Vai al contenuto

Mr. Ais Ti


Shar

Messaggio consigliato

Salve...

Vi propongo di dare uno sguardo qui

http://digilander.libero.it/realade/subsite/MrAisTi.htm

Questo mio amico (e compagno di gioco in D&D) scrive veramente bene... e ho avuto il piacere di pubblicare alcuni suoi lavori...

Siccome ogni mese circa mettiamo qualcosa di nuovo, e siccome c'è parecchio da leggere già così...

Vorrei sapere che cosa ne pensate... e credo vorrebbe saperlo anche lui!

Link al commento
Condividi su altri siti


Per chi non ha voglia di andarsi a scaricare i pdf, posto l'ultimo racconto...

"Il pianto dei ciliegi"

1.

Ishida non chiuse gli occhi nello spiccare la testa di Miyamoto Katsushige.

Il kaishaku aveva svolto il suo compito, quello di aiutare l’amico fraterno a compiere il seppuku ordinato dal daimyò Tsunemori.

Sotto i petali candidi del giardino, Ishida Izaemon lucidò il filo della sua katana con gesti misurati e la rinfoderò lentamente.

“I buoni amici sono rari, Ishida.”

Lo sguardo di Ishida tentava di essere cortese, ma appariva turbato.

“Tu mi lusinghi, Tsunemori-san: quello che ho compiuto non è molto più che il mio dovere verso te e verso l’onore di Miyamoto.”

“Il tuo braccio saldo non ha dato a Katsushige-san il tempo di conoscere la vergogna. Ora ti lascio ai tuoi doveri.”

“I miei omaggi, Tsunemori-san.”

Il vecchio diede ordine alle donne di preparare il corpo decapitato per le funzioni funebri. La katana di Miyamoto Katsushige era ancora piantata nel suo stesso busto.

Ishida si allontanò, dopo aver dato un’ultima occhiata agli occhi spalancati che erano stati quelli di Miyamoto. La mente tornò agli avvenimenti dei giorni precedenti, alla lettera di Miyamoto.

“Mio fratello di sangue e acciaio, per tutta la vita mi sei stato vicino.

Ti chiedo di esserlo anche nella morte: il signore Tsunemori mi concede l’onore del seppuku per lavare l’onta della vergogna che ho arrecato all’intero clan con le mie mancanze. Non è un buon auspicio per un samurai che gli venga chiesto di assistere qualcuno nel rituale, ma io chiedo a Te, Ishida Izaemon, di essere il mio kaishaku, di essere il mio braccio se dovessi tentennare nel momento della fermezza.

Attendo tue notizie,

Miyamoto Katsushige, maestro d’armi del clan Tsunemori”

La calligrafia di Miyamoto era al solito ferma e impeccabile. Lettere degne della mano di un guerriero.

Un buon samurai si accompagnava di solito ad una buona calligrafia.

Il messaggio aveva raggiunto Ishida, a cinque giorni di viaggio, e questi aveva deciso di rispondere alla richiesta dell’amico con l’immediato ritorno al palazzo Tsunemori.

2.

Quando il servitore annunciò l’arrivo di Izaemon-san, Miyamoto era intento a prendere il suo tè.

Un degno rappresentante del Bushido: in posizione di seiza di fronte al tavolo di legno, Katsushige stava avvolto nel kimono verde foglia impreziosito di filamenti dorati. I capelli, più radi all’attaccatura dallo scorso incontro, erano raccolti in una coda alta. Il volto, da sempre di tratto deciso e occhio svelto, era impreziosito da una corta barba a pizzo.

La piccola tazza da tè giaceva accanto alla teiera. L’acqua era fumante e intrisa del sangue delle foglie verdi.

Ishida ricordò nel rivederlo il loro ultimo incontro, al gasshuku dell’estate precedente.

“I tuoi allievi promettono bene, Miyamoto.”

“Ciò per me ha grande importanza. I miei allievi sono i miei figli. Il loro successo sarà il mio successo.”

Cosa poteva aver spinto quell’uomo dalla voce limpida e dal cuore intenso a macchiarsi di un reato tanto grave da spingere il signore Tsunemori a richiederne la morte?

