla porta d’ingresso prima di sparire nel retrobottega. Eravamo soli, io e lui.

“Era una notte come questa. A quel tempo non avevamo tante coperte, e per scaldarci dormivamo tutti assieme, io, mia moglie Sarah e le nostre piccole Esther e Myriam. Fummo svegliati da un fragore che veniva dall’ingresso del nostro appartamento. Una squadra aveva fatto irruzione sfondando la porta. Ci svegliarono urlando. Ci puntarono i fucili addosso e ci dissero di vestirci. Noi seguimmo tutte le loro istruzioni, non sapendone bene il perché. Scendemmo di sotto nel cortile, e pioveva e faceva molto freddo. Insieme ad altri fummo messi prima su un camion che ci condusse alla stazione, poi montammo su un treno, stretti in un vagone tutti assieme. Non c’era luce, ma stringendoci assieme non soffrivamo il freddo: eravamo circa un’ottantina. Nessuno lì dentro sapeva perché stava succedendo tutto quel casino. Conoscevo alcuni di loro, altri non li avevo mai visti, ma avevamo tutti una cosa in comune. Il nostro retaggio, ovviamente. Eravamo tutti Ebrei. Dopo poche ore sorse il sole, ma il treno viaggiava ancora. Solo verso mezzogiorno arrivammo alla nostra destinazione. Pensai che se il percorso fosse stato un po’ più lungo, qualcuno di noi avrebbe finito per lasciarci le penne in quel vagone schifoso” Incurvò le labbra in un sogghigno “Ma ovviamente non sapevo ancora niente di quello che ci sarebbe successo.” Si fermò un attimo ”Sembri un ragazzo che studia tu. Non credo di doverti descrivere niente.”

“La prego di si invece” replicai un po’ impacciato “perché non sono sicuro che quello che sta scritto sui libri che ci passano nelle scuole sia la verità.”

L’uomo si scolò un altro bicchiere, e parve riflettere su quello che gli avevo detto. Fissò gli occhi al tavolo e prese a raccontare. “Ci divisero, uomini e donne e bambini. Esther e Myriam avevano 5 anni. Erano bellissime, e i loro occhi brillavano come stelle in quel momento, mentre camminavano in fila tenendosi la mano. Ma non piangevano, no!, come le altre bambine. Erano coraggiose loro. Le salutai con la mano, e finsi un sorriso incoraggiante. Loro mi risalutarono sorridendo, come mi salutavano tutte le mattine quando uscivo di casa. Staccai gli occhi dalle mie bambine a stento, e dovetti trattenere Sarah che piangeva disperata. Ci mettemmo in fila, come ci fu detto di fare. Poco dopo fui costretto a salutare anche lei: la baciai e la strinsi forte. Le dissi che l’amavo.

