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Mai inchinati mai piegati mai spezzati [seconda parte]


Samirah

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Gael

Il vociare di cavalieri e scudieri si miscelava ai rumori tintinnanti del metallo e al frusciare dei tessuti. La famiglia reale si era trascinata dietro circa duecento persone, tra nobili e servitori e Gael trovava quella confusione assordante ma allo stesso tempo incredibilmente affascinante. Si muoveva a passi rapidi in mezzo a quella folla, tentando di carpire volti, nomi, stemmi. La sua curiosità sembrava amplificarsi ad ogni metro, mentre i suoi occhi neri frugavano in ogni angolo.

Quando sentì la pesante mano sulla sua spalla, pensò che qualche cavaliere si dovesse essere infastidito per la sua presenza estranea. Invece si voltò e si trovò faccia a faccia con suo padre. Il breve sguardo perplesso con cui la scandagliò, la indusse ad osservarsi e si ricordò solo in quel momento che sarebbe dovuta andare a cambiarsi già da parecchi minuti.

“Ehm... ti chiedo scusa, io... mi ero dimenticata...”, cercò di giustificarsi.

“Come sempre”.

Il tono di suo padre la lasciò quanto mai sorpresa. Di solito utilizzava quelle parole per rimproverarla e, quasi sempre, alle parole seguiva una schiarita di gola, segno inconfondibile della pazienza ormai terminata. Invece questa volta il tono di voce era calmo, dolce, e la ragazzina osservò incuriosita il volto del padre, in cerca di una spiegazione. E vi trovò un'espressione malinconica, un inequivocabile addio che Elimond le stava lasciando. Perché non avrebbe sprecato molte parole per congedarsi dai suoi figli, lei lo sapeva bene, e quello sguardo portava con sé l'affetto di mille abbracci e mille saluti.

Ma poi, come una staffilata improvvisa, Elimond parlò: “Ho parlato con Decan Dayne. E' d'accordo per il tuo matrimonio con suo figlio Marq”.

Gael sentì una stretta allo stomaco. Sapeva che suo padre le avrebbe combinato un matrimonio, soprattutto in vista del suo allontanamento da Lancia del Sole, ma l'affermazione rese reale quella che fino ad allora era solo stata un'ipotesi per lei lontana, evanescente. Conosceva abbastanza bene Marq Dayne ed aveva deciso da tempo che non gli piaceva per niente. Troppo serio per i suoi gusti, troppo interessato alle “cose da adulti”, come definiva, con disprezzo, gli affari di palazzo e la politica. Inoltre era decisamente troppo vecchio. Lei aveva appena otto anni e lui invece andava già per i dodici. Come aveva potuto suo padre scegliere un simile pretendente?

Ma si guardò bene dal protestare, non solo inutile, ma probabilmente anche controproducente. Oltre alla costrizione al matrimonio, le sarebbe toccata anche una punizione. Decise che era comunque ancora abbastanza giovane per poter rimandare il pensiero agli anni successivi, quando sarebbe stata in età da marito. Età che in quel momento le sembrava infinitamente lontana.

Elimond non aggiunse altro e Gael gli fu grata per aver reso la notizia breve a sufficienza per non angosciarla più del dovuto. L'uomo le fece un breve gesto con la mano, per incitarla a sbrigarsi e lei corse verso le sue stanze, dove una cameriera la stava attendendo con un abito di raso giallo in una mano e una spazzola di legno nell'altra.

Mentre la servetta le pettinava i capelli, Gael osservò dalla finestra alla sua destra le pianure che si intravedevano oltre le cinta murarie. Un groppo in gola fu l'ennesimo sintomo della nostalgia che già la stava pervadendo. Avrebbe dovuto abbandonare il caldo e soleggiato sud per una città che, a detta dei più, era fredda e grigia. Aveva anche sentito alcuni ragazzi in uno dei cortili dire che ad Approdo del Re non c'erano cavalli belli e scattanti come a Dorne, ma suo padre l'aveva rassicurata che avrebbe potuto portare con sé Aurora, la sua puledra saura che le era stata regalata per il compleanno passato.

Cercò di rilassarsi, al ritmo cadenzato della spazzola sui suoi lunghi capelli neri, mentre i profumi dalle cucine si facevano sempre più intensi. Ma il groppo in gola non l'abbandonò.

Daeveron

Il banchetto aveva occupato le ore centrali della giornata e, quando i commensali si alzarono da tavola, il sole era già sceso verso l'orizzonte. Ma le ore di luce sarebbero state comunque sufficienti per il piccolo torneo.

