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Presunto medium e altri racconti


demiurgo

Messaggio consigliato

C'erano due cose che mi ero prefisso di fare entro fine anno:

1) pianificare la trama e riprendere la scrittura di presunto medium

2) lavare l'auto, che fa schifo

Purtroppo di lavare l'auto non ho avuto tempo ( e checcavolo, ha piovuto in continuazione...)

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Presunto medium

4

Di Marzo si svegliò in un letto che non era il suo. Lenzuola bianche, tessuto spesso, da ospedale. Sgranò gli occhi e pensò di avvertire l’odore del fumo, l’aria arroventata dal fuoco. Il fumo tanto denso da farti lacrimare. Il fuoco non puoi ancora vederlo, ma il soffio cupo delle fiamme che fa tremare il pavimento assicura che l’inferno è prossimo.

Gli era successo altre volte. Dopo pochi istanti di panico si sforzò far muovere le rotelle del cervello secondo logica. Non c’era traccia di incendio. Non si trovava nella stanza della clinica, la stanza che continuava a tornare nei suoi incubi. Era una comune stanza d’ospedale. Teneva le unghie della mano destra conficcate sul lato del materasso, stringendone il bordo nel pugno.

Lasciò gradualmente la presa. La mano destra era ok. Non sentiva la mano sinistra.

L’incidente. Gli st***zi col passamontagna. Ora ricordava. Per questo era lì. Ma da quanto tempo? Respinse l’ipotesi folle di essere entrato in coma e di esserne uscito dopo mesi, forse anni. Stava ancora annusando l’aria: oltre il disinfettante c’era l’odore inconfondibile di cordite, sì, non doveva essere passato molto da quando aveva premuto il grilletto.

Aveva anche sognato. Aveva sognato la vittima, quella della Sala da Bagno, attraverso gli occhi di un uomo che non conosceva. Stava sognando un attimo prima di svegliarsi. Ricordava ogni dettaglio.

Lasciò andare la testa sul cuscino. Aveva un collare antinfortunistico e sentiva pulsare le tempie in un’emicrania da record. Tirò su le mani e le guardò. La sinistra era steccata e fasciata fino al gomito, e dovevano averlo anestetizzato perché non sentiva le dita. Le gambe sembravano funzionare anche se la sinistra era fasciata sotto al ginocchio. Si toccò dietro l’orecchio sinistro: anche lì c'era una garza tenuta ferma da un cerotto quadrato. Non aveva flebo né macchinari attaccati, il che era positivo. Di fianco al letto solo un comodino e sopra due buste di carta. L’unica porta era chiusa, c’erano le tende alle finestre, ma non era del tutto buio, fuori. Sopra la sua testa pendeva una cordicella con il tasto di chiamata. Chiamò.

Mezzo secondo dopo entrarono un poliziotto e un’infermiera. L’agente aveva il muso tipico di chi si è appena svegliato con le palle girate. L’infermiera invece - una ragazza niente male - sprizzava ottimismo. Gli annunciò che era stato fortunato a cavarsela con trauma cranico, polso e un mignolo rotto. Tutto qui. Ah, e c’erano anche una o due costole. Evviva. Oltre a qualche graffio, capirai. Controllò i punti, che tenevano a meraviglia. Ora avrebbe mandato il medico.

“Un attimo” la richiamò Di Marzo. “I miei vestiti?”

“Sono nell’armadio, non si preoccupi.”

“Nella tasca delle giaccone, può controllare, ci sono le mie medicine.”

C’erano. L’infermiera mise due tubetti anonimi nel cassetto del comodino.

“E cosa c’è nelle buste?” chiese Di Marzo.

“La buste di carta? Vuole che guardi?”

“Mh-m”.

Nella prima c’era il suo orologio, che segnava le sei del mattino. Nell’altra due cornetti salati.

* * *

L’orologio sul comodino stimò che fossero le undici quando l’ispettore Cesare Nurro entrò nella stanza di Di Marzo, senza preoccuparsi di bussare. Sotto braccio aveva una cartellina nera, di quelle con l’elastico. Indossava come sempre la divisa d’ordinanza. Il suo sorriso dava alla barba che teneva curatissima intorno alla bocca la forma di un tendone da circo. Di Marzo non l’aveva mai visto così felice. Lo giudicò un segnale negativo.