Eravamo tutti uomini. Ci spogliarono, ci fecero fare la doccia, poi un controllo medico, poi ci sbatterono dentro un capannone, che fungeva da dormitorio. Venne un tizio a spiegare cosa avremmo dovuto fare e cosa non avremmo dovuto fare, e quando. Poi se ne andò. Nessuno dormì quella notte. La mattina successiva, una sirena ci svegliò. Seguendo le istruzioni del sergente, cominciammo a vestirci mentre aspettavamo le guardie che avrebbero aperto il capannone. Eravamo infatti chiusi dentro. Quando infine vennero, dissero di uscire in fila per due. Ci disponemmo e cominciammo a uscire, ma quando io passai vicino ad una delle guardie, quella mi fermò e mi trasse dalla fila. Mentre gli altri continuavano ad uscire, io fui portato via. Attraversammo il cortile ed entrammo in un edificio. Le pareti erano verdi, e i pavimenti di marmo. C’era un’infermiera bionda ad una scrivania. La guardia disse il mio nome, e l’infermiera lo spuntò da una lista. Disse qualcosa e fece cenno di passare oltre, e così fece la guardia. Camminammo per un lungo corridoio, e poi la guardia mi consegnò a due tizi in camice. Erano guardie anche loro. Mi portarono in una cella con le pareti imbottite, e rimasi lì per qualche giorno, a pensare, a guardare dalla piccola finestra con le sbarre. Mi resi conto di quello che stava succedendo. Erano tutti schiavi lì sotto, anzi, peggio. Stavano piano piano levando loro la vita. C’erano uomini che erano oramai ridotti a scheletri che non camminavano più, ma quasi arrancavano. Ogni giorno, ogni maledetto giorno, vedevo una fossa larga dieci metri che veniva riempita di cadaveri, a tutte le ore, che bruciavano, giorno e notte, senza sosta. Non erano neanche schiavi: agli schiavi si dà da mangiare, perché possano lavorare. Lì gli uomini venivano trattati come bestie, anzi: erano bestie. Animali. Io non riuscivo a credere…spesso mi mettevo in un angolo e piangevo, oppure fissavo il soffitto. Dopo cinque giorni vennero da me. Entrarono, mi presero per le braccia bloccandomi. Un uomo in camice mi legò al braccio uno strano affare, una specie di manica con un lungo aggeggio in ferro incastrato dentro, con un beccuccio che spuntava fuori. Sentivo il ferro a contatto con la pelle. L’uomo versò poi il contenuto di una boccetta dentro il beccuccio, ed io sentii qualcosa bruciarmi il braccio. Urlai, e le guardie mi trattennero. Dopo un attimo mi avevano levato il bracciale, ed io vidi impresso sulla mia pelle questo numero.” Si tirò su la manica, e sul braccio la sigla X37612 risaltava chiaramente impressa a fuoco. Continuò: “Mi portarono in un'altra stanza. Era grande, molto, ed era suddivisa da una paratia in vetro. Entrammo dietro la paratia, dove c’era una vasca, piena di un’acqua verde. Mi spogliarono, e mi dissero di entrare. Tu ti droghi figliolo?”

La domanda improvvisa mi colpì impreparato. “Hem.. No. Cioè, una volta o due mi sono fatto. Ma non ho continuato.”

“Che ti sei fatto?”

“Allucinogeni.”

“Immaginavo. E sono stati momenti tutto sommato belli o brutti?”

“Il primo, è stato bello. Il secondo… no. Avevo appena rotto con la mia ragazza e..”

“Non voglio sapere niente. Ti basti solo ricordare quel momento. Lo ricordi?”

“Si.” Dissi ingoiando a vuoto “si.”

“Bene. Quello che hai provato è poco in confronto a quello che ho vissuto io. Non so cosa mi hanno fatto in quella vasca, so solo che se non sono impazzito è stato per puro miracolo. Devo avere sicuramente urlato, oppure era tutto nella mia testa. Non lo so. So solo che in un momento di lucidità, o forse di pazzia, sono saltato fuori e ho cominciato a correre. Non so per quanto ho corso, so solo che quando ho ripreso coscienza ero fuori dal campo, nudo, in pieno inverno. Ero sporco di sangue dalla testa ai piedi, ma non ero ferito…”

“E poi?”

“E poi niente. E’ tutto qui.”

La bottiglia di Golden era finita. E così anche il nostro incontro. Mi alzai, raccolsi l’impermeabile e mi diressi verso la porta. Appena misi la mano sulla maniglia, mi fermai un attimo. “Non chiederlo.” Mi disse l’uomo. “Dio ha messo nelle mani dell’uomo un potere troppo grande, da cui è stato alla fine distrutto: il potere di vita o di morte sugli altri uomini. Tornatene a casa, bacia la tua ragazza e spera che duri, figliolo. Tu non sei mai stato qui stasera. Addio.”