Prima ci sarebbe stata la giostra dei cavalieri, per sfruttare al meglio l'illuminazione diurna ed evitare incidenti. In seguito, sarebbe stato il turno dei bambini, momento che Daeveron temeva più di ogni altra cosa.

Assistette agli scontri tra cavalieri come in trance, senza neanche badare a chi stesse vincendo o meno. Sentiva il cozzare delle lance contro gli scudi, il rumore del legno spezzato, i battiti degli zoccoli sulla terra nuda, ma i suoi occhi non vedevano altro che gli allenamenti infruttuosi a cui era stato sottoposto. Per un attimo desiderò sgattaiolare via, cercando di passare inosservato, salire a cavallo e fuggire il più lontano possibile. Era un dorniano, sarebbe sopravvissuto anche nelle terre selvagge. Ma subito comprese come questo assurdo pensiero non fosse neanche lontanamente da accarezzare. Era sì un Dorniano, figlio di antichi guerrieri, ma era pur sempre soltanto un bambino.

Inghiottì amaro e pregò in silenzio, muovendo appena le labbra, affinché il suo turno passasse rapido e il più indolore possibile. Non fu mai troppo lunga l'attesa di quando venne chiamato dal maestro d'armi e gli venne fatta indossare un'armatura imbottita con lo stemma dei Martell ricamato sul petto, gli fu posto in testa un elmo di metallo leggero e gli venne data in mano una lancia a strisce rosse e arancioni. Si sforzò di tenere l'arma salda in pugno, ma la tensione gli faceva tremare la mano. Ciononostante, con estrema determinazione, salì a cavallo e si preparò ad affrontare quell'odiosa sfida.

Di fronte a lui vide posizionarsi un ragazzo decisamente più robusto di lui, che portava sul petto l'immagine di un cervo. La sua mente preparata gli portò alla mente il nome della Casa Baratheon, una casata vicina ai Targaryen. La massa del suo sfidante lo mise a disagio, ma si sforzò di portare a termine quel compito nel miglior modo possibile. Quasi non ebbe il tempo di sistemarsi adeguatamente sulla sella, che la gara ebbe inizio.

I puledri si mossero scattanti l'uno contro l'altro, alzando altra polvere sugli astanti e portando i due contendenti ad avvicinarsi rapidamente. La lancia di Daeveron sembrava allineata abbastanza bene, ma quella del giovane Baratheon lo era decisamente meglio. L'arma si schiantò sullo scudo legato al braccio di Daeveron, che accusò il contraccolpo e si sentì sbalzare dalla sella. Riuscì a stringere le ginocchia a sufficienza per non cadere, ma il primo punto era andato al suo avversario.

Girò il cavallo, deciso a fare ancora meglio. Doveva dimostrare a suo padre che lui non era da meno. Si preparò, questa volta con maggior concentrazione, e durante la carica mantenne lo sguardo fisso sul suo obiettivo. Non avrebbe sbagliato, non poteva sbagliare. E difatti la sua lancia centrò in pieno lo scudo dell'altro cavaliere, ma non sufficientemente forte da frantumarsi, mentre la lancia del giovane Baratheon andò a segno con prepotenza ancora una volta, e ancora una volta schegge di legno schizzarono in ogni direzione.

Aveva perso. Daeveron aveva perso e l'umiliazione bruciò improvvisa in lui. Scese da cavallo con furia, ignorando l'avversario, che, sceso a sua volta, si stava avvicinando a lui per stringergli la mano, come da etichetta.

Sentì vagamente suo padre che gli gridò tra i denti di complimentarsi con Leo Baratheon per la vittoria, poi vide Leo avvicinarsi a lui con la coda dell'occhio, con l'aria soddisfatta del vincitore. La rabbia si impossessò di Daeveron, così improvvisa ed incontrollata che le sue tante ore di meditazione nel tempio svanirono neve gettata al sole del mezzogiorno. Contrasse il pugno che reggeva la lancia, premendo forte il legno contro la pelle avvolta in un morbido guanto, si girò di scatto e colpì con tutta la forza che poteva esercitare il suo braccio. La punta della lancia andò a piantarsi sulla spalla sinistra di Leo, pestando pelle e muscoli e spingendo l'omero fuori dalla sua sede. Il suono sordo della lussazione lo colmò di soddisfazione, ben presto soppiantata però dalla consapevolezza di quel gesto folle. Leo emise un grido di dolore, mentre si afferrava istintivamente la spalla. Il suo sguardo sprezzante si posò su Daeveron, che si sentì schiacciato sotto il peso della vergogna.