“Miyamoto...”

“Ishida! Speravo intensamente che arrivassi. Il cielo mi è stato favorevole, in questo.”

Katsushige si alzò. Appariva vigoroso e fiero come sempre. Appariva sereno.

“Miyamoto, vorrei che fossero circostanze più liete a ricondurmi a casa...”

Ishida esitò un istante, poi si rese conto che era inutile tentare di aggirare l’argomento.

“Che è successo?”

“Molte, molte cose...”

Per un momento Miyamoto lasciò volare l’eco delle sue stesse parole, poi riprese a parlare.

“È tanto tempo che sei lontano, Ishida. Forse troppo. Le tue visite sono ormai un raro piacere, ma nessuno può biasimarti per questo: la Via è una sola, ed unica per ciascuno, e se il signore Tsunemori ti ha destinato al tuo ruolo lontano da casa, vuol dire che non era destino che tu assistessi a ciò che è accaduto qui.”

Ishida ricopriva da diversi anni la carica di amministratore di un villaggio presidiato dagli Tsunemori. Non era troppo distante, ma la distanza era sufficiente perchè i suoi contatti con il palazzo divenissero sporadiche visite e lettere dal cammino inaffidabile.

“Ma che è successo?”

“Ricordi, Ishida? Non ci sono cattivi allievi, solo cattivi maestri. Evidentemente, non sono stato poi il buon maestro che credevo di essere.”

Alla fioca luce della sala, Ishida scoprì la stanchezza dell’amico nelle sue parole pacate.

“Circa un mese fa una delle guardie della famiglia Tsunemori è stata trovata morta. Non mi è stato difficile scoprire cosa fosse accaduto: uno dei miei allievi ha avuto un alterco con la vittima, pare per questioni di gioco. Entrambi non avevano più di vent’anni, e a quell’età si fa in fretta ad impugnare una spada senza preoccuparsi delle conseguenze.”

I loro vent’anni erano trascorsi da tempo, sotto i fiumi d’acciaio di altre guerre civili. Per loro, la lama non riposava mai.

Ricordi lontani scivolavano sugli occhi di Ishida mentre la voce di Miyamoto Katsushige usciva a fiotti.

“Il mio allievo ha ammazzato l’altro ragazzo, e poi si è dato alla fuga. Non abbiamo sue notizie da allora. Il signore Tsunemori l’ha fatto cercare in lungo e in largo, ma non è saltato fuori. Io, dal canto mio, facevo di tutto per placare Tsunemori-san. Ma egli fu inconsolabile. Una morte chiama l’altra, specie in tempi come questi, e qualcuno deve pagare per il ragazzo morto.”

Ishida comprendeva l’esito della faccenda.

Miyamoto amava i suoi allievi come figli, e sicuramente si era posto in loro difesa.

“Ma, Miyamoto... il ragazzo ha tradito il suo clan. Perché vuoi pagare una colpa non tua?”

Due occhi neri infiniti incontrarono quelli di Ishida.

“Non esistono cattivi allievi...”

L’adagio preferito di Miyamoto

“...esistono solo cattivi maestri.”

Così detto, il samurai si alzò in piedi.

“Questo, Ishida, è il mio ultimo regalo per mio fratello.”

Un rotolo di carta di riso, dolcemente sigillato da un nastro.

“Quando non respirerò più su questa terra, sarà il mio ricordo ad accompagnarti.”

Lo porse ad Ishida.

“E’ il mio ultimo aiku.”

3.

Quella notte, Ishida srotolò la piccola pergamena.

“Il sole scivola

nel pianto dei ciliegi”

Miyamoto Katsushige andava a morire al sorgere del sole, e Ishida, nel buio della notte immota, passò le ore a cercare rimpianti.

Non ne trovò.

Nel fodero, la sua lama dormiva profondamente.

4.

La mattina era giunta.

Nel cortile, i più stretti collaboratori del signore Tsunemori attendevano.

In ginocchio sul manto erboso, circondato da alberi muti, Miyamoto Katsushige sguainò la sua lama.

Accanto a lui, in piedi, Ishida Izaemon, l’amico di sempre.