Strinsi i denti e girai la maniglia della porta, uscendo fuori nel vicolo. Mi infilai l’impermeabile e mi diressi verso casa. Mentre camminavo nelle viette il mio cervello era fermo: ancora non riuscivo bene a capire il significato di tutto quello che avevo sentito. Appena uscii nel viale, presi una boccata d’aria ed allargai le braccia. Non pioveva più, e stava albeggiando. Mi pareva come di essere uscito da un sogno, o qualcosa di simile. Un edicolante stava aprendo in quel momento, all’angolo della strada. Mi avvicinai e comprai un giornale: ovviamente uno approvato dal ministero per la censura. C’era scritta la data in alto a sinistra: 2 gennaio 2086. In prima pagina, come al solito, regnava preponderante un’immagine del Nostro Padre Comunitario, il Presidente. Il titolo recitava a caratteri cubitali: GLI INFEDELI PERDONO TERRENO IN IRAQ. LA VITTORIA E’ CERTA.

La notizia mi rinfrancò. Stavamo portando la civiltà in quel mondo barbarico, anticristiano e terrorista, la grande civiltà del Nostro Padre Comunitario, a cui andava tutta la mia stima.

Ma in quel momento, mi ritornarono in mente le parole dell’uomo, scampato alla prigionia di un altro regime. Certo, non c’entrava niente: quello era un regime differente, il nostro era migliore e più giusto.... giusto? Un dubbio mi assalì.

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Wow!

Molto bello manzo! =D>

Scritto molto ma molto bene.

Mi sono soffermato un momento a chiedermi che età debba avere quel vecchio, nel 2086, e forse (se me lo sto chiedendo) vuol dire che qualcosa non l'ho capito, però il racconto è toccante e riflessivo al punto giusto, e non annoia minimamente.

Complimenti!

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Grazie a tutti del tempo che mi avete dedicato :D

Avevo da parte molti progetti per racconti.... beh c'ho la mia bella listina, ed è forse il momento di cominciare a realizzarla. Prigioniero in particolare mi è venuto da un sogno. Beh spesso i racconti mi vengono dai sogni, ma questo soprattutto, perchè di solito nei miei sogni non si parla: invece in questo c'era questo ebreo che diceva la frase "Dio ha messo nelle mani dell'uomo.." e mi stringeva il polso... mi sono svegliato e dopo du giorni l'ho scritto ^^

Lovecraft, trema!

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Abbiate pietà, io sto male : )

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Il cucchiaino Blu

Era mattina. Come tutte le mattine, mi alzai dal letto come un mollusco. Andai in bagno, orribile e ondeggiante al pari di uno zombie, mi lavaii e poi mi misi addosso il primo paio di pantaloni su cui riuscii a mettere le mani. Con un colpo secco, degno dei migliori karateka, accesi lo stereo, cosi’ mi potevo ascoltare il mio canale preferito. Andai in cucina e cominciai a prepararmi la colazione: prima la moka sul fuoco, poi la tazza e la zuccheriera sul tavolo, infine il latte nella tazza, aspettando il caffè che da lì a poco avrebbe fatto la sua comparsa, come per magia, nella parte superiore della macchinetta. Mentre la radio passava Child in time, giusto per ricordarmi che mi dovevo sbrigare altrimenti avrei fatto tardi a lezione, presi un fazzoletto e i cornetti in gomma che ti spacciano per freschi. Tutto era ormai pronto: mancava soltanto il caffè. Passarono attimi che mi parvero interminabili. L’orologio a muro ticchettava come un conto alla rovescia prima dell’estinzione. Il mio cane si stiracchiò e zampettò in balcone per fare la cacca. Si sa che gli animali si accorgono sempre in aticipo delle sciagure, pensai. Le pareti cominciavano a stringersi, piano piano, sempre di più.. poi alla fine lo sentii. Il caro, vecchio rumore borbottante. Il caffè era pronto! Presi la moka, ne versai il contenuto intero dentro la tazza e poi feci per metterci lo zucchero, ma mi resi subito conto della mia superficialità: non avevo preso un cucchiaino. Me lo dimentico sempre, è proprio un concetto che non vuole entrare nella mia mente, quello del cucchiaino. Se ci si pesa bene, il cucchiaino in realtà è una cosa inutile. Un cucchiaio potrebbe svolgere le stesse medesime cose, se solo si prestasse un pò più d’attenzione alle quantità. Comunque sia, mi sporsi dalla sedia e aprii in un cassetto dietro di me, e cercai per un pò alla cieca, acchiappando il primo cucchiaino che riuscii a identificare al tatto. Lo infilai al limite della velocità consentita dentro la zuccheriera, ma mentre stavo portando il cucchiaino ora pieno di zucchero verso la tazza, mi resi conto di una cosa: aveva il manico blu. Ora, io ho tre tipi di posate a casa: quelle di ferro, tristi, quelle col manico rosso, chic, e quelle con il manico giallo, pacioccose. Non ho nessun set di posate blu. Al massimo ho qualche coltello nero, assassino. Ma niente blu. Quel fatto quindi mi stupii oltre ogni regola: mi parve come se un elemento senza senso fosse improvvisamente piombato nella mia inquieta esistenza.

