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Wolf

Circolo degli Antichi
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Messaggi inviato da Wolf

  1. Hai presente le icone messaggio tipo il borg, l'alieno ed il pacchetto regalo? ecco quelle sono solo da mod/admin... se ne potrebbe fare uno (o più) solo da wyrm 8magari al posto del foglio bianco di testo come icona predefinita...
    Ah ok capito, non me n'ero mai accorto. :-p:lol:

    Ecco, quello magari sarebbe carino.

  2. Mamma mia che brutta cosa la vecchiaia, eh Wolf?! :lol:
    :lol:

    Più che altro l'influenza, sono in condizioni critiche oggi, capisco veramente poco.

    no, essendo il topic aperto fino l'8, si aspetta il 7 per iniziare a votare. ;-)
    :think:

    Cioè posso iniziare a votare il giorno prima della chiusura? :confused:

    No mi sa che ho capito male io. :-p

    Se è cosi bannami pure per la giornata di oggi e torno a postare domani, quando l'avrò smessa di dire ca22ate. :lol:

  3. .. come emoticon personalizzate (ad esempio) ..
    :lol: :lol:

    Sei inguaribile! :lol:

    o il nome color ORO (se non personalizzabile)
    beh..in realtà c'è già lo scudo da wirm a fare questa differenza...

    o una icona messaggio "da wyrm" che slo i wyrm possano usare (se ci sono quelle da mod possono esistere anche quelle da wyrm)... :think:
    Questa non l'ho capita.
  4. alla faccia: da 400 a 322 :doh: ma i moderatori mi vogliono cosi` bene? :cool:

    bè, più bene a te he a me sicuro.

    da 253 a 187 O_o

    Io credo di essere passato da 350 circa a 220..cavolo, i moderatori mi adorano. :mrgreen:

    In compenso sto sulle palle agli utenti.. :-p

    Cmq con questo post ho notato che ora facendo un quote di un post che ha già un quote all'interno, si riportano entrambi, come in una vecchia versione del forum.

    E' voluto o dimenticanza fù? ;-)

    EDIT

    Anzi no..mi sa che ho fatto casino io con i click in vari post. :-p

  5. Assolutamente no! Quello che conta sono i caratteri battuti (tra cui rientrano gli spazi).
    Uhm..non ne sarei cosi certo.

    I dati salvati a db vengono convertiti in caratteri html che occupano anch'essi caratteri.

    Quindi teoricamente un <br /> può occupare posto (poi dipende da come vengono salvati).

    Ma ad esempio ieri il mio racconto che era 19992 caratteri in word, una volta messo sul forum mi era diventato da 20330. ;-)

  6. Quando hai settato i permessi della cartella principale hai spuntato, se c'è, l'opzione "applica permessi ai file contenuti"?
    Yes.

    Cmq ora sto ricontrollando il codice php.

    Forse non funziona, su questo server (non chiedetemi perchè: preso i file e spostati da un pc all'altro, con stesso php, stesso apache e stesso mysql, ma mi pare dia problemi)

    Ora verifico, poi vi faccio sapere.

  7. Chiedo a voi che magari me ne tirate fuori.

    Situazione: pc con Win2k, NTFS, che fa da server Apache (apache, php, mysql installati).

    Non chiedetemi perchè uso win e non linux, è contro la mia volontà.

    Tutto funziona, riesco ad accedere in remoto ai siti messi dentro al server e php funziona per le modifiche a DB.

    L'unica cosa che non va è l'upload di file tramite php.

    Lo script php è corretto, ne son certo al 100% (i siti erano su un altro server e funzionavano).

    Quello che ho capito è che è un problema di permessi in scrittura (con un test mi dice che non può scrivere).

    Ora, io ho settato i permessi della cartella con "controllo completo".

    Quando da rete da un altro pc controllo le cartelle nelle quale devo scrivere fa qualcosa di strano: se seleziono più cartelle alla volta e controllo le proprietà la spunta su "solo lettura" non c'è. Se controllo una cartella alla volta c'è, ma è grigietta. Se la tolgo e applico quando ricontrollo ritorna.

