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Primo Racconto Fantasy (spostato)


Strikeiron

Messaggio consigliato

il materiale che segue non è al fine di criticare a vuoto, ma di esprimerti quelli che secondo mè sono i punti deboli del racconto, (quindi pria di castare un dito della morte verso il mio povero avatar aspetta ok?)

il primo sinceramente no mi è piaciuto... giusto per dire le cose come stanno:

non ci ho capito un ammazza del bakground della tipa, lo hai scritto (a parer mio) eccessivamente omettendo e scrivendo in maniera un po troppo confusionaria, che può rendere come stile per enfatizzare la sua confusione, ma se non supportato da qualcosa di più chiaro non attacca,

e dato che sono le prime righe a invogliare il suicidio di una stampante o meno, ....

un altro punto è la questione del sorcetto satanico e della luce...

arrivando alla fine del (credo 4° o comunque l'ultimo scritto xora...) si inizia ad intuire, piu o meno qualcosa, ma ugaulmente se si viene a omettere troppo a parere mio rende meno...

un altro particolare che mi è risultato ostico è stato l'immaginarmi la parte dove entrano in città e tutta la descrizione dell'ultima...

p.s.finale, credo tu volessi srivere nel racconto "con la" ...

ripeto, è solo il mio personale parere, e oltre a queste critiche non posso che farti i cmplimenti per il resto del racconto... :wink:

miauz aspetto il cap seguente :wink::twisted:

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Premetto...

*DIIIITOOO DI MOOORTE SULL?AVATAR DI NHEMESIS (SI SCRIVE COSI'?)*

:twisted:

Nhemesis wrote: p.s.finale, credo tu volessi scrivere nel racconto "con la" ...

Dove ho sbagliato? :x

Accidenti!!!

In merito ai tuoi commenti, tranqui ho postato giusto per avere critiche... e per capire un po' meglio se è il caso di scrivere avanti o lasciar perdere.

Guarda, dal mio punto di vista devo ammettere che all'inizio è volutamente criptico, ovvero un po' troppo misterioso perchè su tale mistero si incardina uno dei temi principali del racconto... poi, lo ammetto, sono un gran bastardone e mi piace tenere il lettore all'oscuro di MOOOLTE cose... ho tagliato e ritagliato moltissime volte la parte iniziale per dare idee, ma non certezze....

La parte dell'entrare in città l'avevo tenuta così per motivare la confusione ed il sonno della ragazza che entra in città esausta e coglie solo alcuni frammenti...vie buie, voci..e nient'altro.

Urka proprio l'attacco non t'è piaciuto, ma almeno ho una consolazione..il suicidio della tua stampante..spero per hara-kiri :twisted:

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Premetto...

*DIIIITOOO DI MOOORTE SULL?AVATAR DI NHEMESIS (SI SCRIVE COSI'?)*

:twisted:

Dove ho sbagliato? :x

Accidenti!!!

[...]

Urka proprio l'attacco non t'è piaciuto, ma almeno ho una consolazione..il suicidio della tua stampante..spero per hara-kiri :twisted:[/quote

in effetti hai scritto un po di "colla" in giro per il testo, e credo che l'attak ne sia felice, (secondo mè è pubblicità occulta... :twisted: )

in effetti la stampante ha fatto arakiri con il modem che gli faceva assistenza, nel caso avesse esitato... :wink:

comunque guai a tè se ti permetti di non continuare una opera così bella (non riferito alla mia povera stampante... !!! )

miauz :wink:

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Questo darà alle vostre stampanti un po' di tregua... :twisted:

5.In fuga

Odiava quella cella e soprattutto non poteva sopportare di starsene chiuso in quel modo. Nessuno, fino ad allora, lo aveva mai costretto a rimanere fermo per un giorno intero tra quattro pareti e per giunta umide. C'avevano provato in molti, è vero, ma nessuno c'era mai riuscito, almeno fino al giorno prima. A dire tutta la verità fino in fondo, se stavolta si era ritrovato in una situazione del genere non era altro che per colpa sua. In fin dei conti l'avevano messo in gabbia soltanto perché era un po' ubriaco e … sì, d'accordo, aveva scatenato una rissa con un soldato della guardia cittadina. Ma non se ne ricordava il motivo. Poteva essere una ragazza? Ricordava soltanto in maniera vaga di aver preso a pugni qualcuno, ma non sapeva decidersi su chi potesse aver picchiato stavolta: l'oste? Oppure uno dei compagni del soldato? O forse il soldato stesso?

Mah. Poco importava ormai.

Scosse la testa, sentendo salire alle tempie i postumi della sbronza, in una fitta allucinante: non è che rimanere chiuso lì dentro contribuisse a fargli passare il dolore. Per questo aspettava pazientemente che qualcuno venisse ad aprire la solida porta della cella, magari soltanto per portargli qualcosa da mangiare. Sarebbe stata un'ottima occasione per fuggire.

Si frugò nelle tasche, sovrappensiero: erano completamente vuote. Ladri! Non avrebbe potuto farsi ridare neanche i suoi soldi ora; forse qualcuno ne aveva approfittato quando lo avevano catturato la notte prima o più probabilmente aveva speso lui tutto, per bere. Beh, importava poco anche questo. Quando fosse uscito da lì avrebbe trovato un modo per arrangiarsi. Ma il problema era che non c'era anima viva lì dentro con lui.

Si sedette con impazienza sul pagliericcio in un lato della cella e cominciò a lisciarsi la lunga coda di capelli che scendevano fin oltre le spalle. Era orgoglioso di quel segno di distinzione, lui non era come tutti gli altri: lui era uno zigar. E gli zigar sopravvivevano sempre ad ogni ostacolo della propria vita. Non si sarebbero mai arresi finchè vi fosse stata la più piccola possibilità di trovare un'ultima scappatoia. Certo la gente comune non vedeva gli zigar di buon occhio, ma questo non gli impediva di ingannarli lo stesso al bisogno. Tutti quelli che incrociava sulla sua strada erano degli sprovveduti; cosa volevano? Che non approfittasse di così tante occasioni?

Per questo rimaneva in silenzio, attento a percepire anche il minimo rumore ed aspettava con impazienza che gli venisse presentata una nuova allettante occasione.