Stupito, immersi il cucchiaino dentro la tazza di caffellatte, e provai a vedere se funzionava. Ebbene, girava! Girava come qualsiasi altro cucchiaino, anzi no, mi resi conto, girava anche meglio. Era più armonico. Il blu si fondeva magistralmente con il marrone del caffellatte, e con l’azzurrino della tazza. In quel preciso momento, mi resi conto che quel cucchiaino mi piaceva. Il che, era un fatto anche più strano: come ho già detto, di solito non riesco ad apprezzare i cucchiaini. Quello lì invece aveva un qualcosa di particolare, un nonsochè che lo rendeva differente dagli altri. Mi stava simpatico. Lo ricacciai fuori dal caffellatte e me lo rigirai sgocciolante tra le mani. Era tutto sommato un semplice cucchiaino, aveva il manico blu con delle strisce bianche ai lati, dove si univano i due pezzi del manico. La conchetta di metallo era lucente, e della giusta grandezza, nè troppo piccola, nè troppo grande. Me lo guardai, e anche lui mi guardò, con quel suo sguardo un pò sfereggiante. Mi chiesi se a lui sarebbe piaciuto diventare mio amico, e lui parve come intuire e dirmi di si. Tutto contento, lo lavai sotto l’acqua e lo riposi nel portaposate, in posizione di rilievo sul lavandino. Lì in mezzo, circondato da altre posate di altri set, spiccava come se fosse già il capocucina. E fu in quel momento che decisi: avrei fatto scalare al mio cucchiaino la gerarchia culinaria delle posate in casa mia. Uscii di corsa e mi fiondai a lezione, prima di perdere il treno.

Tornato a casa, il pomeriggio stesso cominciai a mettere in pratica il mio piano. Erano le 5, e mia madre stava parlando con una sua amica che veniva spesso a casa nostra. Subdolamente chiesi loro se volessero un caffè. Loro, stoltamente, accettarono ed io mi diressi subito in cucina. Il cucchiaino era ancora dove lo avevo lasciato in mattinata. Lo presi e poi ne presi un altro, uno di quelli di ferro, dal cassetto. Caricai la moka e la misi sul fuoco, mentre preparavo un vassoio con le tazzine e tutto il resto. Su un sottotazzina misi il cucchiaino blu, mentre sull’altro quello di ferro. Scelsi le tazzine meno belle, in modo che l’attenzione fosse calamitata solo dalle posate. Appena il caffè fu pronto, portai tutto nell’altra stanza, dove si stava ancora chiacchierando del tempo e di quanto veniva a costare una spesa. Appoggiai il vassoio tra le due e me ne rimasi lì, in disparte. Il cucchiaino blu era della tazzina di mia madre. Le due si versarono il caffè, poi giunse il momento fatidico: lo zuccherarono.

“Come mai hai preso due cucchiaini differenti?” mi chiese gentilmente mia madre.

Io risposi con un’alzata di spalle. Intervenne l’amica di mia madre: “Ma non ti preoccupare cara, ha fatto già troppo! Mio figlio non ci avrebbe nemmeno salutato, tzè. Non fa niente, per due cucchiaini. Anche se..” trattenni il respiro per un attimo “quel tuo cucchiaino blu è veramente grazioso, rispetto al mio.”