I minuti che seguirono furono convulsi e Daeveron sentì mano che lo trascinavano via, lontano dal putiferio che seguì il suo gesto, via fino alla sua stanza, che gli parve improvvisamente fredda e grigia come una prigione. E altrettanto freddo e grigio fu il tono della voce di suo padre, mentre riversava su di lui rimproveri graffianti come la sabbia del deserto gettata sul viso da un vento sferzante e improvviso. E quelle parole cariche di delusione furono l'addio che Elimond Martell riservò a suo figlio.

Gael

Le possenti mura attorno alla Fortezza Rossa erano dello stesso colore vermiglio del sole nella luce del tramonto.

Gael osservò il disco luminoso scendere lentamente oltre la linea dell'orizzonte. Dopo sedici anni, l'immagine delle pianure di Dorne come fiamme brucianti nella luce rossastra riviveva nella sua mente. Ogni giorno provava nostalgia per la sua terra, ma aveva imparato, se non proprio ad amare, ad apprezzare i lati positivi di Approdo del Re.

Quando erano giunti in città, ai tempi del matrimonio di sua cugina Myriah con il futuro re Targaryen, non aveva impiegato molto tempo a rendersi conto come la vita di corte fosse immensamente più complicata rispetto a quella di Lancia del Sole. Daeveron era assorto nei suoi studi e lei prese ad impiegare il suo tempo esplorando il palazzo e i suoi dintorni. Fu per gioco che si ritrovò a raccogliere alcuni pettegolezzi, che riferì a Myriah durante i loro pomeriggi assieme. Trovò divertente spiare le dame di corte, coi loro piccoli e insulsi segreti, per poi riderci sopra assieme alla cugina, che, più grande di otto anni, le faceva un po' da sorella maggiore e un po' da mamma. Ma il divertimento si spense quando, invece del solito pettegolezzo, si ritrovò ad origliare voci femminili che raccontavano di incontri segreti della regina con un giovane cavaliere di una casata minore, che Gael non conosceva né di nome né di vista. Quando si recò da sua cugina per riferirle quello spiacevole pettegolezzo, Myriah, che all'epoca aveva diciotto anni ed era sposata da appena sei mesi, lo trovò squallido e assolutamente denigratorio, ma dovette ammettere di non stupirsene affatto. Gael rimase altrettanto amareggiata e cominciò a comprendere che, se avesse voluto veramente guardare le spalle della regina, avrebbe dovuto farlo da una posizione insospettabile. Fu così che, insieme, decisero di inscenare una piccola discussione, in cui Gael accusava Myriah di essere la causa del suo allontanamento dalla terra che amava.

Da quel momento, i rapporti ufficiali tra le due donne rimasero freddi e scostanti, cosa che sortì i suoi effetti in breve tempo. Le nobildonne più velenose si recarono da Gael per sputare sentenze sulla regina, mentre quelle più pettegole le riferirono ogni sorta di storia, dalle più innocenti ed ironiche, a quelle talmente assurde da non riuscire neanche a comprendere come qualcuno potesse crederci.

Gael si immerse sempre più nelle voci, nelle dicerie, distaccandosi però dalla vita di corte, che cominciava a disgustarla per la falsità e l'ipocrisia che vi regnava. Ascoltava e osservava, ma allo stesso tempo costruiva attorno a sé una barricata di diffidenza sempre più alta ed impenetrabile. Sapeva perfettamente che le persone che più si confidavano con lei, erano anche quelle di cui poteva fidarsi meno. Chi non era in grado di mantenere un segreto con qualcuno, non sarebbe riuscito a mantenerlo neanche con qualcun altro. E con questo pensiero costante, continuava a raccogliere pezzetti di malignità in ogni corridoio, in ogni salotto, per poi unirli come in un mosaico, raffigurante gli artigli pronti a ghermire la tranquillità della famiglia reale, ma anche quella sua e di suo fratello.