Trattenne il respiro per un attimo. Aveva sentito male? Accostò l'orecchio alla porta della cella ed ascoltò con attenzione: erano dei passi quelli che si avvicinavano? Attento a non fare il minimo rumore si acquattò accanto alla porta, pronto a scattare. Ora qualcuno stava sferragliando rumorosamente con delle chiavi.

La robusta porta in legno si aprì di scatto, ma non entrò nessuno. O meglio entrò soltanto qualcosa: lo zigar sentì la pressione della lama di una spada contro la gola. Non era poi così ingenuo come aveva sperato in un primo momento.

«Seguimi e non fare scherzi. Il kissal in persona vuole parlarti.» gli venne intimato.

Lo zigar annuì senza fiatare e subito la pressione sulla gola venne meno. Ormai non aveva senso scappare e docilmente si fece condurre fuori dalla cella, nel corridoio. Il soldato, perché tale era a giudicare dall'uniforme, lo lasciò andare avanti e lo guidò, tenendo la spada sollevata nel caso tentasse la fuga. Lo zigar sospirò di sollievo: da come l'aveva guardato l'altro non sembrava che lo avesse riconosciuto. Quindi non lo aveva incrociato nella rissa.

Per ora quindi non aveva la minima intenzione di scappare. Se fosse scappato lì dentro la guardia avrebbe subito dato l'allarme ed in breve tempo lo avrebbero riacciuffato. Era meglio per il momento aspettare un'occasione migliore.

Cosa voleva il kissal da lui, però? Forse la sua cattiva reputazione era giunta fin lì e qualcuno voleva fargliela pagare? Effettivamente non teneva più neppure il conto di quanti avevano con lui dei conti da saldare, ma per lo più erano sempliciotti. Come avevano fatto stavolta a raggiungerlo fin qua dentro? Doveva esserci qualcosa d'altro in ballo…

La guardia lo spintonò di malo modo su per le scale, verso il livello superiore. Qui i corridoi erano considerevolmente più larghi e ben illuminati. Soprattutto non c'era nessuno in giro; magari con un colpo ben assestato avrebbe potuto mettere a tacere la guardia e scappare velocemente da quella brutta situazione. Ma per fare una cosa del genere avrebbe avuto bisogno di un piccolo aiuto: lanciò un'occhiata alle pareti. Una torcia spenta gli avrebbe fatto comodo per parare un colpo di quella spada… Accidenti! Non ce n'era nemmeno una! Soltanto quei maledetti lumi ad olio, troppo scomodi da afferrare. Ma se quel soldato fosse stato meno agile di lui, magari…

Guardò avanti, nel corridoio dritto e lungo alla sommitàdella scala a chiocciola e si accorse che qualcuno, completamente avvolto in un drappo bianco, ostruiva il passaggio. E non sembrava avere nessuna intenzione di levarsi da lì. Lo zigar si fermò improvvisamente: non gli importava nulla della spada puntata contro la sua schiena. C'era qualcosa di strano in quel tipo, glielo stava letteralmente urlando il suo istinto. E lui si era sempre fidato della prima impressione: quelle vesti nascondevano troppo. Chi era veramente quel tipo là davanti? E perché era vestito in quel modo?

«Vai avanti! Nessuno ti ha detto di fermarti!» sbraitò il soldato.

Lo zigar si fece da parte, di modo da far notare alla guardia quella strana figura in mezzo al corridoio. Il soldato capì al volo e si rivolse all'estraneo: «Togliti da lì! Devo portare quest'uomo dal kissal. È urgente.»

Ma l'altro non diede cenno di volersi spostare, anzi sembrò soltanto raddrizzarsi ancora di più. Lo zigar ebbe un brivido: come poteva essere un uomo così grande?

«Dov'è la ragazza?»

La voce di quello strano tipo era lenta e strascinata, innegabilmente umana, ma al tempo stesso roca, come la voce di un vecchio.

Il soldato non si scompose: «Di che ragazza stai parlando? Qui non c'è nessuna ragazza.» gli rispose con tono sospettoso. Lo zigar nel frattempo era prudentemente scivolato a lato, la schiena rivolta alla parete del corridoio.

«So che è qui. Ditemi dove si trova e risparmierò le vostre vite.Voi non mi interessate.» insistette l'altro.

Il soldato fece scivolare lo zigar completamente alle sue spalle e mise la spada tra sé e l'estraneo, pronto ad attaccare. Ecco l'occasione buona, pensò lo zigar: adesso poteva lasciare la guardia a sbrogliare la faccenda ed allontanarsi in tutta fretta da lì. Il soldato in effetti era distratto, tutto concentrato su quella strana figura incappucciata.

Ma quello che successe lo prese completamente di sorpresa. Un sibilo frustò l'aria davanti alla guardia e questa subito cadde a terra come un pupazzo di pezza. Aveva gli occhi sbarrati ed un foro sanguinolento al posto della gola.

«Dimmi dov'è la ragazza.» intimò l'estraneo, questa volta rivolto allo zigar.

Ma lui non se lo fece ripetere un'altra volta. Gli era bastato quanto aveva creduto di vedere assieme a quel sibilo: un'enorme braccio artigliato che schizzava fuori da quelle vesti bianche. Qualunque cosa fosse, sicuramente non era umana. E prima che potesse ripensarci si lanciò di corsa nella direzione opposta. Aveva visto pochi passi prima un corridoio che si collegava con una diramazione sulla destra e questa fu la sua fortuna: vi sgusciò dentro prendendo completamente di sorpresa quella cosa. Non per molto però, visto che quando arrivò alla fine del nuovo corridoio, sentì che lo stava inseguendo.

Ed era maledettamente veloce.

Destra, destra, sinistra... non si guardava mai indietro, mentre schizzava letteralmente dentro quel labirinto, sicuro che a pochi passi da lui il suo inseguitore stesse rapidamente guadagnando terreno. I polmoni gli sembravano scoppiare, ma non per questo smise di correre: stringeva i denti dal dolore ed accelerava l'andatura, sempre di più. Questa volta la cosa dietro di lui perse terreno: non la sentiva quasi più ormai.