Mamma, divertita, si fece una risata e propose di scambiarsi le tazzine. La signora accettò con un’ altra sghignazzata. Io intanto gioivo gaiamente dentro di me. Un piccolo traguardo era stato raggiunto.

Quella sera, mi misi a letto facendo finta di studiare. Passò qualche tempo, e tutti se ne andarono nelle loro stanze a dormire. Allora mi alzai dal letto, novello James Bond, e mi diressi in cucina quatto quatto. Il cucchiaino blu era nel cassetto. Lo presi senza far rumore e aprii la dispensa, prendendo il barattolo del caffè. Lo aprii e dentro vi trovai quello che mi ero aspettato: il cucchiaino a cuore. Dovete infatti sapere che a casa mia c’è un solo cucchiaino che viene tenuto perennemente infilato nel barattolo del caffè, immerso nella polvere nera. Con quel cucchiaino si fanno tutti i caffè di casa. Era indubbiamente una posizione di prestigio per il mio nuovo amico. Sfilai il cucchiaino a cuore dal barattolo, e lo sostituii con il cucchiaino blu. Per un attimo parve scontento della sua nuova casa, infilato in quel barattolo scuro. Ma poi credo che si sia reso conto di quale fosse il suo nuovo lavoro, di quale importanza avesse rispetto ai ruoli che gli venivano di solito imposti, e che decidessi di entrarvi anima e corpo con maestosità e veterana esperienza. A mia volta soddisfatto della felicità del cucchiaino, richiusi il barattolo nella dispensa. Avevo pensato che forse qualcuno di casa avrebbe avuto qualcosa da obbiettare su quel nuovo impiegato: il cucchiaino a cuore era lì dentro da tempo immemorabile. Ma mi resi subito conto di quanto fosse in realtà poco efficiente quel vetusto cucchiaino. Aveva la conca piccola e a forma di cuore, che raccoglieva poca polvere di caffè a volta, e servivano molte cucchiainate per riempire una caffettiera. Forse all’inizio era stato buttato lì dentro appunto per la sua incapacità, chi puo’ dirlo? Sta di fatto che lavai il cucchiaino a cuore e lo sbattei di nuovo nel cassetto. Mi parve di aver fatto una cosa molto giusta: avevo dato un impiego importante ad uno che se lo meritava veramente, e nel contempo avevo dato una sferzata di vitalità ad una posata volenterosa ma incapace.

Passarono i giorni, e il cucchiaino blu si comportava in maniera egregia. Ogni volta posava il caffè dentro la moka con una delicatezza mai vista prima, ed era più difficile con lui far cadere la polvere. Credo che in quel periodo fosse molto contento, ma anche un pò malinconico rispetto ai giorni dello zucchero e delle girate. Ma così va il mondo.

Andava tutto alla perfezione: troppo alla perfezione. Avrei dovuto immaginare quello che dopo pochi giorni sarebbe successo. Ma non ci volevo pensare.

Un giorno, vennero a pranzo i miei zii. Ci fu un pranzo di quelli grossi e di famiglia, con tanto rumore e piatti che non vedi mai e che farebbero impallidire uno chef, anche se tua madre o tua nonna dice cose del tipo “è una cosa semplice semplice” oppure “questo lo faccio tutti i giorni” o ancora “ci ho messo solo cinque minuti”. In realtà chi cucina per questi giorni ci mette da mezza giornata in su. Comunque alla fine si arrivò al momento del caffè. Mia zia si propose di farlo per tutti, cacciò la moka e cominciò a riempirla. Ma ad un tratto, come le campane dell’apocalisse, esclamò: “Ma questo cucchiaino è di un mio set! Ecco dov’era finito. Chissà come c’e’ arrivato qua! Ti spiace se me lo riprendo?” fece zia a mamma. Non volli guardare la risposta di mamma, che annuì come solo un omicida pò fare. Sarebbero rimasti per il pomeriggio, e poi i miei zii se ne sarebbero tornati a casa, con il mio cucchiaino. Non potevo chiedere che me lo lasciassero. Nessuno è amico di un cucchiaino, a meno che non sia completamente scemo.