“Sono pronto. Ricorda, Ishida. Ricorda sempre.”

Gli occhi di Miyamoto, per un attimo, apparvero umidi, umidi di tutti gli anni trascorsi fianco a fianco, di tutti gli anni che sarebbero sfumati in quel pomeriggio ventoso.

Il rituale era molto doloroso, e se Miyamoto avesse tentennato sarebbe stato compito di Ishida porre fine alla sua sofferenza.

Intorno i ciliegi piangevano, di un pianto bianco e lento.

Al vento, i petali scorrevano verso l’orizzonte.

Gente, estranea nella confidenza di anni e mesi, li osservava.

Tsunemori-san attendeva.

Un clan senza legge è un clan morente.

Il suo clan sarebbe sopravvissuto.

Ishida Izaemon sguainò la katana.

La lama, per un istante, sorrise al sole pallido.

5.

Allontanandosi a piedi, Ishida fece scivolare la mano destra in un borsello che portava appeso al fodero.

Le dita strinsero lievemente un piccolo rotolo di carta di riso.

L’ultimo aiku di Miyamoto Katsushige l’avrebbe accompagnato verso casa.

NOTE(dell'autore):

Il seppuku era il suicidio rituale dei Samurai, compiuto con la propria katana. Era spesso imposto dal daimyò, ovvero il signore che servivano.

A presidiare la cerimonia, stava il kaishaku, incaricato di decapitare il suicida in caso di “tentennamenti”: si trattava di una cerimonia dolorosissima, e spesso c’era chi veniva colto da spasmi e non riusciva a portarlo a termine. Non era considerato benaugurale fungere da kaishaku.

Riguardo gli altri termini stranieri, che dire? Il Bushido altro non è che la “Via del Guerriero” (letteralmente), la katana spero che sappiate tutti che è la lama del samurai. Seiza è la posizione inginocchiata tipicamente orientale, mentre il gasshuku era (ed è) una sessione di allenamento, originariamente estiva.

L’aiku, infine, è la forma poetica giapponese per eccellenza.

Link al commento
Condividi su altri siti

Non ho finito di leggerlo ancora ma quella parte che ho già letto mi è piaciuta molto.

Complimentoni !!!!

=D> =D> =D> =D>

=D> =D> =D> =D>

=D> =D> =D> =D>

=D> =D> =D> =D>

=D> =D> =D> =D>

Una sola cosa:non vorrei dire cavolate ma mi pare di ricordare che il seppuku non veniva fatto con la propria katana ma con un pugnale più corto di cui non ricordo il nome.Forse la katana del "suicida"poi veniva usata dal Kaishaku per porre fine alle sue sofferenze, ma anche di questo non ne sono sicuro

Link al commento
Condividi su altri siti

Vi ringrazio per aver investito un po' di tempo a leggere queste righe...

Informerò l'autore dei vostri complimenti...

Per quanto riguarda i commenti, il seppuku e la katana, posso dirvi con assolutissimissima certezza che... non lo so... ma spero di potervi dare una risposta al più presto...

Link al commento
Condividi su altri siti

La spada simboleggia l'anima stessa del samurai e perciò è un oggetto sacro e prezioso. Solo ai samurai è consentito portare la sciabola lunga (katana) e quella corta (wakasashi) quest'ultima comfermo veniva da loro usata per il seppuku. In coppia queste armi sono chiamate daisho.

Le sciabole sono costituite da vari pezzi:

la lama (TÔ)

l'impugnatura (tsuka)

la guardia (tsuba)

il fodero (Saya)

Le katane vengono nominate diversamente se hanno periodi di forgiatura diversi:

Koto, sciabole antiche fabbricate dal 900 al 1530)

Shintô, sciabole nuove fabbricate dal 1530 al 1897

Shin-shintô, sciabole nuovissime fabbricate dopo il 1867

Ehm...scusate la lezione... :oops: complimenti per il racconto...

Link al commento
Condividi su altri siti

La spada simboleggia l'anima stessa del samurai e perciò è un oggetto sacro e prezioso. Solo ai samurai è consentito portare la sciabola lunga (katana) e quella corta (wakasashi) quest'ultima comfermo veniva da loro usata per il seppuku. In coppia queste armi sono chiamate daisho.