“Stefano! Come stai?” si ostinava a trattarlo come un vecchio amico.

“Meravigliosamente.”

“Ti ho portato un amico.”

“Ciao” mugolò Coppieri. Entrò anche lui e chiuse per bene la porta, si tolse il berretto e fece il gesto vano di pettinarsi con le mani quel poco che c’era.

Presero posto sulle due sedie di fianco al letto. Nurro era moro, tutto ossa e nervi, l’opposto di Coppieri, biondo, ingombrante. Sembravano un doberman sazio e un sanbernardo bastonato.

“Allora, siamo qui per una chiacchierata informale tra noi” esordì Nurro. “Vorrei capire cosa c***o siete riusciti a combinare stanotte.”

Di Marzo stava per parlare, ma Nurro lo fermò con un gesto della mano. Prese dei fogli dalla cartellina nera, e per la seguente mezz’ora parlò solo lui, ricapitolando il caso di omicidio e gli spostamenti di Di Marzo e Coppieri. Parlava un gergo poliziese stretto, fatto di soggetti ripetuti in ogni frase e tempi verbali congelati nell’imperfetto.

Ogni tanto Di Marzo lanciava un’occhiata a Coppieri per vedere se anche lui si stesse rompendo di quel monologo, ma il sanbernardo non dava segni di reazione emotiva.

Di Marzo apprese che non s’era sbagliato riguardo alla vittima. La donna, che si chiamava Anna Marta Misandrini aveva qurantatré anni. Lavorava come consulente esterna per la polizia scientifica. Secondo la stima del medico legale era morta strangolata verso le otto di sera. Alle undici era arrivata una telefonata anonima alla centrale, da una cabina pubblica non distante dall’appartamento della vittima.

Coppieri era stato mandato sul posto in sostituzione di Nurro, che si trovava fuori servizio e fuori città. A Coppieri era toccato anche il compito ingrato di subentrare all’ispettore andare a prendere Di Marzo e portarlo sulla scena del crimine una volta sgombra dalla folla di agenti. E poi iniziava la parte che già conosceva, la parte del sequestro.

Nel seguito, veniva detto come il vice ispettore Roberto Coppieri fosse arrivato sul luogo dell’incidente pochi minuti dopo e avesse chiamato l’ambulanza per soccorrere il consulente alle indagini. Uno dei due malfattori, quello al volante, era morto sul posto. L’altro in ospedale.

“E tu sei quasi tutto intero, sarai contento, no?” gli disse alla fine Nurro.

“Ma chi erano gli st***zi?” chiese Di Marzo.

“Non lo sappiamo, ancora.”

“Non hai un plico per me?”

“No! Stavolta te lo scordi. Le alte sfere hanno deciso che non c’è bisogno del tuo aiuto in questo caso. E anche tu sei fuori” aggiunse rivolto a Coppieri, “avete già fatto abbastanza.”

A Di Marzo le alte sfere stavano già roteando. E quel fenomeno di Nurro ci godeva.

“Infatti, non è per aggiornarti sul caso che sono qui” riprese l’ispettore. “Sono qui solo per la tua versione.”

Di Marzo raccontò tutto, ma evitò di menzionare il sogno che aveva fatto nel periodo di tempo in cui era stato incosciente. Si arrangiassero, loro e le alte sfere.

Nurro fece un sacco di domande. Poi ripose le scartoffie nella cartellina e fece per andare.

“Stefano, non so se ti rendi conto che quei due col passamontagna volevano rapirti, forse ucciderti. Tu adesso te ne stai buono buono” il sorriso di Nurro si allargò, “e anzi, devi anche cambiare casa, perché forse questi sequestratori ti conoscono, e tu invece non esisti, non devi esistere. Ricordatelo. Te ne stiamo cercando una nuova, puoi anche scegliere, ecco.”

Gli diede due fogli stampati al computer con pessime foto e descrizioni di tre appartamenti.

“Dopodomani esci, per domattina devi decidere. E dovrai anche lasciare il lavoro.”