    Mi sa che sbaglio qualcosa nell'assegnare questi maledetti permessi.

    Sapete aiutarmi?

  8. John stava camminando nel boschetto del parco, la solita passeggiata serale.

    Stava bene questa sera.

    Aveva mangiato discretamente, e la calda serata di Giugno offriva una temperatura apprezzabile.

    Indossava una camicia marrone a righe bianche, alla quale mancava purtroppo il bottone del polsino sinistro; nel taschino davanti al cuore teneva un accendino di quelli che i marocchini suoi amici vendevano nei parcheggi, a forma di cellulare.

    Tutto sommato stasera non poteva lamentarsi di non avere una casa, di non avere una famiglia o un lavoro.

    Andava quasi tutto bene.

    Quasi.

    Purtroppo da un paio di settimane non trovava altro paio di scarpe che quelle che aveva ai piedi ricevute dai preti grazie alle cose che i fedeli regalano ai più poveri, al posto di buttare.

    Il problema era che erano un paio di mommut: pesanti stivali da neve, foderati in soffice stoffa che teneva il calore tutto all'interno, senza far passare aria.

    Faceva un caldo dannato la dentro, e non aveva molte occasioni di lavarseli, quei piedacci.

    Scosse il capo, dicendosi di aspettare ancora, finché la fortuna non gli avesse sorriso, e intanto si inoltrava in un altro sentiero tra gli alberi, con la leggera brezza a sfiorargli il volto.

    Due innamorati si baciavano affettuosamente, su una panchina poco più in fondo.

    Si ricordò di quando, da giovane, si era trovato nella stessa situazione: le gentilezze, la coetanea, la cosa che si era fatta cosi travolgente da ritrovarsi quasi nudi..

    I due ragazzi lo scorsero e si alzarono in tutta fretta, spaventati da quest'omone che li osservava e lui riuscì a vedere solamente il volto della ragazza e quel simpatico neo sulla guancia sinistra.

    Si avviò verso la panchina, si sedette e tossì.

    Poi lentamente si sfilò entrambi gli stivali.

    E il piacere lo avvolse, nel sentire l'aria fresca resuscitargli i piedi mentre li distendeva sulla panchina.

    Si sentiva finalmente in pace con se stesso.

    Non capiva quei ricconi, che avevano bisogno delle piscine, dei massaggi, dei bagni termali, dell'alcol o della droga, per sentirsi bene.

    No, bastava togliersi un paio di mommut dai piedi, per essere felici.

    Tra un pensiero e l'altro John si addormentò.

    Si svegliò a notte fonda, di soprassalto. Si guardò frettolosamente attorno, allarmato, fino a che vide un uomo in lontananza uscire dal parco correndo. Stringeva qualcosa in braccio, o cosi gli sembrò nel vederlo passare sotto al lampione acceso. Forse era un ladro che aveva rubato qualcosa a qualcuno, ma lui non aveva niente da temere, non aveva cose da rubare.

    Cosi pensava, fino a che non si accorse che gli era rimasto un solo mommut.

    Aprì gli occhi di scatto.

    Alzò la schiena dal letto, nella sua camera disordinata e sporca al 16° piano del condominio più scalcinato della città.

    Gli venne subito in mente d'averlo fatto di nuovo.

    Si mise a piangere seduto sul materasso a molle, cigolante sotto i suoi singhiozzii, come a volerlo accompagnare nel suo dolore.

    Dopo 5 minuti si alzò in piedi, gli occhi gonfi di lacrime.

    Aprì l'armadietto:dentro c'era tutta la sua collezione di mommut.

    Erano 42, con quello, come il numero dell'ultimo paio che aveva rubato la sera prima.

    Ed erano tutti rubati in anni malattia.

    Era un cleptomane, ma s'interessava solo di mommut.

    Strana fissazione la sua che da tempo non andava più in montagna.

    Il dottore diceva che presto sarebbe guarito.

