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Gli ultimi momenti di Venere, seconda parte, pillole di Radiogenesi (sistema casalingo)


Le Fantome

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Parti precedenti:

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Quando il suono delle sirene incominciò a echeggiare quel dì, le televisioni e le radio di Venere smisero in breve tempo di trasmettere programmi. Ogni canale dava segnale di errore, e l'unica stazione radio che ancora trasmetteva correttamente era la stessa della città. I pochi che avevano ancora accesso alla rete internet notarono che era impossibile accedere ai siti e che i server internazionali non erano più in grado di trasmettere informazioni di sorta. Anche le comunicazioni telefoniche risultavano impraticabili, chi provò a telefonare a parenti o amici di altri stati non riuscì in alcun modo a mettersi in contatto con loro. Perfino la comunicazione satellitare sembrava essersi interrotta, e i pochi satelliti per le comunicazioni che erano sopravvissuti alla guerra fino a quel momento non davano più segni di operatività. Nel giro di un quarto d'ora da quando le sirene avevano cominciato a suonare, la popolazione di Venere era rimasta progressivamente isolata dal resto del mondo. 
Nascosti in un condotto fognario, la studentessa e i suoi compagni continuavano a cambiare furiosamente la frequenza radio, sperando di cogliere un qualche segnale che non fosse il canale musicale cittadino, ma niente:ogni canale della regione taceva inesorabile.

"Dev'essere accaduto qualcosa di terribile..." mormorò uno degli studenti, con un groppo in gola. Fino a quella mattina avevano seguito le notizie di una rete pirata che trasmetteva da uno dei confini vicini alla Cortina di ferro, e che aveva parlato delle esercitazioni nucleari dei soldati sul fronte caldo. Era anche giunta la notizia di un convoglio speciale che trasportava ordigni nucleari per una base missilistica situata nel cosmodromo di Kapustin Jar. Ma ora non giungeva più nulla, neppure della semplice musica di attesa.

"Non possono aver lanciato davvero le bombe..." mormorò un altro studente, incredulo. 

"Ragioniamo... sono passati solo 15 minuti da quando hanno iniziato a suonare le sirene lì fuori... è... è impossibile che i missili abbiano già raggiunto l'Europa!!" esclamò una giovane ragazza, rannicchiata in un angolo sporca di acque nere.

"Lanciandoli dalle basi nel Caucaso, basterebbero meno di dieci minuti per colpire Londra o Parigi", replicò un altro, lugubre.

Nel tugurio sotterraneo, un miasmatico e umido anfratto illuminato solo dalla fredda luce di una torcia elettrica, calò un silenzio tombale.

"Cosa facciamo, Euphemia?" chiese a un certo punto uno degli studenti, rivolgendosi alla studentessa che ormai mezz'ora prima li aveva salvati dai soldati che presidiavano i magazzini alimentari della città.

La ragazza, che era rimasta muta fin da quando aveva avuto quel confronto con il Colonnello, scosse il capo: "Perché me lo chiedi? No lo so, non so niente" e si mise le mani fra i capelli: aveva i denti serrati e gli occhi chiusi in un'espressione di viscerale dolore. Iniziò a piangere silenziosamente, in preda allo smarrimento. 

Dopo che le sirene avevano cominciato a suonare, i soldati, impanicati, avevano rotto i ranghi: il Colonello stesso si era seduto sul carro armato, sprezzante del suono delle sirene. Continuava a dire che era destino morire nel fuoco, come in preda a un qualche delirio. 
I suoi uomini erano corsi a cercarsi un riparo, consapevoli che la città rischiava di essere disintegrata da lì a pochi minuti: non erano più disposti a servire il regime, l'istinto di sopravvivenza aveva preso il sopravvento sulla paura che avevano dei loro padroni. 

Gli studenti ne avevano approfittato per scappare giù dal ponte in direzione opposta, per cercare rifugio in uno dei condotti fognari che giornalmente scaricava liquami neri nel fiume sottostante: vi si erano inoltrati nonostante l'odore disgustoso e un paio di loro avevano anche vomitato poco dopo aver varcato quella nauseante soglia.

Poi, una volta trovato un anfratto meno umido e ripugnante, vi si erano rannicchiati ad ascoltare in febbrile attesa la radio. Ma non era giunta nessuna notizia, solo uno snervante ronzio su qualsivoglia frequenza provassero a impostare che non fosse quella cittadina. 

"..."

Euphemia ad un certo punto aprì gli occhi: si era forse addormentata? Non ne era sicura, ma le era parso di sognare: si era immaginata fuori da quella nauseabonda fogna nera, per le vie della città, insieme ai compagni e ad altre migliaia di persone. Dentro le loro orecchie rimbombava il suono delle sirene, una lagna assordante che la stava facendo uscire di senno. Sopra di loro vi erano delle scie luminose, forse dei missili nucleari in arrivo dal blocco sovietico. E poco prima che i missili potessero impattare al suolo e disintegrarli in un inferno di fuoco atomico, un sole luminoso aveva avvolto le loro teste: ma non era un semplice disco di luce, pareva un ingranaggio angelico con sei paia di ali, un serafino biblico, tanto sublime quanto perturbante nella sua aliena magnificenza.