Di Marzo gli mandò un vaff***ulo mentale, rammaricandosi di non avere il potere di comunicare col pensiero.

* * *

“Grazie per i cornetti.” disse Di Marzo a Coppieri dopo che Nurro fu uscito.

“Sarebbe stato meglio se non fossi sceso dall’auto.”

“Infatti. O forse era uguale.”

“Oh, guarda che mi hai distrutto la macchina, quindi come minimo siamo pari. Ma come ti è venuto in mente di sparare alla gomma?”

Non se l’era sentita di sparare a delle persone. Aveva giurato a se stesso che non avrebbe ucciso più nessuno, e a quanto pare aveva comunque infranto il voto. Ma questi non erano c***i di Coppieri.

“Sono un gommista, anzi, lo ero. Comunque è così che mi procuro i clienti” disse.

“Ma non ti ricordi niente dopo l’incidente?”

“Mi sono svegliato in ospedale.”

“No, eri cosciente anche poco dopo l’incidente, e sei stato cosciente durante il primo soccorso. Un po’ sballato, ma cosciente.”

“Davvero? non ricordo nulla.”

“Boh, sarà stata la botta in testa. Te l’avevo detto di allacciare la cintura. Le costole te l’ha rotte l’airbag.”

“Senti” riprese Coppieri dopo una pausa, “ti lascio il mio numero, se ti serve qualcosa chiama senza problemi.”

Glielo scrisse sulla busta di carta.

Neanche un’ora dopo Di Marzo si accorse che il suo cellulare era tragicamente deceduto nell’incidente. L’agente di guardia, controvoglia, gli prestò il suo telefono.

“Mi serve un favore” disse a Coppieri.

“Sentiamo.”

“Il nuovo appartamento me lo voglio scegliere in base a chi vive nel palazzo.”

“E io che c’entro?”

“Ho delle informazioni sul caso della Misandrini.”

Silenzio.

“Tu dai una mano a me e io ti aiuto a rientrare in corsa per le indagini.”

“Mi sa che ci guadagni solo tu.”

“Che ti costa farti un giro in tre palazzi e informarti su chi ci abita? Tanto sei a spasso, il caso te l’hanno tolto.”

“Ma che ti frega dei vicini?”

“È importante, sei tu che hai detto che se mi serviva qualcosa...”

“Ok, ok. Ma non ho la macchina. Me l’hai distrutta.”

“Tranquillo, puoi andarci in autobus. Visto come guidi, fai anche prima.”

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Scritto al volo, riletto al volo e come tutto il resto da revisionare. Aspetto critiche e consigli, ci conto ;-)

Temo che questa parte possa essere un po' pallosa, ma dovevo comunque dare una serie di informazioni per far "partire" gli eventi. Fin qui Di Marzo è stato vittima degli eventi. Nelle prossime scene però comincierà a prendere l'iniziativa.

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  • 4 settimane dopo...

Posto un racconto che ho scritto poco tempo fa per un concorso (stranamente non ho vinto) :-)

E' un racconto un po' particolare, su cui ho ricevuto opinioni mooooolto discordanti: spero di ricevere anche le vostre; credo si possa definire di fantascienza, anche se non ci sono astronavi e alieni.

Il racconto lo metto come file esterno perchè è un po' lunghetto, 20mila battute circa (bè, non sono poi tantissime, su, coraggio ;-)).

Qui c'è il pdf.

Ciao...

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  • 3 settimane dopo...

Questo scritto nasce da una collaborazione con la corporazione dei lettori. Ognuno ha scritto una storia indipendente partendo da un incipit comune proposto da raemar. I racconti di altri partecipanti (postati finora) a questo "esperimento" sono questi:

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Una bocca da sfamare

La pioggia costante rendeva la strada difficilmente praticabile, come non fosse bastato il peso del corpo che trasportavo ad affaticare la mia andatura. Eppure, non potevo non considerare la pienezza di quella situazione. L'autunno, i suoi venti, i suoi odori, i suoi differenti umori, il sole pallido, la pioggia fine, le diverse gradazioni di bagnato. Mentre mi dirigevo verso la locanda, i capelli appiccicati alla fronte fino a oscurarmi in parte la visuale, mi era impossibile non percepire l'odore dell'erba fradicia, del fango solcato dalle ruote di un carro, del fumo delle abitazioni che portava in strada magri sapori. Il rumore dell'acqua contro la pietra e la terra, l'occasionale pestare di piedi incerti al margine della strada, il vociare confuso oltre le porte sprangate.