Le sciabole sono costituite da vari pezzi:

la lama (TÔ)

l'impugnatura (tsuka)

la guardia (tsuba)

il fodero (Saya)

Le katane vengono nominate diversamente se hanno periodi di forgiatura diversi:

Koto, sciabole antiche fabbricate dal 900 al 1530)

Shintô, sciabole nuove fabbricate dal 1530 al 1897

Shin-shintô, sciabole nuovissime fabbricate dopo il 1867

Ehm...scusate la lezione... :oops: complimenti per il racconto...

piuttosto grazie delle informazioni! :shock:

comunque ben scritto il testo,

digli di trovarsi na morosa che fa sempre bene.... :twisted:

Link al commento
Condividi su altri siti

Grazie a nome dell'autore a tutti...

Mi sono state fatte un paio di osservazioni sul fatto che con la katana non ci si suicidava, ma con un'altra lama di cui non oso riportare la traslitterazione (per non sollevare l'ira di chi se ne intende). Inizia per w... :D

Ovvio dire che girerò al più presto tutto quanto a MrAisTi, che spero di poter coinvolgere sia come giocatore che come scrittore in questo forum... magari così vi risponde direttamente lui!!!

Link al commento
Condividi su altri siti

wakizashi.

Ti riporto quello che mi han detto (tanto è Dusdan/Pingu: gli rubo solo un post).

FACCIO LA PIGNA

il seppuku si fa con il wakizashi, non con la katana, che e` troppo lunga per tagliarsi l'addome tenendola per il manico; la katana ce l'ha quello dietro.

l'aiku e` haiku (ma di questo non sono sicuro) ed e` una delle tante forme, per eccellenza e` un po' eccessivo, sarebbe come dire che il sonetto e` la forma poetica per eccellenza in italia. cmq adesso l'haiku e` composto da mi pare 17sillabe divise in tre versi, non mi ricordo come.

fine fase pigna

Link al commento
Condividi su altri siti

Finchè non sarà possibile avere le risposte direttamente dall'autore (che è stato sollecitato recentemente ad iscriversi al forum, ma ancora, credo, non l'ha fatto), vi riporto un secondo racconto sempre di Mr. Ais Ti, dall'atmosfera decisamente diversa.

L’ATTESA

Un sommesso, ininterrotto pigolare di microscopiche goccioline d’acqua gelata ticchettava, pulsazione dopo pulsazione, a scandire gli istanti di nulla tra il tramonto e l’alba.

Fuori dal pozzo, la notte era grigia di chiarore stellare, l’oscurità era mitigata dalle pleiadi e da alcuni miliardi d’altri colossali ammassi cosmici luminosi, relegati da improponibili distanze al ruolo di puntini illuminati sulla tela notturna.

Qualcuno con più voglia di dare fiato ad improbabili parallelismi, forse li stava paragonando in quel preciso istante, in un istante tuttavia imparagonabile a quello, agli occhi di qualche insulso amore eterno e

momentaneo.

Alcuni, forse, ci leggevano storie di un passato indorato di mito, storie d’eroi e navi, spade vendicatrici e battaglie tra titani.

Molti, alzando gli occhi al cielo stellato, erano scioccamente in grado di scorgere speranza.

Per il vampiro, incatenato dai membri del suo stesso ordine al fondo del dannato pertugio, si trattava solo di un sentore dell’avvicinarsi dei fatali raggi solari.

A vincolarlo alla certezza dell’ultimo istante, tre catene d’acciaio, residuo di tempi in cui si costruivano cose che non venivano spezzate facilmente. In basso il suolo umido, in alto il vuoto, la promessa di un domani che per lui sarebbe stato portatore dell’ultimo istante.

Tracce del sangue di immortali suoi pari lordavano i candidi abiti e i capelli mossi e scuri, memorie del tradimento che lo aveva travolto soltanto poche ore prima, quando da carnefice si era trasformato bruscamente in vittima. Avvolto nel fradicio velo dei panni escoriati, Kaiar Vemon trovava la forza di sorridere, al ricordo dei gemiti di quelli che per primi lo avevano affrontato.