Ecco! Una porta socchiusa!

La spalancò senza pensarci e ci si infilò dentro, al buio. C'era odore di polvere lì dentro ed il naso gli prudeva orribilmente. Si maledisse per quell'idea stupida mentre là fuori dalla porta sentiva le lunghe falcate del suo inseguitore. Poi più nulla. Possibile che se ne fosse andato?

Silenzio.

Aspettò ancora un istante.

Nulla.

Il naso gli prudeva orribilmente, cercò di non pensarci troppo.

Si era fermato od era andato oltre? Era riuscito ad ingannarlo? Odiava affrontare simili pericoli disarmato, ma doveva farlo. Era una cosa ancora più stupida, ma doveva sapere se l'altro fosse ancora nel corridoio. Ancora un istante e si sarebbe tradito, starnutendo.

Con cautela riaprì lentamente la porta che aveva lasciato accostata. E qui fece un gigantesco errore: prima che potesse fermarsi i cardini cigolarono sinistramente nel corridoio. Lo zigar maledisse a denti stretti la propria imprudenza perché quella cosa era ancora lì, proprio davanti a lui, poco oltre la porta. Non fece in tempo a voltarsi, che già lui volava letteralmente via, lungo il corridoio.

Ce la poteva fare, si disse. Ce la poteva ancora fare, urlò silenziosamente dentro di sé.

Ma le forze gli venivano rapidamente meno mentre quella cosa dietro di lui non sembrava essersi ancora minimamente affaticata. Lo teneva dappresso ormai. Quasi c'era, maledettamente vicina. Qualcosa lo colpì duramente alla spalla in un'esplosione accecante di dolore: vacillò, ma non cadde.

Continuò a correre, per sopravvivere.

C'era quasi! Là davanti, oltre un androne buio, c'era una luce; ma non era fioca come le altre, bensì più forte e diffusa. Da là venivano anche delle voci, non poteva sbagliarsi. Si buttò in avanti con le sue ultime forze e si lanciò attraverso l'androne. Ma era troppo veloce: rotolò rovinosamente a terra al di là di esso e schivò per un pelo una spada che si stava già per abbattere su di lui.

«Fermo!» intimò minacciosamente qualcuno. Lo zigar non lo sentì nemmeno, la paura di morire era più forte di qualsiasi altra cosa. Si girò velocemente a guardare dietro di sé, aspettandosi di veder comparire quella cosa.

Nulla, solo ombre vuote.

Lì attorno vi erano soltanto una decina di spade puntate verso la sua gola, visto che si era lanciato a capofitto in mezzo ad un plotone intero di guardie, ora in pieno allarme. E tutte quante insieme gli gridavano contro e lo minacciavano. Qualcuno lo tirò su e gli urlò in faccia: cosa ci faceva lì? Che gli era successo? Lo zigar lo lasciò fare e non rispose: non ne aveva più il fiato. Anche per questo si sedette lentamente a terra, esausto e sollevato. Le spade puntate contro di lui non le degnò nemmeno di uno sguardo.

Nulla aveva più importanza ora, se non che quella cosa non lo aveva seguito lì in mezzo.

E per il momento era in salvo.

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  • 1 mese dopo...

Vartenia scivolava furtivamente lungo i corridoi, ben attenta a non fare il minimo rumore. I suoi insistenti silenzi ed il mistero del quale si era circondata agli occhi della ragazza non erano stati altro che un trucco per nasconderle la propria crescente preoccupazione. Forse aveva detto troppo al vecchio kissal, o forse no: non era necessario che altre persone rischiassero la loro vita. Alcune cose dovevano necessariamente rimanere segrete, almeno fino a quando non fosse giunto il momento giusto per svelarle. E per alcune di esse tale momento poteva non giungere mai.

Si fermò all'improvviso, avvertendo qualcosa al di là delle solide pareti.

Si concentrò, isolando ogni cosa lì intorno ed estendendo i propri sensi al di là dei muri più vicini, fin dove poteva arrivare: udì dei passi di corsa ed uno sferragliare di armature, nient'altro.

La ragazza era al sicuro nella sua stanza. Affrettò il passo, preoccupata. Sapeva bene che non erano al sicuro, nemmeno lì dentro. Ed aveva il forte presentimento di essere stata seguita: se questo fosse stato vero non rimaneva loro nemmeno molto tempo. I Suoi emissari li avrebbero individuati e distrutti, o peggio.

"Lui" non avrebbe perso tempo.

Per questo motivo ogni istante che passavano lì ad Olnemain era sempre più prezioso.

Quando le visioni l'avevano costretta a mettersi alla ricerca dei segni aveva pensato che fosse tutto uno sbaglio. A volte capitava: ciò che lei vedeva non era mai esattamente una copia della realtà, ma soltanto una delle tante possibilità. A volte le visioni nemmeno si avveravano, mostrando semplicemente a tratti ciò che sarebbe potuto accadere, ma che poi alla fine non si avverava.

Ma stavolta…

Aveva trovato pian piano tutti i segni là dove le era stato indicato di cercare ed i peggiori incubi si erano materializzati davanti ai suoi occhi. Quando, alla fine, si era decisa a partire dal Tissen la situazione si era già notevolmente aggravata. Forse già allora era troppo tardi.

Quando la ragazzina le aveva descritto i mostri che l'avevano attaccata, Vartenia si era ricordata di quelle cose con un brivido improvviso. Magari avesse potuto sbagliarsi: aveva viaggiato per mesi in lungo ed in largo per tutte le terre, cogliendo qua e là solo qualche segnale allarmante, alcune volte soltanto voci di strani eventi. Sussurri o presagi. Poi aveva attraversato la carestia, la morte e la follia, ma nemmeno questo le era bastato. Un giorno era arrivata in quel villaggio deserto. Non sapeva che i Suoi schiavi la aspettavano lì da tempo per distruggerla. Erano forme prive di una vera vita, schiave del terribile potere che le aveva plasmate ed insieme frutto nefasto di incubi angosciosi e furtivi, che reclamavano il loro sollievo nella sete di sangue. Erano le stesse cose che avevano attaccato la ragazza. Non poteva sbagliarsi.