    Pablo si mise i pantaloni che erano buttati sulla sedia dalla sera prima, indossò la felpa del Che, prese il paio di mommut e dopo aver inghiottito una tazza di caffè della sera prima uscì di casa, sbattendo la porta.

    Destinazione dottore pensò, a fargli vedere per cosa il comune lo paga, a cosa serve il suo lavoro.

    E poi sarebbe andato direttamente a lavoro, al suo amato autobus che gli impediva di dedicarsi a quei maledetti mommut.

    La giornata sembrava una come tante, come era già successo.

    Ma gli istanti successivi della vita di Pablo furono qualcosa di imprevedibile, un turbinio di eventi sconnessi e improbabili che portarono ad un ineluttabile perdita.

    I fatti andarono cosi: entrò nell'ufficio del dottore inveendo contro il suo lavoro, scagliando le calzature contro il mobile di vetro dei medicinali, spintonando la grassa infermiera che voleva intromettersi per fermarlo, correndo a perdifiato tra la gente, nella strada, con la mente confusa e incerta.

    Pochi istanti ed era nel Suo autobus, al Suo posto di guida, con il Suo berretto e la Sua divisa indossati in tutta fretta, con la Sua mano destra sul pomello delle marce.

    Fino a quando, pochi isolati dopo, nel Suo tragitto abituale, salì nell'automezzo un pazzo.

    Iniziò a farneticare strattonando gli altri viaggiatori e urlando contro Pablo, del destino che ci governa tutti, del dito invisibile che ci punta dall'alto, della mano che manovra le nostre azioni, delle indicazioni che dobbiamo seguire in ogni attimo della nostra esistenza.

    E poi estrasse un coltello da cucina, tra le urla spaventate dei passeggeri sconvolti nella loro pacata routine, e si avventò verso l'autista che lo guardava rapito da quelle parole senza senso che però davano una spiegazione alla sua attrazione verso quegli orrendi mommut.

    Si, orrendi.

    Quando Pablo si svegliò nel letto d'ospedale poté leggere, nel quotidiano riservatogli dal dottore d'ospedale, l'articolo in cui si narrava la sua mutilazione mentre era alla guida dell'autobus numero 2, dove gli furono rubate 2 dita (indice e medio) della mano destra.

    Il folle, era ancora in fuga.

    Gli bruciavano gli occhi, a Juan, nella notte.

    Erano due giorni che non dormiva, braccato dalla polizia.

    Le dita le teneva ancora in tasca, fredde come la notte che l'avvolgeva, tetre come i pensieri che da sempre insidiavano la sua mente.

    Juan si alzò, nel vicolo di città, infreddolito, in cerca del suo contatto.

    Sentiva le sirene riecheggiare nella notte: la polizia lo cercava ma non l'avrebbero mai preso.

    Il commissario Malisette ancora una volta non l'avrebbe trovato, come non ci era riuscito negli ultimi 10 anni. Quelle dita erano l'ultima consegna del suo mentore, l'ultimo sporco lavoretto per ripulire questo mondo fetido, un sacrificio necessario per l'ordine generale.

    Le estrasse dalla tasca, le rigirò tra le proprie, controllandole bene.

    Si, aveva fatto un buon lavoro.

    Si incamminò verso il palazzo fatiscente in fondo al vicolo, tra bidoni d'immondizia e barboni addormentati in attesa di una giusta e meritata morte. Sapeva di essere controllato, dall'alto, dai portatori di morte e tranquillità che la notte vivevano tra i tetti.

    Gli unici ad aver assoggettato il fato ai propri servizi, per dispensare riposo e sofferenza.

    Arrivò davanti al grande portone centrale, con i due anelli in ferro ad altezza degli occhi.

    Un bidone dell'immondizia bruciava poco distante, mentre all'improvviso scattava l'allarme di un auto, un riccone utopista in cerca di giustizia probabilmente.

    Si sistemò lo spolverino nero, ancora tutto acciaccato dal mancato riposo; diede una scossa ai capelli unti, nel vano tentativo di rendersi presentabile, e poi afferrò l'anello di sinistra e lo battè con forza contro il legno massiccio.