Si era battuto con onore, se d’onore si può parlare parlando delle eterne, sotterranee e nascoste contese dei Figli di Caino.

Si era battuto con ferocia, se di semplice ferocia si può parlare quando si parla delle inumane gesta di chi ormai cammina oltre i recinti dell’Ade.

Si era battuto, e aveva perso, sopraffatto dal numero degli inaspettati nemici, sopraffatto dal tradimento della sua stessa casata, sopraffatto forse dal soffio del destino.

Poche ore era durato l’eterno assedio domestico, l’inutile farsa della sua resistenza: quanti saranno stati?

Dieci contro cinquanta? Pochissimi gli si erano stretti attorno, pochissimi erano, in quella notte rischiarata dal rossore delle lame, caduti per lui. Arroccati in stanze profonde, da cui però non c’era fuga, si erano

difesi fino alla fine. Uno ad uno aveva visto quella notte i suoi adepti, chi con una daga in pugno, chi con una daga a spaccare il cuore.

Niente vie di mezzo nella notte del massacro.

Per tre secoli, da quando il suo oscuro maestro lo aveva accolto, mutando un gentiluomo di campagna in un predatore di innocenze, Vemon aveva lottato coi denti e con le spada per ritagliarsi un posto alla Corte

della Notte, ristretta cerchia elitaria di nobili vampiri pervasa da tradimenti e doppi giochi, sadiche scommesse e caduche alleanze.

In una notte, il lavoro di secoli era stato frantumato.

Tutto, come sempre, per una donna.

Passione. Ecco cosa spingeva un vampiro a prendere una compagna: il piacere della conquista, la rottura dalla secolare monotonia, l’amore per l’estetica perfezione di un volto, di occhi verdi, di labbra rosse e forme plasmate a regola d’arte sotto un vestito. Questi e altri vezzi avevano mosso Kaiar Vemon verso

l’ennesima preda. Una preda pericolosa e avvelenata, come l’esca per un lupo.

Non avrebbe dovuto aprirle le sue porte, non avrebbe dovuto portarsi il tradimento incarnato sotto il tetto.

Ora, per la cupidigia di una donna e per la sua stessa debolezza, si avviava lungo gli ultimi sentieri, un tempo fiero tra gli eterni, ora prossimo alla fine del sogno oscuro.

Poche ore separavano il tormento di un’onta irreparabile dalla certezza di qualcosa ancor più bruciante.

Molte volte lui stesso aveva decretato simili condanne, molte volte le urla strazianti dei condannati erano giunte al suo orecchio avido di dolore.

Appariva differente ora quel pozzo, designato da tempo a cullare il fuoco dei condannati alla Morte Ardente, di coloro che erano stati condannati ad essere arsi dal sole. Morte rapida e sicura.

Il sole. Giunto a questo punto, superata l’assurda speranza di una libertà ormai irraggiungibile, Kaiar Vemon sfiorò il ricordo di quel sole dimenticato tanti anni prima al momento del Dono, quel Sole che un tempo lo scaldava sui prati, quel sole che aveva salutato molto tempo prima.

L’ultimo giorno. La prima notte.

Ora che si stava per concludere l’ultima notte, quelle precedenti, trascorse al frenetico inseguimento di una vittima spaventata o a pianificare un elegante bacio di morte, si ripresentavano prepotenti lungo le vie

della secolare memoria; l’adrenalina della caccia e del duello psicologico, gli sguardi di inconsapevole resa e le urla dei morti dilaniati si sovrapponevano confusi e ordinati, frammenti di ricordi perduti o di

nitide visioni di oltre trecento anni vissuti all’ombra del silenzio, anni corrosi da un morbo di onnipotenza e maledizione, anni bagnati dal sapore del sangue caldo, da versi e sinfonie pienamente compresi dopo decenni di meditazione. Una lunga vita dà tempo a lunghe digressioni, e non tutti i vampiri vivono di brutalità: quella di Vemon era una cerchia d’esteti e filosofi, di romantici assassini, di nostalgici del tramonto, d’insaziabili collezionisti di prede ambite e sparizioni irrisolte, autori di canti insospettabili, incogniti predatori avvolti da mantelli sfoggiati a tardive riunioni, autori di brevi apparizioni pubbliche a serate mondane. Una volta, Kaiar Vemon aveva letto di un francese che predicava come l’uomo fosse