Ma era riuscita a scappare anche quella volta, per un pelo. Aveva evitato lo scontro che le sarebbe stato fatale ed aveva imparato che quelle cose andavano temute. Non l'avevano inseguita. Ma ancora non sapeva se non l'avessero fatto perché ancora troppo deboli e disorganizzate, o piuttosto perché quello era solo un avvertimento. Sapeva che la prossima volta che le avesse incontrate non se la sarebbe cavata così facilmente. Poichè c'era potere in loro, un potere che aumentava di giorno in giorno, al pari della follia che le guidava.

Per questo desiderò che la ragazza non fosse mai arrivata, o meglio che non fosse mai nata. Non qui, non adesso, pensò. Eppure era stata costretta dalle visioni a guidare in fretta gli eventi, a preparare il suo arrivo per quanto fosse possibile. Ma il vero problema ora era se sarebbe sopravvissuta a quello che l'attendeva. Nemmeno Vartenia sapeva cosa le sarebbe successo: il futuro era ancora troppo incerto e volubile per poter azzardare una qualsiasi previsione.

Non le rimaneva che fidarsi delle proprie decisioni, pronta ad accettarne le conseguenze: tutte quante, quali che fossero. E non poteva non essere assalita dal rimorso per questo: avrebbe dovuto guidarla, cercare di spiegarle e farle capire… sembrava così debole ed indifesa.

Ma nelle visioni anche in lei c'era qualcosa. Vartenia sospirò… Se soltanto ci fosse stato più tempo per prepararla a ciò che l'attendeva, pensò. Ma non c'era né tempo né modo: la ragazza doveva imparare da sola e affrontare quelle terribili prove senza aiuto.

Era rischioso, ma era l'unico modo per salvarli tutti, compresa lei stessa.

Così le era stato mostrato.

Si inoltrò nell'ultimo corridoio e si diresse alla porta giusta; forse era stata un po' troppo imprudente a lasciare la ragazza sola per tutto quel tempo. Bussò piano, sussurrando appena le parole:

«Sono io. Apri.»

Il chiavistello venne tolto bruscamente dall'interno e la porta si socchiuse.

Lara la stava aspettando da un bel po' di tempo ormai. Dopo essersi rinfrescata, non era riuscita a rimettersi a riposare. A dire il vero non era riuscita neppure a star ferma dentro quella stanza, tali e tanti erano i pensieri che l'assillavano. E nonostante avesse riflettuto a lungo su cosa chiedere a Vartenia, quando questa fosse ritornata, ora non aveva la più pallida idea di dove iniziare.

Come al solito Vartenia l'anticipò: «Siediti un attimo, devo parlarti.»

Lara si accomodò alla meglio su una sorta di sgabello malfermo e fissò Vartenia dritto negli occhi, incuriosita. Ma Vartenia fece finta di non accorgersene:

«So che avresti molte cose da chiedermi, ma non posso rispondere a tutto. Purtroppo non ce n'è il tempo. Per prima cosa devi accettare il fatto che la luce che ti abbia portata qui a Solnem. Si tratta di una magia talmente forte e talmente antica da non poter essere usata da altre persone, ma soltanto da te stessa. Non so ancora come tu possa esserci riuscita, ma ho un'idea di cosa lo abbia provocato..»

«Ma io…!» protestò Lara.

«Non interrompermi, non ho finito.- le intimò Vartenia e riprese:- Stamattina ho visto che indossi un piccolo ciondolo. Puoi farmelo vedere?»

Lara portò le mani al collo, chiedendosi che cosa potesse c'entrare un miserabile ciondolo con quella storia. Lentamente sfilò la cordicella e lo strinse nel palmo delle mani.

Non era diverso dal solito vecchio pezzo di legno intagliato e colorato, un oggetto da bambine quasi, ma mentre Vartenia lo rigirava tra le mani, esaminandolo con attenzione, a Lara venne da chidersi il perché se lo fosse portato dietro. Ripensandoci non c'era stato un motivo preciso…

Vartenia le restituì il ciondolo: «Capisco perfettamente a cosa stai pensando ora.-disse- Lo hai sicuramente sempre considerato un oggetto senza valore. Ma non è mai stato così. È tanto pericoloso quanto può sembrare innocuo; devi promettermi che non lo userai mai. Nemmeno a rischio della tua vita.»

Lara la guardò sbalordita: non stava scherzando. Ma come poteva pensare che quel ciondolo fosse…

«E come potrei usarlo? È un semplice pezzo di legno! E poi non è possibile che sia stata io a distruggere quelle due "cose".. era come se qualcun altro lo facesse…» protestò.

«Dentro di te.- finì per lei la frase Vartenia e continuò- Sono sensazioni, illusioni, comuni a tutti quelli che abbiano sperimentato una magia simile alla tua. Credimi Lara! Se vuoi ritornare indietro, dovrai farlo solo con le tue forze e non con la magia. Questa è una cosa estremamente seria: devi promettermi che qualsiasi cosa avvenga non userai la magia.»

Lara ci pensò sopra un istante: d'altra parte cosa le costava promettere qualcosa che, comunque, non avrebbe mai saputo come fare?

«D'accordo.» le rispose, rinfilandosi delicatamente il ciondolo al collo, sotto i vestiti. Sembrava sempre lo stesso, innocuo pezzo di legno. Lara si rese conto che la sola idea che potesse avere un qualsiasi potere era a dir poco assurda. Vartenia sicuramente si stava sbagliando, doveva esserci qualcos'altro sotto …

Vartenia la stava ancora guardando.

Lara annuì: «Certo. Lo prometto. Non la userò.»

La donna le sorrise soddisfatta e fece per alzarsi, ma Lara fece per fermarla stavolta: aveva ancora molte, troppe domande:

«Cosa devo fare ora?» le chiese.

«Dovrai cercare una persona.» rispose Vartenia.

«Chi?» chiese Lara, esasperata.

«Un vecchio in una scuola di magia di Tulen, una città non lontana da qui. Dovrai chiedere del Primo Maestro: solo lui potrà dirti come tornare a casa.» le rispose.