Fu proprio mentre si recava da Myriah, in un piovoso pomeriggio della lunga primavera ormai avanzata, che fu bloccata, in uno dei corridoi della fortezza, da un'apparizione. Brynden Rivers, anche detto Bloodraven, le era comparso davanti, facendole intendere col suo solo sguardo che era proprio lei che cercava. Gael sussultò. Aveva già visto Bloodraven, in qualche rara occasione, ed era rimasta colpita dal suo aspetto. Ma trovarsi di fronte l'albino, con quegli occhi simili a braci ancora incandescenti, la mise profondamente a disagio. Ma fu la sensazione di un attimo. Brynden, con un semplice sorriso, sciolse la tensione che si era creata e la invitò a seguirlo in un luogo appartato.

Gael si chiese per quale motivo quel corridoio non potesse ritenersi un luogo appartato ed un campanello d'allarme nella sua mente le fece rivedere tutti gli incontri segreti, o presunti tali, con la regina. Comprese immediatamente, prima ancora che Bloodraven le spiegasse il motivo del loro incontro, che quelle sortite non dovevano essere sfuggite ai fantomatici occhi che popolavano le mura delle fortezza.

Bloodraven fu chiaro e diretto. A lui un paio di occhi e di orecchie in più sarebbero sempre stati utili, mentre a Gael avrebbe fatto comodo una garanzia per la sicurezza dei suoi incontri con Myriah. Chi avesse tentato di complottare contro i reali, avrebbe potuto utilizzarla come strumento per portare a Myriah notizie errate e fuorvianti. Lui le avrebbe garanto informazioni sicure e pulite per la regina, mentre lei avrebbe dovuto fare la sua parte nel contribuire a raccoglierle, quelle informazioni.

Gael fu colta di sorpresa dalla proposta. Si trattava di un patto di fiducia, valore che riteneva cancellato da Approdo del Re (e probabilmente da buona parte del regno). Ma l'offerta di Bloodraven era stata diretta e, in fondo, una parvenza di protezione era sempre meglio di niente.

Decise di accettare. E la barriera si ispessì.

Daeveron

Per Daeveron gli anni passati nella Fortezza Rossa parvero infinito, peggio del più lungo inverno che avesse investito il Westeros.

Più e più volte aveva chiesto al sacerdote del Grande Tempio di essere iniziato come septon, e più e più volte gli era stato risposto che avrebbe dovuto approfondire ulteriormente i suoi studi. Era palese che dietro quella sentenza, c'era una forte volontà nel vedere bloccata la sua possibilità di carriera nel mondo ecclesiastico. Una volontà di cui lui sospettava l'origine.

Quando fu abbastanza grande per prendere il posto di diplomatico di Dorne, i suoi impegni lo portarono spesso a trascorrere anche intere giornate lontano dal suo studio, ma se Daeveron non era un gran combattente, era comunque contraddistinto da una tenacia non indifferente e non tralasciò mai, neppure per un giorno, i suoi studi, a costo di rimanere fino a notte fonda sui suoi amati libri, alla tenue luce delle candele. Quando poi aveva abbondante tempo libero, lo trascorreva nel tempio, pregando incessantemente.

E nelle sue preghiere, in maniera ligia e metodica, non tralasciava mai di ricordare Leo Baratheon, il ragazzo che gli aveva tolto l'ultimo spiraglio di dignità di fronte a suo padre. Pregava la Madre perché tenesse Leo lontano dal suo cammino, pregava il Guerriero perché, in caso di un nuovo, per quanto improbabile scontro, la sua mano non fallisse di nuovo. E, di nascosto alla sua stessa coscienza, pregava lo Sconosciuto perché portasse il ricordo di Leo nell'oblio ed il suo corpo sotto terra.

Diviso tra la pietà che si dovrebbe confare a un religioso ed il desiderio di rivalsa, covò la sua vendetta per anni, fermamente convinto che dietro i suoi recenti fallimenti si muovesse la mano infierente dei Baratheon. Era certo che Leo non lo avesse perdonato per quella dolorosa ferita, che probabilmente aveva avuto ripercussioni, anche se non gravi, sul suo seguente addestramento. Ed era altrettanto certo che stesse cercando di fargliela pagare in ogni modo.

Il pensiero di quel giovane uomo, della sua espressione sprezzante, lo tormentava nei ricordi di giorno e nei sogni di notte. A volte la preghiera sortiva da palliativo ed i pensieri di Daeveron si dirigevano verso soggetti più lieti, ma altre volte era inefficace, aumentando il suo tormento.

E ora, mentre saliva le scale verso gli appartamenti di sua sorella, l'ansia era più viva che mai. Il torneo in onore dei dieci anni di regno di Daeron II. Doveva parlarle. Doveva condividere la sua angoscia con chi poteva comprenderlo fino in fondo.

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