La ragazza si alzò barcollando: si appoggiò al muro e le venne un rigurgito. Cadde in ginocchio tenendosi le viscere e vomitò. Doveva uscire da quell'anfratto disgustoso, si stava intossicando. Uno dei compagni le si avvicinò e la prese sottobraccio: "Vieni, usciamo. Le sirene non suonano più". 

Camminando lentamente, i due studenti uscirono dal pozzo nero. Euphemia respirò a pieni polmoni: l'aria fetida di Venere non le era mai parsa così fresca. La ragazza alzò dunque lo sguardo al cielo: sopra le loro teste vi era una plumbea coltre grigia, che non permetteva di scorgere il sole.

"Non... non è successo nulla?" mormorò, incredula.

L'amico che la sorreggeva non rispose. Euphemia lo guardò, interrogativa. Lui si limitò a indicarle il punto più lontano che era possibile osservare da dove si trovavano, precisamente il punto di scarico delle acque reflue nel mar Adriatico. Aveva un'espressione strana, di confusione mista a orrore. 

Quando la studentessa rivolse il suo sguardo al mare, sul suo volto si dipinse la medesima espressione: il mare non vi era più. Solo un'immensa distesa desertica, a perdita d'occhio fino alla linea dell'orizzonte. Euphemia strabuzzò gli occhi e si sforzò di cogliere le città sulla costa, di solito a malapena visibili: non riuscì a cogliere nulla, solo un deserto senza fine.

"Non è possibile... non c'è più nulla... nulla..!!" mormorò il ragazzo, mettendosi una mano fra i capelli, tremando.

La studentessa continuò a guardare quella sublime desolazione come rapita: ancora non si capacitava di come fosse possibile che il mare non ci fosse più, cosa poteva aver fatto evaporare una tale quantità d'acqua in così poco tempo? Immaginò svariate detonazioni nucleari di immane potenza, un'apocalisse di fuoco e fiamme. Eppure... non poteva essere successo davvero, altrimenti anche Venere sarebbe stata ridotta in nient'altro che cenere. 

Dopo una decina di minuti di religioso silenzio, i due studenti decisero di andare a richiamare i compagni per rassicurarli a uscire fuori. Non sapevano bene neppure loro come comunicare ciò che avevano visto, erano ancora sconvolti.

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Sulla cima del palazzo del potere, in una delle anticamere della sala della guerra, la donna senza baffi ma con i capelli e l'uomo con i baffi ma senza capelli erano sconvolti. 

"Devo aver avuto un'allucinazione" mormorò la donna, continuando a guardare con gli occhi sgranati il deserto sconfinato che circondava Venere: dall'alto era ancora più evidente che erano stati l'epicentro di almeno una dozzina di detonazioni atomiche. Eppure –eppure!– la città era ancora integra, come se una barriera invisibile avesse circondato le sue periferie proteggendola dal calore e dal fuoco atomico.

"Ho visto anch'io quella luce..." mormorò l'uomo, appoggiandosi al muro. Le parole gli erano morte in gola, non sapeva che altro dire.

"Dov'è finito il mare...?" mormorò dopo qualche minuto la donna senza baffi, con il volto spiaccicato sul vetro. Sembrava estraniata dal mondo, aveva le pupille che sembravano fissare un punto vuoto dinnanzi a se. Poi osservò un piccolo fiocco di neve cadergli di fronte al naso, al di là del vetro. Alzò gli occhi e vide tanti altri candidi fiocchi di neve. 

"Neve...?" biascicò. Non riusciva ancora a razionalizzare cosa stesse accadendo.

"Non è neve... è particolato radioattivo" mormorò lugubre l'uomo senza capelli. Poi si stravaccò sul divano lì dietro, visibilmente stravolto: "Forse è solo un incubo a occhi aperti…" e chiuse gli occhi, sentiva un gran bisogno di dormire.

La donna senza baffi invece si rannicchiò vicino alla finestra, e rimase a guardare la città e il deserto circostante coprirsi di un candido manto per ore intere. Nella sua mente si susseguirono pensieri confusi e contraddittori: cos'era successo? Aveva visto una luce nel cielo, e poi al di là di quella luce era successo un pandemonio. Ma cosa aveva visto davvero? Non era in grado di dirlo. Forse aveva solo sognato, eppure qualcosa doveva esser accaduto: il mondo lì fuori non c'era più, il mare, le città sulla costa… Nulla vi era più, neppure il sole in cielo. Il mondo dell'uomo era scomparso, eppure lei era ancora lì, in quella labirintica città. Cosa sarebbe successo ora? Mentre suonavano le sirene era stata pronta a morire, forse, ma ora che era ancora viva sentiva il cuore esploderle nel petto. Aveva di nuovo paura. Non era più pronta a morire.

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(Viandante nella periferia di Venere poche ore dopo la catastrofe nucleare. Illustrazione di Bob Orsillo)

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Per il momento la tradizione della Venere prebellica si conclude qui.

Un ringraziamento enorme a Licet_insanire, per il suo costante aiuto nella stesura di questo blog! ❤️

E un grazie anche al lettore che fosse arrivato fin qui nella lettura! 

Modificato da Le Fantome

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