«Ma non conosco niente di questo mondo! Come posso affrontare un viaggio? Mi accompagnerai tu almeno?»

Vartenia abbassò gli occhi, incapace di guardare la ragazza negli occhi: «Non io. Non posso.»

Lara trattenne il fiato: «Ma come?» esplose.

«Non ti devi preoccupare di questo. Altri ti accompagneranno nel tuo viaggio e ti proteggeranno. Ho fiducia in loro e dovrai averne anche tu, allo stesso modo.»

Non appena ebbe finito di dirlo Vartenia ripensò allo zigar e riprese: «Uno di loro potrebbe sembrarti tutto tranne che una persona nella quale riporre la tua fiducia, ma ricordati sempre che non bisogna mai fermarsi alla prima impressione.»

Sul momento Lara non capì cosa intendesse dirle, ma preferì non obiettare.

Vartenia non aveva finito, ma soppesò bene le parole, prima di dirle stavolta: «C'è un'altra cosa: possono esserci altri mostri come quelli che ti hanno assalita. Per questo motivo dovrai essere sempre molto attenta e non mostrare mai, per nessun motivo, quel ciondolo a nessuno. A parte i tuoi compagni non fidarti di nessuno e ricorda: prima arriverai a Tulen e prima sarai al sicuro.»

Lara rimase in silenzio, rimunginando su quello che le era stato appena detto. Se potevano esserci altri mostri simili a quelli che l'avevano assalita, allora non era finito nulla. E come avrebbe potuto difendersi? A parte il fatto che non era stata lei a scatenare la magia, ma qualcun altro… come avrebbe potuto sopportare una fuga estenuante in un mondo sconosciuto, inseguita da quegli incubi terribili?

Guardò Vartenia, terrorizzata.

Inaspettatamente la donna la tirò a sé e l'abbracciò, ma solo per un istante: «Ce la farai. Non devi preoccuparti.» le aveva sussurrò.

Lara rimase come impietrita, assolutamente spiazzata da quello strano gesto d'affetto. Avrebbe dovuto odiarla per quello che aveva appena fatto. Il terrore che era in lei fino a pochi giorni prima non avrebbe potuto ammettere un simile contatto, per lo più con un'estranea. Eppure sembrava essere tutto svanito; come se non provasse nulla. In quei due giorni Lara si era fidata ciecamente di Vartenia, senza neppure conoscerla e senza neppure chiedersene il perché. Per qualche strano motivo era riuscita a rimanere immobile, senza sottrarsi a quell'abbraccio.

«Bene, ora possiamo andare.» esclamò Vartenia, staccandosi in fretta da lei. In fretta aprì la porta, sbirciando nel corridoio. Nessun pericolo e soprattutto nessun rumore.

«Stammi vicina e non parlare fino a quando non arriveremo di nuovo nella sala del Consiglio.»

Lara diede segno di aver capito e la seguì nel dedalo di corridoi; ma adesso erano talmente attente a non far rumore, da scivolare, più che camminare letteralmente, sulle grezze pietre dei pavimenti. Ed il percorso divenne inutilmente lento, pensò Lara. Vartenia aveva imboccato una strada diversa stavolta, per cui si trovavano spesso ad arrampicarsi su strette scale a chiocciola, in una sorta di costante saliscendi che le condusse alla fine ad una pesante porta borchiata. Lara non aveva la più pallida idea di dove si trovassero ora, ma Vartenia fece velocemente scivolare i battenti verso l'esterno.

E fu così che si trovarono alle spalle del trono del kissal: erano entrate da una delle poche porte non sorvegliate. A dire il vero Lara notò un particolare che prima non aveva assolutamente notato: la stanza ovale del trono era letteralmente piena di portali. Ciascuno di essi, riccamente intagliato, portava in innumerevoli corridoi e la maggior parte di essi erano sorvegliati. Ma a cosa poteva servire un simile labirinto?

Il primo a vederle fu il giovane elfo, che al loro ingresso reagì con un involontario sobbalzo. Al che si girarono tutti verso di loro, colti di sorpresa.

Vartenia non si scompose: «Puoi far ritirare le guardie, kissal. Dobbiamo essere certi che nessun'altro ascolti i nostri discorsi.».

Bastò un semplice cenno del kissal ed un istante dopo gli ingressi alla stanza erano deserti.

Lara si rese conto che stavolta, oltre al nano ed all'elfo vi era una terza persona: un uomo notevolmente alto e vestito con alcuni stracci laceri, i capelli raccolti in una lunga coda che gli ricadeva ben oltre le spalle. Sembrava…

«Ho fatto prelevare dalla cella la persona che mi hai chiesto, Vartenia.- disse improvvisamente il kissal, indicando con disprezzo l'uomo in mezzo alla stanza - Ma c'è un grosso problema: il soldato che ho mandato per prelevarlo è morto con la gola squarciata. Temo che lo zigar lo abbia fatto nel tentativo di scappare. Ciò nonostante lui nega: afferma con forza di essere stato rincorso dal vero assassino.»

Uno zigar? Cosa voleva dire quella strana parola, pensò Lara?

Lo straniero intanto teneva gli occhi fissi a terra, come se non stessero parlando di lui. Come se non sentisse neanche il nano commentare con sarcasmo. Vartenia lo guardò un istante: «Hai fatto controllare se la storia sia vera?» chiese semplicemente al kissal.

«A parte una ferita sulla schiena ed il fatto che si sia lanciato in mezzo ad una pattuglia delle mie guardie, non ho altre prove che ciò che dica sia vero. Ho fatto cercare il mostro da lui descritto, ma non ce n'era traccia. Sempre a patto che esista.» le rispose.

Vartenia riflettè un istante prima di parlare stavolta: «Io ho completa fiducia in lui. Se quello che dice è vero devono partire di qui subito. Non c'è un attimo da perdere.»

«Cos'è questa storia?- sbraitò il nano, visibilmente alterato- Non possiamo fidarci di questo tagliagole!»

Stavolta l'uomo in questione sembrò trattenersi dallo scattare in direzione del nano: «Prova ancora a dire una sola parola nanerottolo e..» sibilò.

«Basta! Non siamo qui per assistere ai vostri stupidi litigi!» lo interruppe Vartenia.

