L’incontro.
Seduta al tepore di una panchina non troppo soleggiata, con il vento tra le dita, Linda rincorreva la trama di un piccolo libro con i grandi occhi azzurri. Lettera dopo lettera, saltando ragionevolmente qualche carattere,
divorava paragrafi di una storia già datata, ma per lei fresca, una storia lontana per spazio, tempo e persone.
D’improvviso, l’inconveniente: la pagina, appena girata, fu oscurata da un velo d’ombra.
Linda alzò uno sguardo incuriosito.
Lo strano giovane interferiva con la luce solare, coprendo con la sua sagoma la carta stampata.
Non era la prima volta che lo vedeva, ma era la prima volta che entrava in contatto con lui. Non ne sapeva (o ricordava?) il nome. I capelli, piuttosto lunghi, mossi e neri, apparivano screziati di sfumature quasi
impercettibili, forse ramate, alla luce del sole estivo. Aveva la sua solita espressione divertita (chissà poi per cosa?) sulle labbra. Stava lì in piedi a guardare lei e il suo libro e la sua panchina un tempo tranquilla, con i
profondissimi occhi scuri e lucidi.
“Che leggi di bello?”
(...conosce già la risposta...)
Per un istante, Linda rimase probabilmente a bocca aperta. Poi riuscì a riconnettere.
“Sto leggendo Il Maestro e Margherita...”
“Carino, ma Bulgakov aveva le idee un po’ annebbiate.”
Assaporando il sapore del succo di frutta residuo tra lingua e palato, Linda cercò di liquidarlo con un sorriso di circostanza.
Un paio di secondi di finta indifferenza.
Poi cedette alla curiosità: “Annebbiate da cosa?”
“Che ne so? Questo dovresti chiederlo a lui, non a me...”
Altro sorriso circostanziale, vagamente offeso e piuttosto stupito. Occhioni leggermente sgranati.
“La domanda che avresti dovuto fare -continuò- era “In che senso?” e allora io avrei risposto con qualche frase particolarmente a effetto su chissà quale argomentazione... Occasione sprecata.”
Ora Linda si rese conto di essere rimasta innegabilmente bocca aperta. Dal profondo, si fece strada dopo alcuni millisecondi un sorriso, questa volta meno circostanziale e più divertito.
Cominciava a capire perchè tanti loro comuni compagni di corso ronzassero attorno allo strano tipo: nel suo piccolo (tra una cazzata e l’altra...) era innegabilmente affascinante (...una calamita umana).
“Beh scusa tanto, la prossima volta ti chiederò il permesso prima di farti una domanda...”
“Sarà meglio, bambina...”
(...bambina a chi?)
Decisamente, il soggetto non si esentava dal dispensare giudizi (...che stronzo...) e si aggrottò leggermente,
come se (ti leggesse nei pensieri?) capisse tutto al volo. Subito riacquistò la solita calma e il sorrisino sarcastico/divertito/inquisitorio.
Linda, con un sensibile ritardo, colse la sfumatura ironica, e richiuse il libro, ormai placidamente rassegnata alla conversazione.
“Posso sedermi?”
(...un uomo d’altri tempi...)
“Sicuro.”
La panchina, notò Linda spostandosi di una ventina di centimetri, non era proprio comodissima. Non era neanche propriamente una panchina, a voler essere precisi: più un muretto che altro. Comunque, il
muretto/panchina non sarà stato comodissimo (...sempre meglio che niente...), ma era all’ombra quanto bastava per non sudare come i poveretti indaffarati in giro per l’Università.
Linda riprese il discorso con una domanda inevitabile:
“Tu lo hai già letto?”
“Sì. Altrimenti non ne parlerei...”
(...uno a zero per lui...)
“Beh, c’è tanta gente che parla di cose che non conosce...”
La frase, che Linda si rese subito conto essere carica di palese retorica da quattro soldi, sembrò colpire il ragazzo. Per un momento si illuminò, come se avesse voluto sentirsi dire da tempo quelle esatte parole.
Rapido, sdrammatizzò la sua stessa reazione:
“Hai ragione. Ma io non sono uno di questi.”
E tacque improvvisamente, pensieroso.
(E adesso che gli è preso?)
“Che c’è?”
“Niente, niente. È solo che per un momento mi hai fatto ricordare una persona. Una persona lontana lontana... Ma tu -riprese cambiando decisamente tono alla discussione- ci credi in quello che stai leggendo?”
“Cosa?”
Entrambi ora sembravano, sicuramente, molto divertiti dalla discussione ad eventuali osservatori.
“Sì, voglio dire, nel Diavolo che si manifesta così, in un giorno come tanti, e avvolge persone comuni nelle sue trame. Ci credi?”
Linda esitò.
“Ma non devi leggerlo così -esordì con una punta di fastidio- non è mica un libro fantastico! È tutta una sottile metafora della...”
“Bah -la interruppe seccato- come sei materiale... Ci credo che fai Ingegneria!”
“E perchè, tu no?”
(...credi di essere tanto speciale?)
“Ma che c’entra? Io ho le mie ragioni. E poi mica siamo tutti ottusamente positivisti...”
(...e allora che ci fai qui?)
“Comunque non è questo il punto: ci credi o no?”