    Sentì l'eco all'interno, come un macabro rintocco di campana, nei trenta piani del palazzo imponente.

    La porta si aprì qualche istante dopo; attese che gli occhi si abituassero alla densa oscurità ed entrò giusto in tempo per notare l'ombra dell'uomo che aveva aperto sparire in una stanza.

    Fece qualche passo all'interno, con calma; prese fiato, e poi iniziò la lenta e lunga salita delle scale, fino al dodicesimo piano, dove sapeva che lo stavano attendendo.

    Giunto finalmente a destinazione, con il fiato corto e la maglia sudata, entrò nella prima stanza di sinistra.

    Non trovò quello che si aspettava: la stanza era fiocamente illuminata e dietro alla scrivania c'era un uomo seduto che non aveva mai visto, con di fianco due gorilla imberrettati, vestiti di nero, con occhiali scuri nella notte fonda.

    L'uomo aveva capelli lunghi e albini, pelle dal colore naturalmente arrossata, mani fine e affusolate, e un aura attorno molto poco raccomandabile.

    Esitò, sull'uscio.

    La voce giunse flebile e gelida: “Accomodati”.

    Vide un ombra appena accennata allungarsi sotto ai suoi piedi, da dietro, e capì di dover obbedire.

    Si fece avanti deglutendo, con l'improvvisa certezza di aver sbagliato qualcosa, stanotte.

    “Hai quello che aspetto?”

    Juan si guardò attorno, e notò altre figure sedute sulle poltrone che facevano da arena alla scrivania.

    Annuì con il capo.

    “Bene”. L'uomo si alzò in piedi, leggero.

    “Come lei si sarà accorto, Juan, stasera non c'è come al solito il signor Calamiat ad attenderla, ma ci sono invece molte persone”. L'uomo gesticolava molto, parlando, come se stesse recitando ad un'apparizione teatrale.

    Con gesto scenico accompagnò la sua affermazione indicando a braccia larghe tutti i presenti.

    “E non si è chiesto perchè?Non si è chiesto dove si trova Calamiat?”

    Fece una pausa d'effetto, nella quale Juan cascò.

    “Io..”, azzardò proferire..

    “Taccia!”.

    Venne interrotto bruscamente, e si rimangiò la lingua.

    “Le spiego io, cos'è lei!”

    C'era molto disprezzo, nella voce dell'uomo. Guardava a terra, mentre parlava, con i capelli bianchi cadenti attorno agli occhi.

    “Lei, Juan, è un uomo che da anni vive nelle ombre, che spera che un futuro migliore arrivi, risorto e risanato dagli stessi che lo stanno distruggendo ogni giorno, che le danno missioni senza senno che lei prontamente assolve; lei è un uomo che non si accorge di essere la malattia che obbliga la città ad assumere anticorpi, che non si accorge di essere un reietto dalla società perché lei stesso la disprezza e la evita.

    Lei, Juan, sta cercando da anni un apertura nella bara che si è costruito con le sue stesse mani.”

    Fece un altra pausa, ma questa volta l'effetto era di lasciar decantare le proprie parole, di farle assimilare alla platea udente, di far scendere una nebbia di ammirazione per la propria arringa.

    “Ma questa sera..questa sera..”. Finalmente lo guardò dritto in faccia, diretto.

    “Ebbene, Juan, questa sera tutto finisce. Questa sera ritroverà la strada tanto cercata, la giusta medicina ai suoi dolori, l'assoluzione dalla società: questa sera c'ha portato dal suo mandante, e tutto finisce finalmente qui.”

    Juan era confuso, ancora non capiva che stesse succedendo.

    L'unica cosa che gli venne in mente fu di infilare una mano in tasca, ed estrarla con il palmo verso l'alto, a mostrare tutte le sette dita di cui disponeva in quel momento.