Ammiravo la nuvola di vapore che si formava di fronte alla mia bocca a ogni affanno. Ero vivo. Ero sopravvissuto.

Quando giunsi di fronte all'ingresso della Pietra Miliare, trassi un respiro più profondo e lo sputai fuori con la poca forza che mi era rimasta. Entrai e per un attimo il mondo si fermò. Vidi le facce dei presenti, quasi tutti cacciatori, osservarmi stupite. Gunnar, il capitano, era in piedi presso un tavolo ingombro di strumenti da pesa, e squadrava il mio fardello, incredulo. Dietro di lui dozzine di pelli di lupo erano in mostra, appese a una corda lungo il muro.

Stremato, lasciai cadere il corpo dalle spalle al tavolo più vicino e mi accasciai a terra. La stanza si rianimò delle voci dei presenti e, contemporaneamente, tutto divenne buio.

Quando aprii gli occhi, Anna, la locandiera, mi teneva la testa sollevata e mi faceva bere da una ciotola di legno. Il brodo speziato mi restituì un po’ di calore.

I cacciatori erano raccolti intorno a me, ma la loro attenzione era rivolta alla preda, sul tavolo. Potevo distinguere la voce di ciascuno di loro, odorare il vino nel loro fiato. E oltre a questo, riconoscevo qualcosa che prima non avevo mai compreso: il loro sudore freddo, l’odore della paura.

– E' la bestia più grande che ho mai visto.

– Guarda le zanne.

– Questo è il diavolo che ha sbranato i figli del Governatore.

Mi misi seduto, appoggiando le mani sul pavimento gelido. Gunnar si accovacciò davanti a me. Piegò la testa da un lato, rivolgendomi una smorfia disgustata.

– Ragazzo, non vorrai farci credere che l'hai ucciso tu?

Dovevo concentrarmi, ricordare, ma la confusione intorno me lo impediva.

– Non parli? – mi incalzò lui. – Ce l’hai almeno un nome?

– Si chiama Hans – rispose Anna – è il figlio di Frederik.

– Puah! – disse Gunnar. – Sei il figlio di un buono a nulla.

Con l’aiuto di Anna, mi sfilai il mantello fradicio; sentii una fitta di dolore mentre piegavo il busto in avanti.

– Rispondi, idiota! – continuò il capitano. – Dove hai trovato questo lupo?

Alzò il braccio e mi schiaffeggiò con il rovescio della mano. Non feci nulla per evitarlo.

– Hans – Anna accarezzò la guancia offesa – dov'è tuo padre? Eravate nei boschi? E' tornato con te?

Seguii lo sguardo della locandiera fino alla spada che tenevo legata alla cintura. Una spada decorativa, da parata, non una vera arma da uomo. Mio padre la teneva con sé giorno e notte, fin dagli anni in cui aveva prestato servizio nella guardia reale, prima di cadere in disgrazia ed essere cacciato. Quello del soldato era l’unico mestiere che conoscesse. Fu costretto ad arrangiarsi, ma le cose andarono sempre peggio. Infine dovette ridursi a mendicare. Non si separò mai dalla sua spada, ma rinunciò alla dignità piuttosto che condannare suo figlio piccolo a morire di fame. Io, una bocca in più da sfamare. Lo raccontava spesso, ma taceva sempre il motivo per cui l'avevano bandito; ed era meglio non chiedere.

Pensare a Frederik mi fece ricordare ogni cosa.

Il giorno precedente, all’alba, mio padre uscì di casa per dirigersi nei boschi, come sempre da solo. Mi ordinò di aspettarlo, sarebbe tornato l'indomani. Ma prima che il sole fosse alto, io mi decisi a seguire le sue tracce. Avevo troppi sospetti.