Gli altri due ammutolirono.

« Tallein e Pantekor, assieme a quest'uomo accompagnerete la ragazza a Tulen e vi assicurerete che nessuno le faccia del male.» continuò la donna.

Un pesante silenzio calò nel salone.

«Mai!» sbottò in un soffio Pantekor, ma ammutolì sotto un'occhiataccia di Vartenia.

«Mi dispiace Pantekor, ma dovrai imparare ad andare d'accordo con lo zigar.» si intromise il kissal.

Pantekor non replicò stavolta, nonostante la sua espressione fosse una risposta più che eloquente.

«Dovrete sopportarvi a vicenda, per il bene delle vostre vite. La ragazza deve assolutamente arrivare a Tulen.» rimarcò Vartenia.

«Ed io cosa ci guadagno? Non c'entro nulla con questa storia e non voglio rischiare ancora la mia vita.» esclamò lo zigar sprezzante.

«Qui c'è in gioco anche la tua vita, che tu lo voglia o meno, uomo dell'est. Quei mostri rappresentano una minaccia per qualsiasi essere vivente.» lo minacciò, Vartenia.

Gli occhi dello zigar incrociarono per un istante quelli di Vartenia; la donna vi lesse curiosità, incertezza, ma soprattutto terrore. Qualunque cosa fosse successa Vartenia capì immediatamente che lo zigar non aveva mentito. I Suoi emissari erano già lì, dentro le mura di Olnemain ed ancora peggio, nella fortezza.

«Deciditi. O parti con loro, oppure rischi rimanendo qui, di essere appeso ad una forca. A te la scelta.» lo apostrofò il kissal.

Vartenia interruppe il silenzio: «Soltanto tu Tallein, puoi decidere se accompagnare la ragazza, oppure tornare dal tuo popolo.»

«La mia gente mi considererebbe un traditore, non un superstite. La mia casa non esiste più.» rispose tranquillamente il giovane elfo.

«Bene allora. È deciso. Vi accompagnerò io stessa fino al limite esterno delle pianure. Partiamo immediatamente, il tempo è contro di noi, temo.»

Il kissal indicò con calma un angolo della stanza: «Ho fatto preparare l'equipaggiamento. Troverete tutto ciò che vi serve in quegli zaini. Che gli spiriti immortali vi proteggano.»

Lara rimase immobile. Spiriti immortali? Cosa intendeva? Soltanto lo sguardo di soppiatto con il quale lo zigar la stava squadrando le gelava il sangue nelle vene.

Silenziosamente ciascuno di loro raccolse uno zaino, Vartenia porse a Lara il suo. La ragazza lo issò sulle spalle con una smorfia, era pesante come il piombo.

«A presto vecchio kissal. Rifletti su quanto ci siamo detti e rammenta che il tempo ora è il nostro peggior nemico.», detto questo, la donna si inoltrò in un corridoio, trascinando dietro di sé la ragazza. «Seguitemi e badate a non fare rumore.» sussurrò stavolta.

Gli altri la seguirono in silenzio.

Nel salone il vecchio kissal rimase solo, quasi ignorato. Per lunghi istanti rimase così, fermo in attesa di un rumore, immerso nei propri pensieri.Quando non sentì più il rumore dei passi fece un respiro profondo… e le pupille si rovesciarono, mentre il corpo intero fremeva sotto le vesti troppo piccole. Si alzò con lentezza, trasformato in una figura imponente e disarticolata, le braccia mutate nuovamente in lunghi e spessi artigli chitinosi. Di quando in quando sbattevano ticchettando sul pavimento. La creatura soffocò una rauca risata sarcastica.

Stupidi! Li aveva ingannati con una facilità straordinaria. Il suo sguardo cadde compiaciuto ad una sagoma appena in rilievo dietro uno degli arazzi. Dopo avergli dato il tempo di origliare in tutta tranquillità quella donna ingenua, il vecchio kissal era morto velocemente, senza aver neppure il tempo di invocare aiuto. Ed altrettanto facile per lui era stato nasconderlo ed assumerne le sembianze. Tutto quanto come aveva previsto il suo Padrone, ne sarebbe stato soddisfatto.

E gli altri per ora non erano un problema…

La creatura fremette ancora, plasmando le proprie sembianze in una forma più rassicurante, ma al contempo più scomoda. Quindi si allontanò disturbata, pregustando già il sapore della vittoria.

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  • 4 settimane dopo...

6. Sentieri nel bosco

Era una notte limpida e terribilmente fredda e forse per questo il cielo sembrava più che mai disseminato di stelle, nonostante il bagliore della luna. Il vecchio elfo rabbrividì, rifugiandosi prontamente nella casa, dove ancora il fuoco brillava vivacemente. Adorava sempre sentirne il tepore, anche se per averlo doveva di giorno in giorno andare nei boschi a procurarsi la legna. Gli altri gli facevano spesso notare quanto il fuoco magico fosse molto più comodo e più semplice da gestire. Ma lui era vecchio e… superstizioso. Al contrario degli altri non pensava che il fuoco magico fosse una comodità, ma piuttosto un pericolo. Nessuno sapeva come funzionasse, nessuno capiva da cosa scaturisse, nessuno aveva mai fatto più che imparare le poche scarne parole per attivare i simboli. E di quei simboli Laivor, la città degli elfi, ne era letteralmente cosparsa. Cosa avrebbero fatto un giorno se un simbolo attivato erroneamente avesse dato fuoco a tutto? Meglio non pensarci. Ma era sempre la solita storia, riflettè amaramente.

Così come aver mandato i giovani in spedizione attraverso le montagne era stata una decisione assolutamente folle. Forse era stata soltanto la vigliaccheria, oppure l'orgoglio, l'acido orgoglio che infesta i cuori ed impedisce alla ragione di porre le proprie sensate obiezioni.

Dal caminetto tornò alla finestra, da dove poteva spaziare lo sguardo sull'intera città. Qui rimase a lungo a fissare le luci ed a pensare.