ricettacolo di due realtà: l’angelo e la bestia. Non era però una definizione adatta a semplici uomini: questa, si era convinto, era la Loro terribile essenza, il Loro dualismo venato di lacrime d’estranei e sangue rubato. E quando, ancora ebbri dal fuoco vitale strappato a una giovane fanciulla o a uno sprovveduto guardiano di recinti, scandivano le ultime ore della notte con parole raccolte in decenni o secoli di osservazione e tonsura d’anime, quando l’eterna sete era placata sino all’indomani, allora le bestie dormivano e si risvegliavano gli angeli. Angeli oscuri ma splendenti, eterni camminatori di strade marchiate da sangue inevitabile, strade costellate di anime crocefisse a peccati incancellabili, anime obliate in nome di una più lunga vita, di una più lunga sofferenza.

Ogni lama ha due tagli: se da un lato il suo corpo era inarrestabile e la sua mente poteva vagare tra secoli di conoscenze, tra intere gallerie d’arte e pentagrammi indelebili, dall’altro ogni giorno, o meglio ogni notte della lunga vita di vampiro era il continuo rimarginarsi di quella ferita, di quell’allontanamento dalla luce, primo ricordo di una vita in bilico tra inferno e paradiso. Un paradiso di piaceri corporei, un inferno

scavato nell’anima.

Alcuni venivano scelti per essere prede privilegiate, scelti per divenire i vampiri del domani o semplici paggi di quell’assurdo gioco.

Altri, come lui, si stancavano della vita breve, dei dolori della coscienza, della luce del giorno, e sceglievano l’inganno della notte.

Ripensava ora alle sue prime notti e ai suoi ultimi giorni, al passaggio delle dannate truppe cariche di morbi da oriente, ai primi sospetti, all’incontro con lord Tyrael, l’anziano mentore sulla via degli immortali, alla proposta, al rifiuto, ai morti come mosche tra bambini, uomini e donne, al popolo che implorava soccorso, al dolore della malattia, alla morte dei suoi cari dal nome ormai impronunciabile, ai giorni in un sudario di solitudine, al desiderio di morire, alla paura di morire, al ritorno di Tyrael e al morso di una nuova vita, non prima di un ultimo sguardo alle nuvole ramate all’orizzonte, a quell’ultimo cielo uguale a tanti altri, e tuttavia unico.

Alla solitudine eterna.

Sorrise. Forse solo ora, al presago cantare di un gallo, aveva capito: il suo trionfo sulla morte e la lunga vita di piaceri incomprensibili alla limitata mente di un uomo, non erano stati altro che un’agonia rivestita

d’illusione, una fiera popolata da inquietanti buffoni dal sorriso falso e nero. Ora, in quegli ultimi secondi, con le tinte del cielo che via via si mescolavano al passato, trovò il tempo di pentirsi.

Dopo tre secoli, nel fugace buio di un pozzo, Kaiar Vemon fu percorso da una lacrima.

Poi, in un istante, il primo e ultimo raggio di sole lo carezzò, in un istante scoprì ciò che in trecento anni gli era stato celato, in un istante il calore, il vento, il sorriso, il cielo tornarono a pervaderlo e a colorare i

suoi occhi. In un istante nacque il giorno, e al culmine di una vita di pensieri, poche parole trovarono la via dell’aria:

“Per ultimo vidi ciò che di più bello c’era da vedere.”

E svanì alle prime luci del mattino.

Link al commento
Condividi su altri siti

Veramente molto molto bello! Benche' tra questo e il primo racconto postato non penso si possa fare un paragone per la troppa differenza di soggetti, e benche' io non conosca a fondo ne il soggetto e relativo ambito culturale del primo racconto ne me ne intenda molto di vampiri, il secondo mi e' piaciuto molto di piu', senza nulla togliere al primo che pure appariva molto bello.