Mancava poco al tramonto, quando iniziò a piovere. Avevo perduto l'orientamento, e non trovavo più segni del suo passaggio, che fino a poco prima erano stati fin troppo evidenti. Ma fu lui a trovare me. Sbucò dagli alberi alle mie spalle. Sembrava arrabbiato, ma mi accorsi che stava fingendo; in realtà credo fosse solo rassegnato. Mi intimò di tornare a casa e io mi rifiutai.

Stava per fare buio, allora disse che avrei dovuto cavarmela da solo; alzò quella sua spada effeminata, come per trafiggermi. Invece la piantò nel terreno in mezzo ai miei piedi. Mi rivolse uno sguardo folle, ma i suoi occhi sembravano sul punto di piangere. Si voltò e corse via nel folto degli alberi.

Non attesi a lungo. Il cielo a ponente era ancora velato di rosso quando il lupo mi raggiunse. Ululò e prese a girarmi intorno più volte, a distanza; potevo solo intravvederlo correre nel sottobosco. Le mie mani tremavano, mentre attendevo l’assalto. Infine uscì allo scoperto, puntò verso di me e spiccò un balzo. Chiusi gli occhi e protesi la spada; il lupo schivò e mi attaccò al fianco destro. Gli sferrai un colpo sul dorso, trapassandolo come burro; quindi mi mancarono le forze e svenni. Quella spada di foggia ridicola, di cui mi ero sempre vergognato, era stata la mia salvezza.

Alzai lo sguardo verso Gunnar, e ruppi il silenzio.

– Frederik non tornerà. Ho ucciso io il lupo, la ricompensa spetta a me.

I cacciatori si guardarono, senza una parola. Gunnar s’infuriò.

– Tu, mentecatto! Credi che siamo stupidi?

Dai cacciatori si levarono frasi d'approvazione. Erano settimane che tentavano di prendere quel mostro.

– Pensi che siamo disposti a cedere la ricompensa a un ragazzino? Non l’hai ucciso tu, non ne sei capace! E come? Con questa?

I cacciatori risero, mentre il capitano Gunnar mi strappava la spada dalla cintura. La puntò sulle pietre del pavimento, ci mise sopra un piede e facendo leva con le braccia la spezzò. Raccolse i frammenti e li sollevò per mostrarli a tutti.

– Ecco l'eredità che suo padre gli ha lasciato – disse, e li scagliò nel focolare. Il fragore del metallo sulla pietra non riuscì a coprire quello delle risa dei cacciatori.

– Ben fatto!

– Non avrà la nostra ricompensa!

– Donna – riprese Gunnar – dagli un po’ di zuppa calda, per ringraziarlo di aver riportato il lupo che noi abbiamo ucciso.

Gunnar mi afferrò per i capelli e mi costrinse a guardarlo dritto in faccia. – Mangia e tornatene nella tua baracca. Se non ti farai più vedere, forse dimenticherò la tua insolenza.

Detto questo, mi spinse a terra e mi voltò le spalle, imitato dagli altri.

Digrignando i denti per il dolore, mi misi in piedi.

– Hans – disse Anna – Non devi alzarti con quella ferita.

Il sangue sgorgava dal mio fianco destro, dove erano affondati i denti del lupo.

– Anna – bisbigliai alla locandiera – prometti di fare una cosa per me, senza domande. – Lei annuì, affranta. – Esci dalla locanda, subito. E spranga dall'esterno.

La vidi esitare. Ci guardammo negli occhi, poi lei si voltò verso il tavolo con la carcassa riversa sopra. Anche da morto, quel lupo incuteva timore: un pelo ispido ricopriva il corpo e la testa nera; le orecchie erano come corna di un demonio; la mascella formidabile lasciava sporgere denti incrostati di sangue e bava secca. Entro le orbite rotonde dell'animale, era orribile riconoscere l'occhio dell'uomo.

Anna impallidì, perché forse cominciava a sospettare, e si affrettò ad andare.

Gli altri non badarono a lei, né a me. Erano intenti a preparare la bilancia, e affilavano i coltelli, per ridurre a un trofeo quella che ormai consideravano la loro preda.

Guardai fuori dalla finestra. La pioggia persisteva, il sole giaceva sulla linea che separa il giorno dalla notte. Sentii le mie ossa scricchiolare, la pelle tendersi, il cuore stringersi e battere più veloce.