Durante tutto quel giorno e quelli precedenti non aveva fatto altro che pensare alla spedizione, adesso non riusciva neppure più a dormire la notte. Come avevano potuto mandare i loro ragazzi allo sbaraglio? Eppure in quelle zone non accadeva più nulla da secoli. Non vi era brigantaggio, né delinquenza… sembrava fossero scomparsi perfino i lupi dalle montagne. Ed i rapporti commerciali con gli uomini delle vallate erano fioriti, oltre ogni prospettiva. Ormai Laivor era legata ad Olnemain da rapporti frequenti, molto di più di quanto desiderasse il popolo elfo. Ma molto di meno di quanto desiderassero gli uomini, che guadagnavano molto dai loro affari.

Ciò nonostante non si sentiva sicuro. Fin dal primo momento era come se un'ombra oscura di presentimento gli fosse pesata sul cuore. Scrutava dalla finestra, come sperando di poterli veder tornare tutti, incolumi e felici per un'insolita avventura.

Intanto la sua coscienza si dibatteva per non essersi opposto in maniera convincente a quella follia.

Rabbrividì dal freddo, le braci che si stavano lentamente spegnendo in un filo di fumo. Aveva realizzato con le sue mani il caminetto e ciò nonostante spesso gli dava l'impressione che non tirasse bene: forse avrebbe dovuto salire sul tetto e controllare che qualche uccello non avesse fatto un nido lì, anziché sugli alberi secolari dei Giardini Idei che circondavano Laivor. Velocemente aggiunse un altro ceppo di legna, uno degli ultimi. Quando scosse le braci con un guizzo veloce una fiammellà lambì il legno, per poi spegnersi di scatto, capricciosa. La stanza piombò nella penombra di una piccola lanterna ad olio.

Forse era ora che andasse a letto, piuttosto che rimunginare su quelle cose. Tutti dicevano che la spedizione non poteva tardare, i giovani elfi avrebbero fatto ritorno prima delle cerimonie di passaggio e nessuno allora avrebbe più pensato a tristi presagi. Ma se i giorni fossero passati senza che tornassero? Cosa avrebbero potuto fare?

Si sentì inutile e frustrato. Era proprio ora che andasse a letto, un po' di ore di sonno non avrebbero di certo potuto fargli del male. Eppure rimase lì fermo, davanti al fuoco, incapace di muoversi.

Sussultò per la sorpresa.

Fuori c'era stato un lieve rumore. Trattenne il respiro, pensando di essersi ingannato. Ma lo sentì di nuovo, come un passo furtivo ma trascinato. Chi avrebbe potuto essere a quell'ora? Poteva anche essere soltanto una volpe: quelle sì, al contrario dei lupi, si intrufolavano nella città, alla ricerca di qualcosa da mangiare. Ma non erano volpi normali: il loro manto era blu, tale quale ai riflessi del ghiaccio sulle montagne lì attorno. Per questo raramente si mostravano agli elfi, seppur talvolta capitasse, per quanto raramente, che la mancanza di cibo le spingesse nella città. Mai un elfo però era stato attaccato da quelle volpi.

Prese un ceppo di legna ed aprì la finestra per spaventarla, ma una ventata d'aria gelida fece rabbrividire la tenue fiamma nella lanterna che vacillò e si spense, lasciandolo al buio. A tentoni si precipitò verso il camino, mentre ondate di aria gelida irrompevano dentro ed il rumore là fuori si ripetè. Doveva essere lì, pensò, mentre tastava a tentoni sulle pietre del focolare. Finalmente tastò qualcosa… e girò la testa per controllare che non ci fosse nessuno, attraverso il debole chiarore della finestra.

La porta era spalancata.

Distingueva facilmente una sagoma ingobbita, appoggiata allo stipite della porta. Rimase immobile, paralizzato dal terrore, quasi aspettando che succedesse qualcosa. Ora chiunque fosse stava scrutando nella stanza buia, alla sua ricerca.

«Padre, sono io.»

Un brivido gelido gli attraversò la schiena, quando riconobbe quella voce.

«Padre? Dove sei?» poche parole forzate, ridotte quasi ad un sussurro senza speranza.

Le mani gli tremavano più che mai ora, mentre sfregava caparbiamente l'acciarino. Finalmente scaturirono scintille che subito divennero luce: abbastanza da riconoscere la figura scarna sullo stipite che scivolava lentamente a terra, esausta.

«Critas!-esclamò-Ma come?», ma non ebbe risposta. Nella luce ora più forte si avvicinò allo stipite e vide chiaramente i vestiti stracciati e sporchi, il sangue coagulato attorno alla freccia spezzata nella ferita. Gemette, disperato ed indietreggiò, come se avesse appena ricevuto un colpo. Come poteva essere possibile? Poi si riscosse: suo figlio giaceva lì a terra e lui stava lì, immobile, a guardarlo morire? In fretta prese il giovane tra le braccia, lo sollevò e lo depose sul giaciglio più vicino: era leggero per lui, ormai vecchio. Chiedendosi quasi per caso se nella morte non si diventi più leggeri che in vita, si affrettò a sentire il respiro: lento ed irregolare, ma c'era. Critas era soltanto svenuto. Gli venne l'impulso di scuotere quella figura scarna e sofferente per avere da lui delle risposte, subito: che fine aveva fatto la spedizione? Dov'era Tallein? Ma no, non ora. C'era altro che doveva fare: chiamare un guaritore ed avvertire immediatamente dopo il Consiglio, pur se nel mezzo della notte. Corse in strada trafelato e nemmeno si accorse che stava correndo nella direzione sbagliata: anziché dirigersi verso il centro della città si era diretto nella parte opposta, dove le case di pietra ora gli davano l'impressione di freddi sarcofaghi disabitati. Non riusciva a togliersi dalla mente quella freccia spezzata e la certezza che i presagi si erano avverati. In condizioni normali sarebbe crollato a terra, distrutto dalla disperazione. Invece non fece altro che tornare sui propri passi e correre ancora. Gli Osteller avrebbero aspettato alcuni minuti in più nel loro sonno da stolti, pensò, mentre entrava trafelato nella casa del curatore più vicino. Un globo luminoso si innalzò nell'aria, diffondendo luce nella stanza d'ingresso, mentre da qualche parte nella casa qualcuno o qualcosa stava già svegliando il guaritore. Ciò nonostante il vecchio elfo non si era reso conto che da quando era uscito di casa non aveva fatto altro che urlare, preso dalla disperazione. Già molti elfi, svegliati nel sonno, avevano fatto capolino dalle case lì attorno. Alcuni di loro gli si fecero incontro, cercando di tranquillizzarlo, mentre le urla si tramutavano in lacrime amare. Ma non capirono cosa potesse essere successo. Chi poteva averli attaccati? E perché? La mente del vecchio girava a vuoto, come un ingranaggio impazzito. «Morti, sono tutti morti.» sussurrò come in una cantilena, sperando che il guaritore non arrivasse troppo tardi.