Complimenti!

Link al commento
Condividi su altri siti

  • 4 settimane dopo...

L’incontro.

Seduta al tepore di una panchina non troppo soleggiata, con il vento tra le dita, Linda rincorreva la trama di un piccolo libro con i grandi occhi azzurri. Lettera dopo lettera, saltando ragionevolmente qualche carattere,

divorava paragrafi di una storia già datata, ma per lei fresca, una storia lontana per spazio, tempo e persone.

D’improvviso, l’inconveniente: la pagina, appena girata, fu oscurata da un velo d’ombra.

Linda alzò uno sguardo incuriosito.

Lo strano giovane interferiva con la luce solare, coprendo con la sua sagoma la carta stampata.

Non era la prima volta che lo vedeva, ma era la prima volta che entrava in contatto con lui. Non ne sapeva (o ricordava?) il nome. I capelli, piuttosto lunghi, mossi e neri, apparivano screziati di sfumature quasi

impercettibili, forse ramate, alla luce del sole estivo. Aveva la sua solita espressione divertita (chissà poi per cosa?) sulle labbra. Stava lì in piedi a guardare lei e il suo libro e la sua panchina un tempo tranquilla, con i

profondissimi occhi scuri e lucidi.

“Che leggi di bello?”

(...conosce già la risposta...)

Per un istante, Linda rimase probabilmente a bocca aperta. Poi riuscì a riconnettere.

“Sto leggendo Il Maestro e Margherita...”

“Carino, ma Bulgakov aveva le idee un po’ annebbiate.”

Assaporando il sapore del succo di frutta residuo tra lingua e palato, Linda cercò di liquidarlo con un sorriso di circostanza.

Un paio di secondi di finta indifferenza.

Poi cedette alla curiosità: “Annebbiate da cosa?”

“Che ne so? Questo dovresti chiederlo a lui, non a me...”

Altro sorriso circostanziale, vagamente offeso e piuttosto stupito. Occhioni leggermente sgranati.

“La domanda che avresti dovuto fare -continuò- era “In che senso?” e allora io avrei risposto con qualche frase particolarmente a effetto su chissà quale argomentazione... Occasione sprecata.”

Ora Linda si rese conto di essere rimasta innegabilmente bocca aperta. Dal profondo, si fece strada dopo alcuni millisecondi un sorriso, questa volta meno circostanziale e più divertito.

Cominciava a capire perchè tanti loro comuni compagni di corso ronzassero attorno allo strano tipo: nel suo piccolo (tra una cazzata e l’altra...) era innegabilmente affascinante (...una calamita umana).

“Beh scusa tanto, la prossima volta ti chiederò il permesso prima di farti una domanda...”

“Sarà meglio, bambina...”

(...bambina a chi?)

Decisamente, il soggetto non si esentava dal dispensare giudizi (...che stronzo...) e si aggrottò leggermente,

come se (ti leggesse nei pensieri?) capisse tutto al volo. Subito riacquistò la solita calma e il sorrisino sarcastico/divertito/inquisitorio.

Linda, con un sensibile ritardo, colse la sfumatura ironica, e richiuse il libro, ormai placidamente rassegnata alla conversazione.

“Posso sedermi?”

(...un uomo d’altri tempi...)

“Sicuro.”

La panchina, notò Linda spostandosi di una ventina di centimetri, non era proprio comodissima. Non era neanche propriamente una panchina, a voler essere precisi: più un muretto che altro. Comunque, il

muretto/panchina non sarà stato comodissimo (...sempre meglio che niente...), ma era all’ombra quanto bastava per non sudare come i poveretti indaffarati in giro per l’Università.

Linda riprese il discorso con una domanda inevitabile:

“Tu lo hai già letto?”

“Sì. Altrimenti non ne parlerei...”

(...uno a zero per lui...)

“Beh, c’è tanta gente che parla di cose che non conosce...”

La frase, che Linda si rese subito conto essere carica di palese retorica da quattro soldi, sembrò colpire il ragazzo. Per un momento si illuminò, come se avesse voluto sentirsi dire da tempo quelle esatte parole.