“Beh, io non ne ho visti molti di diavoli qua attorno...”
Un sorriso (malinconico? deluso?) gli sigillò le labbra. Ma non durò.
“A quanto vedo sono capitato nel posto giusto... Tu, con gli occhi che ti ritrovi, non dovresti limitarti a leggere quello che ti scrivono gli altri. Tu puoi imparare a leggere più a fondo.”
(...che dice? Chiaro! Ci sta provando: adesso ti chiederà un appuntamento...)
“Sai che parli troppo, mio caro?”
“Forse, sei tu che ascolti troppo poco.”
Sapeva innegabilmente come ammutolire la gente, anche se solo di tanto in tanto.
Questa volta il silenzio durò più a lungo, con due grandi occhioni azzurri che fissavano un ragazzo ora taciturno, e due limpidi occhi neri fissi in un indefinito punto tra nuvole e sole, occhi stretti per la troppa luce o per qualche ricordo un po’ troppo lontano da mettere a fuoco.
Fu lui, mentre Linda cercava di ricordarsi in quale preciso istante si fosse lasciata coinvolgere in una discussione del genere con un semi-sconosciuto (la categoria peggiore di persone), a rompere ancora la coltre di silenzio, che stavolta era assoluta e pareva definitiva:
“Scusami, non mi sarei dovuto permettere di parlarti di questo. Ognuno, alla fine, crede in ciò che gli pare.”
Pareva vagamente deluso (come a dire “Ho sbagliato persona”), e si alzò senza particolare fretta.
“Comunque, ti lascio alla tua lettura. È stato un piacere averti conosciuto un po’ meglio... Arrivederci!”
Per un momento, gli sguardi si incrociarono.
“Anche per me è stato un piacere. Ci vediamo presto!”
Il ragazzo, che ora Linda notò essere vestito quasi completamente di nero (...come sempre...) si voltò senza particolari indugi, con passo rapido ma non troppo. Forse, inseguiva i suoi pensieri tra le rade ombre del parco.
(Buffo: non gli hai nemmeno chiesto come si chiama...)
Per un momento, dopo che se ne fu andato, fu come se le mancasse già. Senza motivo. Poi il pensiero venne spazzato via da un’ondata di altre faccende quotidiane, e in parte anche dal libro, finalmente restituito al suo
sole estivo e alla gloria delle sue preziose lettere.
Un libro non eccessivamente serioso era un raro piacere (in questa Facoltà di matti) ora che il tempo era sempre così poco, perfino in giugno.
Dopo alcune ore, quando oramai il sole già affievoliva, Linda si stiracchiò posando il piccolo volume azzurro. La prima giornata senza grosse preoccupazioni da settembre a questa parte stava terminando.
Si alzò dal non troppo comodo sito ombroso, ripose il libro nella borsetta e si avviò verso la fermata dell’autobus, percorrendo senza fretta la discesa accanto al grigio edificio centrale.
Passò qualche ora, priva di avvenimenti realmente interessanti: purtroppo il giovedì non offre grandi spunti da parecchio tempo.
Puntuale come sempre, la notte.
Ora, il buio avvolgeva in un silenzio quasi innaturale la città.
Linda, sola nell’appartamento, si lisciava i capelli prima di dormire.
(...come una principessa...)
Pensieri (anche infantili) le scorrevano in testa assieme alle dita affusolate della spazzola, ricordi frammisti di giorni lontani e vicini, piacevoli e cupi.
Inspiegabilmente, di colpo, le venne in mente la bambola.
La bambola: si ricordò di una bambola, che ora giaceva chissà dove, a casa (non qui: a Casa!), forse sotto una pila di vecchi giocattoli o in un angolo buio. Non era una bambola qualsiasi, ma non ne ricordava il
nome (Anie? Annil?), nome scovato tanti anni prima in chissà che libro per bambini. Non era una bambola qualsiasi: era un angioletto. Il suo angioletto protettore. Il suo confidente. Ecco, ora sapeva cosa avrebbe
detto la prossima volta al ragazzo, di cui (non ricordava?) non sapeva il nome: “Ai diavoli magari non ci credo: che bisogno ce n’è di altro male in giro? Però sono convinta che da qualche parte qualche angelo ci
sia ancora, o almeno lo spero...”
Terminò il suo piacevole compito contenta di aver trovato anche lei una bella frase a effetto per il ragazzo così (strano?) sicuro di sé.
Non tardò a scivolare nel sonno, per sognare qualcosa di indefinito ma piacevole, come il vento lieve del pomeriggio di giugno.
Lontano, sul molo, stava ora una figura alta e scura. I capelli, piuttosto lunghi, mossi e neri, apparivano screziati di sfumature quasi impercettibili, forse ramate, alla luce pallida della luna estiva. A braccia conserte
osservava il mare immoto lungo l’orizzonte, e forse anche più in là.
Si voltò poi verso la città dormiente.
“Bambina, proprio non ti ricordi? Ce ne sarà di lavoro da fare...”
Silenziosamente, con la solita espressione divertita, ripensando agli avvenimenti della giornata, fece tre passi e saltò verso il mare. Due lunghe ali nere, prima celate, si fecero strada nella notte. L’angelo Anael sorvolò il mare notturno, invisibile nella notte, e silenziosamente scivolò verso la luna.