Quando la baraonda si spostò in soggiorno, io presi il cucchiaino che era stato lasciato sul lavandino. Lo lavai, dolcemente, accarezzandolo. Aveva ritrovato la sua mamma, il piccolo. Ma questo avrebbe significato non vederlo mai più, o almeno solo quando andavamo a trovare zia, quelle rare volte. Era un addio. In un attimo presi una decisione: aprii la dispensa, e trassi il barattolo del miele. Lo aprii, e vi infilai il cucchiaino. Prima dolcemente, a sfiorare il liquido appiccicosamente dolce, poi con piu’ tenacia, per arrivare al suo interno. Il piccolo era felicissimo, nuotava nella cosa piu’ dolce e più liquida al mondo, il sogno di tutti i cucchiaini. Lo trassi dal miele con il suo aureo contenuto. Me lo misi in bocca, e mi mangiai il miele con gusto. Il piccolo cucchiaino blu non tradiva mai. Come ti faceva mangiare o bere le cose lui, nessun’altro c’e’ mai riuscito. Alla fine lo trassi, e lo lavai nel lavandino. Gli diedi una bella insaponata, e poi lo risciaquai sotto il getto d’acqua calda. Quindi l’asciugai: sembrava come nuovo, e brillava triste. Anche lui si era accorto che quello era un commiato. Lo lasciai sopra il lavandino, e me ne andai in camera mia.

Quando i miei zii se ne andarono portarono con loro anche il cucchiaino, il piccolo amico dal manico color del mare. Non lo rividi mai più.

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Manzo sei un genio!!!

Malato, ma pur sempre un genio!!

Mi piace molto questo stile nello scrivere i racconti, questo giocare un po' con l'assurdità, ma paradossalmente presente nella vita di tutti i giorni. In maniera molto leggera e semplice, pulita.

GOOD!

Complimenti veramente! =D>

Però...c'è un però...che cosa vuol dire Peròòòòò..mi sveglio col piede sinistro.....

uhm ok la smetto...

dunque, dicevo, però: ci sono alcuni errori (a parte quelli di battitura) nei tempi..nn so se è perchè l'hai buttato giù di corsa, o se sono errori di battitura anche quelli, ma qualcosina c'è..per il resto è na bomba ;)

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  • 3 weeks later...
  • 3 weeks later...
  • 1 month later...

Questo è tutto quello che sono riuscito a cacciare fuori. Perdonate lo sfogo

romantico\metaforico.

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Gli spiriti dell'aria e gli spiriti dell'acqua

Ma lo spirito del vento nacque di nuovo, perchè non poteva morire.

Nacque lassù, negli alti spazi liberi del cielo. Nacque e seppe subito dal primo istante, con certezza assoluta, di essere lo spirito del vento. Poteva sentire e vedere intorno a sè, e sentiva l'aria, il freddo, il caldo, e tutto quello apparteneva a lui ed era lui. Sentiva dentro di sè la potenza del tifone e la leggerezza della brezza mattutina, la forza che spingeva le navi e la delicatezza che muoveva le foglie. Era l'estate e l'inverno, il movimento perenne, la corsa e la quiete.

Poi guardò in alto, e si spaventò oltre ogni limite: vide l'oscurità senza fine, il vuoto. Capì che in quell' oscurità lui avrebbe subito cessato di esistere, e decise di non avventurarvicisi mai.

Guardò in basso, e vide la terra. Capì che li' dove essa incominciava, finiva il suo regno. E se ne dispiacque, curioso di sapere cosa vi si nascondeva sotto. Ma avrebbe almeno provato a scoprirlo.