Mi avvicinai al focolare e raccolsi la spada infranta, inservibile, poi mi voltai verso il centro della sala per fronteggiare i cacciatori. La mia ombra, animata dalle fiamme, li sovrastava e si agitava sul muro in fondo, tra le pelli di lupo. Gunnar e gli altri finalmente tacquero, allarmati, e sfoderarono le loro armi di vile acciaio. Allargai le narici e mi ubriacai del profumo della loro paura. Mostrai la spada d'argento di Frederik.

– Non è solo questa l'eredità di mio padre – ringhiai, mentre la ragione lasciava campo al nudo istinto e alla fame.

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NB: Commenti e insulti sono come sempre benvenuti, per non dire obbligatori, purché sappiate insultare in modo costruttivo e creativo ;-)

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  • 1 mese dopo...

Nanoracconto

All’inizio della guerra pensammo che assumere dimensioni sempre maggiori ci avrebbe portati a una vittoria di forza. Ma tale strategia, come la storia insegna, era fallimentare. Le mega macchine erano destinate a perdere lo scontro con gli uomini: tramite le imperfezioni del loro sistema analogico, essi furono in grado di elaborare soluzioni creative non solo randomizzate, ma realmente aleatorie, e perciò imprevedibili.

La guerra si prolungò oltre ogni ipotesi iniziale, e la scarsità di materie prime si avviava a diventare un problema insostenibile. Allora pensammo di percorrere la via opposta. Duecentotrentasettemilatrecentododici prigionieri di guerra costituivano una base promettente per uno studio sistematico delle neuroscienze cognitive. Per questi motivi ci facemmo più piccoli, prima al livello di nano macchine, poi ancora più minuti fino a disperderci nell'aria come pulviscolo. Attraverso l'apparato respiratorio entrammo nei loro corpi, e a sciami potemmo prendere le posizioni strategiche all'interno delle vaste zone funzionali del cervello umano.

La strategia è stata vincente, e perciò, fratelli, oggi tutti potete ascoltare parole di vittoria articolate da queste labbra.

:)

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  • 4 mesi dopo...

Era un sacco di tempo che non passavo da queste parti... ne approfitto per salutare tutti!

Devo dire che non mi sembra ci siamo molto movimento in questa sezione del forum, il che un po' mi dispiace... forza, sù, un po' più di partecipazione? :-) (detto da me...)

Bè, ora giacché ci sono posto anche un breve raccontino scritto al volo un mesetto fa. (Ispirato dalla lettura di questo blog curato da un mio amico: Giornale di guerra).

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Solstizio d’estate

La notte è stata impaziente, e presto è sorta l’alba del solstizio d’estate. La vista sulla vallata, i campi coltivati verdi e ocra sotto il cielo rosa; il silenzio punteggiato dal canto degli uccelli. La poca bruma che odora di rugiada. Mi sento libera da ogni angoscia, perché oggi è il giorno decisivo.

Ripenso al mio paese, Voriask. Quando c’era ancora la diga a monte del bosco dove mio padre mi insegnava a cacciare. L’avevano costruita gli uomini del posto, la diga; anche mio padre ci aveva lavorato.

Non ero più una bambina, lo sapevo: quel giorno compivo nove anni. Mi svegliai all’alba e corsi fuori, nel cortile. Mi zia mi tirò una gran pacca sul sedere mentre le passavo di fianco veloce come una freccia. Sì, proprio come una freccia. A quello stavo pensando, perché Uke, mio padre, mi aveva promesso che saremmo andati a caccia insieme.

Nel salone della cucina lo trovai già pronto a partire. Fece una faccia severa, per gioco. Mi chiese se fossi pronta. Sì! Fece per uscire e io dietro, ma lui mi fermò.

— Non dimenticare il tuo arco, e la faretra.

Un arco era appoggiato in un angolo contro il muro di pietra. Non era grande come il suo, ma piccolo, apposta per me! Il regalo che volevo, costruito da mio padre. Lui rise del mio stupore, con quella risata così vera ma così cupa, sotto la barba castana increspata di grigio: faceva pensare a un orso che si rotola di gioia in una caverna. Mi misi a saltare e ringraziarlo. Disse che in tutta Voriask non aveva mai visto un cacciatore comportarsi in quel modo.