    L'uomo scoppiò a ridere fragorosamente, mentre dall'ombra alla sinistra di Juan il commissario Malisette faceva capolino sorridente, alzava la mano sinistra che impugnava la Glock e la puntava alla fronte del povero Juan.

    Il delinquente provò ad alzare le mani in gesto di resa mentre il proiettile gli trapassava il cranio e nelle orecchie risuonava quella risata sempre più gelida, sempre più metallica, sempre più silenziosa.

    Qualche ora dopo la camionetta della polizia stava portando via il cadavere necessario del pazzo mutilatore del bus, e una decina di malviventi arrestati nella nottata.

    Le due dita erano state rinvenute, assieme ad altre dieci coppie tra indici, medi e anulari, conservati in un piccolo freezer.

    I legittimi proprietari vennero avvertiti il giorno dopo, ma a Lisa, dei coniugi Loisonne, e Anne, moglie di Julien Salsi, dovettero dare la triste notizia del mancato ritrovamento delle fedi nuziali.

    Il sole splendeva, in quell'assolata mattina di Luglio.

    La folla s'accalcava attorno alla chiesa agghindata a festa, in abbracci e saluti di parenti lontani che si vedono una volta l'anno.

    Marco era in piedi in entrata, la profonda e ampia navata della chiesa alle spalle, abbracciato da due portoni di legno massiccio tirati a lucido per l'occasione.

    Affrontava i convenevoli come d'uso, stretto nel suo abito elegante comprato appositamente, il bianco papillon al collo e le scarpe di pelle nera a riflettere i raggi del sole.

    Tutto sommato, anche se stancante, era una giornata gioiosa per lui.

    Stava per sposarsi.

    Eh si, quel giorno era il suo giorno.

    Suo padre già sedeva in prima fila davanti all'altare, stretto probabilmente tra i ricordi di sua moglie (e madre di Marco) morta qualche anno prima. Le sarebbe piaciuto esserci quel giorno.

    Marco poteva dedicarsi al divertente compito di accogliere tutti gli invitati, parenti e amici sia suoi che della sua futura moglie.

    Ormai mancava poco però, e si congedò dal pubblico con un saluto gentile e garbato, per andarsi a dare le ultime sistematine generali.

    Dopo mezz'ora si presentò di fianco all'altare, pettinato alla perfezione, con il trucco sistemato.

    Era accompagnato dal fratello, Silvio, a far da testimone, e suo padre sedeva sorridente a qualche passo da lui.

    Si osservò attorno, mentre la musica dell'organo riempiva calorosamente le ampie volte della chiesa coprendo a malapena il brusio degli invitati.

    Notò con gioia, in seconda e terza fila, tutti gli invitati che più attendeva: erano in divisa d'ordinanza da festa, seduti e con il berretto appoggiato alle ginocchia.

    Lo guardavano scambiandosi battute pungenti al suo indirizzo, schernendolo e pensando agli scherzi che sarebbero seguiti.

    Tutto il reparto di polizia nel quale lavorava lo stava osservando sposarsi, intimamente felici per lui.

    Marco lo capì, e sorrise felice.

    Guardò oltre la navata, oltre il portone.

    La luce del sole entrava luminosa, splendente, a testimoniare la gioia del momento, la gioia nel suo cuore e quella che probabilmente stava giungendo la, con la sua ragazza Elisa.

    Davanti alla chiesa non passava nessuno, la strada sicuramente mantenuta sgombra dai suoi colleghi per l'occasione speciale.

    Due colombe passeggiavano sugli scalini, raccogliendo briciole o chicchi di riso rimasti a terra dai precedenti matrimoni.

    Poi d'improvviso presero il volo, eleganti.

    E Marco vide giungere la limousine che le aveva spaventate, segno che era dunque giunto il momento.

    Guardò agitato e con aria interrogativa suo fratello, che gli stava alle spalle: lui rispose con un cenno del capo e uno sguardo a dire “con chi credi di avere a che fare, certo che ho l'anello”.

    Marco si agitò ancor più, a pensare a quell'oggetto, a tutto ciò che implicava,a quella sera di un mese prima..