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  • 8 mesi dopo...
  • 2 settimane dopo...
  • 2 settimane dopo...

Gut! :thumbsup: Fin'ora mi è piaciuto, ora devi andare avanti.

-MikeT

Azz mi sono bloccato con la mitologia....

Mitologia: mito della creazione.

All'inizio il nulla e nel nulla solo una vita.

Velthune si destò e decise di infondere il suo dono a dei figli. Prima

si dedicò all'acqua ed alla terra, ma quando le ebbe finite queste

rimasero immobili, prive di vita. Allora soffiò su di esse ed ottenne

il fuoco, respiro della terra, ed il vento delle tempeste, respiro

dell'acqua. Allora fu soddisfatto da quello che aveva fatto. Gli

elementi erano vita e la vita persisteva in essi, ma non la magia. Non

ancora, almeno. Velthune capì che gli elementi non erano abbastanza.

Allora diede loro la magia e dagli elementi nacquero i suoi fratelli,

destinati a popolare il mondo. Dall'acqua nacque Nethuns, signore dei

mari; dal fuoco Sethlans, signore dei metalli; dall'aria nacque Tinia,

signore dei fulmini ed infine dalla terra nacque Aita, signore di

tutto ciò che è nescosto. La magia divenne vita e gli elementi

prosperarono in essa.

Ma nemmeno allora Velthune fu soddisfatto.

Fu allora che nacquero Turan, dea della fertilità e Phersipnai, dea di

tutto ciò che è svelato.

Le ere passarono e gli dei furono soddisfatti di loro stessi, ma gli

elementi non ne prosperarono. Poi un giorno Aita incontrò Phersipnai e

gli elementi rischiarono di perire, come avviene quando si incontrano

tra loro gli opposti, perché ormai non vi era distinzione tra dei ed

elementi tale era la magia che li permeava. Aita e Phersipnai ebbero

un figlio: Velka, dio della natura.

Quando nacque la vita si manifestò all'improvviso in modi diversi e

Tinia fu costretto per sostentarla ad usare i suoi fulmini, Sethlans

lo aiutò rovesciando nel cielo la sua forgia incandescente. Così

nacquero gli astri e le stelle, così nacque il sole che diffonde

l'essenza di Sethlans sulle creature di Velka. Quest'ultimo divenne

dio del mutare del tempo su tutto ciò che è vivo, tale era il suo

destino e la sua discendenza: da dea fertile e dio di morte,

supremamente occulta tra tutte le cose.

Ma questo ancora non bastava. Velthune pregò i suoi fratelli e le sue

sorelle di aiutarlo. Allora questi presero gli elementi e la vita che

sgorgava in essi e li mescolarono insieme, alla ricerca di qualcosa di

più grande. Non erano dei quelli che si accingevano a creare, bensì

mortali, in quanto anche Aita mise il suo contributo e nulla potè in

questo Phersipnai. Perché non cè rinascita senza la morte. In quel

tempo non vi era altro che natura e di ciò Velka era compiaciuto. Aita

e Phersipnai insieme allora presero la terra e la mescolarono con il

fuoco di Sethlans, fu allora che nacquero i nani o la prima razza. Da

tali origini i nani impararono a dare vita a ciò che è freddo e morto.

Velka decise che il suo regno doveva avere la sua razza; prese le

creature che in essa prosperavano e con esse creò la seconda razza:

gli elfi. Più pura tra tutte le razze e più vicina a Velka delle

altre. Dall'acqua di Nethuns e dall'aria tempestosa di Tinia insieme

sgorgò la terza razza: gli zigar. Tale è la loro origine che essi non

possono mai stabilirsi in un luogo, ma devono vagare sempre, sospinti

dagli elementi mutevoli di cui sono fatti. Turan che era rimasta in

disparte rubò l'acqua da Nethuns e chiese a Sethlans del fuoco. Lo

ottenne e li mescolò. Così nacque la quarta razza degli Gnul, nel cui

sangue scorre tutto ciò che basta loro per sopravvivere negli aridi

deserti di Solnem. Per questo nessuno chiese punizione e Turan fu da

allora la dea dell'inganno.

Nemmeno allora Velthune fu soddisfatto.

Prese allora tutti gli elementi perché in ciascuno di essi la magia

era forte e Velthune sentiva che così doveva essere. Soffiò sulla

quinta razza la propria benedizione, ma Velka protestò per quanto era

stato fatto: nessuna razza poteva essere superiore alle altre. Per

questo Velka impresse sulla quinta razza degli uomini il marchio del

tempo ed in ciò lo aiutò Aita. Perché con così tanti doni si

rendessero conto attraverso la propria mortalità di non doverli

sprecare, come spesso avviene. Per questo Velka deve loro una

particolare benevolenza, tale che la quinta razza ha imparato ad

ottenere un prezzo dalla natura stessa per poter sopravvivere.

A questo punto Velthune fu soddisfatto e si ritirò, assieme gli altri

dei, dalla propria creazione. La magia negli elementi era

sufficientemente forte a controllarli senza danno e le razze stesse

erano intrise di essa al punto che nulla poteva volgere al male.

Ps i nomi degli dei derivano dalla mitologia Etrusca

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Per questo Velka deve loro una

particolare benevolenza, tale che la quinta razza ha imparato ad

ottenere un prezzo dalla natura stessa per poter sopravvivere.

Questo è il pezzo che non ho ben capito. Cosa vuoi dire con "Velka deve loro una particolare benevolenza?"

-MikeT

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