Fu un attimo, e si lanciò nell'ennesima prima corsa. Inesperto, si prodigò in accelerate e frenate, giravolte, picchiate, provando le sue capacità fino al limite. Correndo scoprì che alcuni esseri gli erano vicini, volavano come lui. Li raggiunse impaziente, perchè voleva abbracciarli e giocare con loro. Ma la sua foga lo condusse con inusitata potenza da quegli esseri, e finì per distruggerli ed ucciderli senza volerlo. Si fermò subito, appena se ne rese conto, ma già era troppo tardi: gli esseri caddero, e lui capì che non avrebbero mai più danzato nel suo regno, che erano per sempre vincolati alla terra. Per un attimo odiò la terra con tutte le sue forze, un odio che era paragonabile solo al fragore dei fulmini, istantaneo, feroce e senza senso. Ma lo spirito del vento si acquietò, appena il suo odio si fu un attimo sopito. Perchè sentiva che quegli esseri che ora appartenevano alla terra erano solo una parte di un numero piu' grande di esseri di anima uguale. Si sentì sollevato, e decise di aiutare tutti gli altri. Ne incontrò subito alcuni e vi si poggiò delicatamente sotto, sentì che questo era loro gradito e che allietava la loro fatica. E fu felice. Molti di essi si prodigavano in piroette e giochi, pericolosi per i loro fragili corpi, ma gioiosi per le loro anime. E questi ultimi erano i suoi preferiti, perchè anche lui amava tali giochi. Passò molto tempo a incrociarsi tra i ghirigori e le virate, e in quel periodo era spensierato, e non sfruttava mai la sua enorme potenza. Non pensava piu' alla terra.

Ma alla fine si stancò, e annoiato cercò un altro modo per divertirsi. Si guardò intorno e vide la terra, e si ricordò della propria curiosità, ma anche del proprio odio. La toccò in un soffio, titubante, e gli piacque. Vide che poteva muovere moltissime cose con la sua forza, e vi prese gusto. Corse, e rami e foglie e sabbia gli vennero dietro. Ma esse erano entità troppo legate alla terra, e si stancarono dopo un attimo dei suoi giochi. Ma lo spirito del vento non badò a loro, perchè ora aveva visto e toccato le forme. Finadora conosceva solo la forma degli esseri che vivevano nei suoi regni, e non pensava che ne potessero esistere cosi' tante. Dall'alto dei cieli, la terra non sembrava così varia! Conobbe gli alberi, e si divise tra i loro tronchi, sentì le piccolissime imperfezioni delle loro corteccie, sfiorò le loro foglie e si spezzettò ancora di più, muovendole armoniosamente come una musica. Conobbe l'erba e il grano, le accarezzò come un amante, le fece danzare, delicato, e infine le lasciò riposare. Si appoggiò sulle montagne, ma capi' subito che con tutta la sua potenza non avrebbe potuto distruggerle, ma solo intaccarle. E allora scopri' la pazienza.

Fu dopo un pò di tempo che viaggiava che vide il mare. Lo vide e vi si fiondò subito, incuriosito. Capì che anche esso non faceva parte del suo regno, perchè era indissolubilmente legato alla terra. E si sentì rattristito, perchè l'eleganza e la gaiezza di quell'entità gli parevano senza eguali.

Si guardò, riflesso, e vide la sua stessa potenza e grandezza, e ne fu fiero ed orgoglioso.

Lo spirito dell'acqua danzava insieme allo spirito della terra, quando vide lo spirito dell'aria sopra il suo regno. Aleggiava indeciso e incuriosito, ed era impalpabile e bellissimo. Lo spirito dell'acqua si rammaricò che lui non potesse vederla, perchè era affascinata dalla libertà e delicatezza che quell'essere emanava, diverse dalla potenza e rigidezza dello spirito della terra. Lo vide andarsene in un attimo, e in quell'attimo decise che lo avrebbe seguito. Si spinse su, al limitare del suo regno, ma si infranse contro il limite per lei invalicabile. Allora pianse e si infranse di nuovo e pregò, cocciuta e disperata. Fu lo spirito del sole a vederla, dall'alto della sua irraggiungibilità, lui che vedeva tutto. E lo spirito dell'acqua lo vide a sua volta, impaurita. Subito dopo pero' capi' che le sue preghiere erano state esaudite, perchè ora valicava i limiti del suo regno. Avrebbe raggiunto lo spirito dell'aria.