    Ma la musica di rito cominciò, come una benedizione solenne a ufficializzare l'inizio della cerimonia, a ripulire i suoi pensieri e le sue preoccupazioni.

    La gente si alzò tutta in piedi, più di 1000 persone nell'ampia chiesa unite in un unico movimento dal desiderio di felicità suo e di Elisa.

    I suoi compagni di reparto erano dritti come statue, come ai corsi per ufficiali, con il cappello sotto al braccio, solenni più della musica stessa.

    Si sentì orgoglioso di far parte di quel gruppo, mentre un gusto amaro gli scendeva in bocca.

    Scosse la testa, e si concentrò sul momento che stava vivendo. Era stato bravo a rimanere lucido, finora.

    Dall'altra parte della chiesa vide il padre di Elisa farglisi incontro, dondolante nei suoi 140 chili fasciati da un abito elegante fatto su misura.

    Era un uomo buono, ed era felice in questa giornata.

    Marco pensò che forse non si meritava...

    No.

    Concentrati.

    E finalmente la vide entrare in chiesa, luminosa nell'abito bianco come il latte, candido come la sua anima.

    A Marco si illuminarono gli occhi nel vederla avanzare con il volto coperto dal velo semitrasparente: sotto di esso un sorriso splendido rischiarava la chiesa, facendo impallidire il sole.

    Si avvicinava sotto braccio al padre, figurino da modella di fianco ad un corpo deformato dall'adipe.

    Arrivò a pochi metri da lui, camminando sulle note della solita melodia nuziale, mentre lui le allungava una mano a prendere la sua..

    “PORCOOO!”

    La voce giunse da dietro Elisa, chiara, nitida e, purtroppo, tremendamente familiare.

    Un nodo impressionante gli salì dai piedi alla gola, a stringerlo in una presa mortale, mentre si ritrovava a sperare di aver udito male, di essersi sbagliato facendosi prendere dall'agitazione.

    “MALEDETTOOO!”

    No.

    La conferma arrivò, specchiata negli occhi di Elisa ancora più stupita di lui mentre iniziava a voltarsi per vedere.

    Tutta la chiesa ebbe modo di guardare una pazza avanzare nella navata.

    Solo Marco la conosceva, purtroppo.

    Avanzò spedita, senza rivolgere uno sguardo a nessuno, con una camminata da camionista.

    Stringeva qualcosa nel pugno sinistro, mentre la mano destra la usò per stampare uno schiaffo di tremenda potenza al volto di Marco.

    Elisa urlò spaventata, ma lui non l'aveva neanche sentito il colpo, troppo stralunato da quello che stava per accadere, dall'improbabile che si trasformava in realtà.

    “Che ci fai qui tu? Che accidenti ci fai tu qua?”, disse boffonchiando, senza volerlo sapere.

    “Che ci faccio io? che ci faccio IOOOO?”

    “Maledetto porco, sono venuto a restituirti l'anello che mi hai offerto ieri sera, quando mi hai chiesto di sposarti!!”

    Un coro di voci scandalizzate accompagnò il volo dell'anello luccicante diretto a colpirlo sulla fronte.

    Elisa urlò di rabbia e dolore, in lacrime; poi prese il proprio anello e glielo scagliò contro, scalfendolo nuovamente in fronte e correndo poi fuori dalla chiesa verso quella porta che sembrava ormai l'uscita di un tunnel, verso una luce che non si azzardava più ad entrare ma si limitava ad illuminare la verità.

    Stefano Sizzi, capo di Marco, con i capelli bianchi albini e la pelle rossastra, si era disinteressato alla scena e osservava incredulo i due anelli a terra, assolutamente isolato dalle voci che lo circondavano e dal corpo di 140 chili che si avventava sul suo collega Marco.

    Lui in quel momento stava osservando i reperti numero 48 e 76, mancanti all'appello nell'azione del mese precedente, che Lisa, dei coniugi Loisonne, e Anne, moglie di Julien Salsi, stavano aspettando da tempo e che non erano mai arrivati, dati per dispersi.