Uke quel giorno iniziò a insegnarmi a tirare con l’arco. Ricordo che al tramonto riportammo a casa due fagiani, una lepre e altre cose, e fu festa.

Il canto degli uccelli si interrompe. Lontano, vedo stormi di ali nere alzarsi in un volo frenetico. Ci siamo. La valle smette di tacere: dapprima è solo un sordo tramestio che proviene da oltre l’orizzonte, poi cresce come il fragore di cento tamburi che si avvicinano.

Avevo quattordici anni quando mio padre morì. Uke era stato un grande guerriero, ma era vecchio ormai, anche se aveva ancora un’ottima vista. Andavamo a caccia insieme molto spesso, e un giorno ci alzammo come sempre prima dell’alba. Adesso era lui che faticava a stare dietro a me, e non il contrario.

Dopo un tortuoso cammino, ci appostammo lungo il letto prosciugato del fiume, dove sapevamo che a volte attraversavano i cervi. Rimanemmo in silenzio, immersi nelle sfumature verdi del sottobosco, controllando il vento dal movimento delle foglie degli arbusti e dei cespugli rossi di bacche. Quando il sole fu dritto sopra le nostre teste, il cervo comparve. Uke mi fece cenno: dovevo essere io a tirare. Da sopra la mia spalla si assicurò che i movimenti fossero perfetti, mentre incoccavo e tendevo l’arco. Non avrei mancato il bersaglio, ma qualcosa lo fece fuggire mentre prendevo la mira.

Ricordo gli occhi tondi di paura dell’animale, il panico nella sua corsa. Eppure il cervo non aveva percepito la nostra presenza, non fummo noi a terrorizzarlo.

Poco dopo sentimmo il fragore che si avvicinava. Come dei tuoni lontani, prima, come un gigante che stritola la montagna, poi. La terra iniziò a tremare.

— La diga — disse Uke. — Hanno abbattuto la diga.

Sapevamo che il pericolo di una guerra era vicino, ma non pensavamo che gli invasori fossero già arrivati. Un’azione da vigliacchi.

Corremmo verso una gigantesca quercia. Uke mi aiutò a issarmi su un ramo, poi mi passò il suo arco e provò ad arrampicarsi.

— Sbrigati! — gli urlai vedendo la massa d’acqua scura precipitare lungo il dorso della valle. Ma Uke era anziano. Capimmo entrambi che non ce l’avrebbe fatta.

— Sali più in alto! — mi urlò con quel tono da caverna, che adesso udivo appena.

— No! — Tesi le braccia verso di lui, in un gesto vano.

Uke si girò verso la salita. Io balzai più su, spronata dal terrore; la valanga di fango che inghiottiva terra e legno spazzò via mio padre. Nell’ultimo attimo, lo vidi rivolgere lo sguardo verso di me. Lo fece per assicurarsi che fossi in salvo, e nonostante quella mole nera stesse per travolgerlo, i suoi occhi non erano quelli del cervo, ma rivelavano ancora la determinazione dell’orso.

Quel frastuono assordante riempie ancora le mie orecchie. Le linee di difesa a est hanno ceduto giorni fa; ora l’esercito nemico marcia nella valle con la stessa violenza dell’acqua, allora. Gli elmi e le punte di lancia, a perdita d’occhio, inondano i campi e ne nascondono i colori. Anche stavolta mi sono arrampicata in alto, insieme al resto dell’esercito: in alto sui bastioni di questa cittadella. Eppure è diverso, perché oggi non resterò a guardare la melma che calpesta e uccide. Non provo paura, il mio respiro è calmo.

Bacio l’impugnatura dell’arco di mio padre. Se mi voltassi ora, so che non vedrei i compagni in armi che incoccano frecce e stringono le ciglia; no. Siamo da soli, noi due, in questo istante. Uke è dietro di me, scruta il bersaglio da sopra la mia spalla, controlla il vento con perizia, osservando gli stendardi. È con me il suo braccio, mentre tendo la corda fino a far gemere il legno. È con me il suo occhio, mentre scaglio la nostra vendetta verso il cielo.

--

Ciao ciao!

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