Lo spirito della terra era paziente come le montagne. Si quietò e attese.

In un attimo lo spirito dell'aria capì che qualcosa era cambiato: i confini del suo regno erano stati violati. Si diresse nuovamente sopra il mare e fu li' che vide le grandi masse bianche che si innalzavano. Vi si avviluppò intorno e capì che le poteva plasmare a suo piacimento, come niente altro che avesse mai conosciuto. Poteva modellare, cambiare, riprodurre, e fu subito entusiasta del cambiamento. Stava riproducendo le forme che aveva visto sulla superficie della terra, sommariamente perchè ne aveva viste così tante che non le ricordava bene, quando qualcosa lo sfiorò. Lui non era mai stato sfiorato e non lo sarebbe mai piu' stato, e cercò di capire senza paura cosa fosse quell'essere che poteva toccarlo, conscio della sua imbattibilità nei confini del suo regno. Fu allora che vide lo spirito dell'acqua. Vide il suo sorriso e se ne innamorò.

Fu un attimo, e i due spiriti si fusero in un'altro spirito. Questo spirito era potente, e aveva controllo sul mare e sul cielo, e muoveva le nuvole e le onde. E sia lo spirito dell'acqua che quello dell'aria erano coscienti della loro potenza, e ne erano felici, perchè si sentivano imbattibili e grandissimi. Amandosi nelle profondità marine o nelle alte vette del cielo, i due spiriti erano felici, e cono loro lo erano i rispettivi regni, ora uniti in uno solo. Sembrava che la realtà fosse finalmente giunta ad una conclusione logica, che avesse finalmente un senso.

Ma lo spirito dell'acqua era incline al cambiamento. Non poteva rimanere in quell'essere perfetto per altro tempo, perche' non lo voleva, e sentiva la mancanza dello spirito della terra. Si cominciò a staccare dall'essere che era anche lo spirito dell'aria, ed esso se ne accorse. Lo spirito dell'aria non capì perchè lo spirito dell'acqua se ne stesse andando, stesse distruggendo l'essere perfetto che erano loro. Cercò di trattenerla, ma non vi riuscì, perchè essa si divise in milioni e milioni di parti e si rigettò fra le braccia dello spirito della terra. E lo spirito dell'aria fu di nuovo solo nel suo regno.

Divenne triste, infinitamente triste, perchè il suo mondo ora era molto piu' piccolo, perchè non poteva più modellare le nuvole, ma soprattutto perche' non poteva piu' amare lo spirito dell'aria. La cercò per molto tempo, sfiorando con brezze leggere i confini del suo regno, portando odori e profumi particolari, cercando di ricordarle i momenti della loro potenza. Ma lo spirito dell'acqua non si fece vedere. Allora lo spirito del vento si adirò, chiuso nella sua tristezza, e cercò di strappare l'acqua alla terra. Creò tifoni, temporali e cicloni, ma appena rusciva a strappare un pò di acqua alla terra, lo sforzo per trattenerla era cosi' grande da creargli un dolore immenso, ed era costretto a rilasciarla cadere tra le braccia del suo nemico.

Frustrato, privato di tutte le sue forze, si scaglio' infine contro la terra stessa. Si intrufolò tra i vicoli, le case, e la sua potenza era ancora abbastanza grande da distruggere tutto. Ma alla fine anche questa finì, ed egli si ritrovò refolo, in un viottolo oscuro e senza uscita, e non aveva la forza di tornare indietro o in alto. Vide una pozza d'acqua, il suo amore, e vi si accasciò sopra, smuovendone a malapena la superficie. Si guardò, riflesso, e non vide niente. Egli era morto.

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