    Marco li aveva dunque fatti sparire in quella sera di Giugno, per uno scopo macabro che prevedeva due proposte di matrimonio premeditate, a ferire due cuori rubati da tempo.

    Ci mise poco a fare due più due e ricordare che il padre di Elisa era tanto malato quanto ricco, e presto avrebbe ereditato un sontuoso patrimonio; c'avrebbe scommesso che, a indagare, anche l'altra ragazza si sarebbe rivelata di buona famiglia.

    Rimase incredulo ad osservare come l'avidità di qualche sciocco possa strappare sentimenti importanti a cuori sinceri, lasciandoli svuotati e aridi.

    John camminava nella giornata assolata verso la chiesa, consapevole di poter scroccare qualcosa da mangiare in una giornata di matrimoni come quella.

    Camminava dondolando, ma stava benissimo: era ancora senza un momut, sparito ormai da molto e non aveva ancora trovato niente con il quale rimpiazzarlo.

    Era a qualche metro dall'entrata della chiesa, tra auto della polizia parcheggiate ovunque e stava ammirando una costosa limousine, quando notò qualcosa di anomalo: la musica era cessata, dall'interno arrivavano solo grida.

    Poi vide una ragazza vestita non a festa uscire correndo dall'edificio.

    Non capì cosa stesse succedendo e si avvicinò per vedere: pochi istanti dopo venne investito da un altra donna in corsa, questa volta vestita di bianco, in lacrime, che lo travolse.

    Caddero ruzzolando giù dagli scalini, fino ai piedi della vettura.

    Lui non fece neanche a tempo a scusarsi che la donna era già saltata in auto urlando all'autista di partire.

    Gli sembrò di notare un neo familiare, vicino alla bocca della ragazza, ma non ebbe il tempo di pensarci.

    Capì che era il momento di alzarsi e scappare perché molta gente stava uscendo dalla chiesa per rincorrere la sposa.

    Si alzò di scatto e si ritrovo sotto ad un piede qualcosa: la ragazza aveva perso una scarpa, elegante, con il tacco, ma sembrava del suo numero.

    Mentre correva con un mommut al piede e una scarpa da donna all'altro, in un assolata giornata di Luglio, John pensò che era il suo giorno fortunato.

  9. No, per me non è così. Anche un film che racconta una grande storia, ad esempio, non lo giudico solo da quello.

    Cioè, Il Signore degli Anelli interpretato dal cast di Carabinieri... sarebbe passato alla storia come un grande film del trash italiano, al massimo :-D

    Si ma non è interpretato dal cast di carabinieri.

    Come Memento non è stato girato da Pippo con un idea di Clarabella.

    Il film ha la sua bellezza nell'idea di Christopher Nolan, e guadagna punti proprio per quello.

    Se toglie le caratteristiche ad un oggetto non ne resta niente, e non può essere migliore d'altri.

    Son le caratteristiche peculiari, a fare la qualità.

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  10. ciao raga volevo sapere se qualcuno di voi aveva infostrada. io tra poco avrò

    l'adsl infostrada a 8 mega. a quanto viaggia?????

    Va abbastanza veloce??

    Io vado da dio.

    Mai avuto mezzo problema, neanche con l'assistenza, e navigo velocissimo.

    Però di infostrada ho capito una cosa: va a zone.

    Qua in zona mia ce l'hanno un paio di amici miei e anche loro navigano e telefonano splendidamente.

    In altre zone dei miei amici son diventati matti con infostrada perchè non riuscivano a navigare, l'assistenza non li aiutava, ed era una spesa inutile.

    Alla fine hanno cambiato.

    Quindi il consiglio che do di solito è: informati da qualcuno che ce l'ha in zona tua su come va la linea e come si trovano.

    Se ti dicono male, lascia perdere.

    Solo che tu ormai l'hai fatta, da quel che ho capito, quindi: buona fortuna.

    Se ti va bene non avrai di che lamentarti. ;-)

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