Rapido, sdrammatizzò la sua stessa reazione:

“Hai ragione. Ma io non sono uno di questi.”

E tacque improvvisamente, pensieroso.

(E adesso che gli è preso?)

“Che c’è?”

“Niente, niente. È solo che per un momento mi hai fatto ricordare una persona. Una persona lontana lontana... Ma tu -riprese cambiando decisamente tono alla discussione- ci credi in quello che stai leggendo?”

“Cosa?”

Entrambi ora sembravano, sicuramente, molto divertiti dalla discussione ad eventuali osservatori.

“Sì, voglio dire, nel Diavolo che si manifesta così, in un giorno come tanti, e avvolge persone comuni nelle sue trame. Ci credi?”

Linda esitò.

“Ma non devi leggerlo così -esordì con una punta di fastidio- non è mica un libro fantastico! È tutta una sottile metafora della...”

“Bah -la interruppe seccato- come sei materiale... Ci credo che fai Ingegneria!”

“E perchè, tu no?”

(...credi di essere tanto speciale?)

“Ma che c’entra? Io ho le mie ragioni. E poi mica siamo tutti ottusamente positivisti...”

(...e allora che ci fai qui?)

“Comunque non è questo il punto: ci credi o no?”

“Beh, io non ne ho visti molti di diavoli qua attorno...”

Un sorriso (malinconico? deluso?) gli sigillò le labbra. Ma non durò.

“A quanto vedo sono capitato nel posto giusto... Tu, con gli occhi che ti ritrovi, non dovresti limitarti a leggere quello che ti scrivono gli altri. Tu puoi imparare a leggere più a fondo.”

(...che dice? Chiaro! Ci sta provando: adesso ti chiederà un appuntamento...)

“Sai che parli troppo, mio caro?”

“Forse, sei tu che ascolti troppo poco.”

Sapeva innegabilmente come ammutolire la gente, anche se solo di tanto in tanto.

Questa volta il silenzio durò più a lungo, con due grandi occhioni azzurri che fissavano un ragazzo ora taciturno, e due limpidi occhi neri fissi in un indefinito punto tra nuvole e sole, occhi stretti per la troppa luce o per qualche ricordo un po’ troppo lontano da mettere a fuoco.

Fu lui, mentre Linda cercava di ricordarsi in quale preciso istante si fosse lasciata coinvolgere in una discussione del genere con un semi-sconosciuto (la categoria peggiore di persone), a rompere ancora la coltre di silenzio, che stavolta era assoluta e pareva definitiva:

“Scusami, non mi sarei dovuto permettere di parlarti di questo. Ognuno, alla fine, crede in ciò che gli pare.”

Pareva vagamente deluso (come a dire “Ho sbagliato persona”), e si alzò senza particolare fretta.

“Comunque, ti lascio alla tua lettura. È stato un piacere averti conosciuto un po’ meglio... Arrivederci!”

Per un momento, gli sguardi si incrociarono.

“Anche per me è stato un piacere. Ci vediamo presto!”

Il ragazzo, che ora Linda notò essere vestito quasi completamente di nero (...come sempre...) si voltò senza particolari indugi, con passo rapido ma non troppo. Forse, inseguiva i suoi pensieri tra le rade ombre del parco.

(Buffo: non gli hai nemmeno chiesto come si chiama...)

Per un momento, dopo che se ne fu andato, fu come se le mancasse già. Senza motivo. Poi il pensiero venne spazzato via da un’ondata di altre faccende quotidiane, e in parte anche dal libro, finalmente restituito al suo

sole estivo e alla gloria delle sue preziose lettere.

Un libro non eccessivamente serioso era un raro piacere (in questa Facoltà di matti) ora che il tempo era sempre così poco, perfino in giugno.

Dopo alcune ore, quando oramai il sole già affievoliva, Linda si stiracchiò posando il piccolo volume azzurro. La prima giornata senza grosse preoccupazioni da settembre a questa parte stava terminando.

Si alzò dal non troppo comodo sito ombroso, ripose il libro nella borsetta e si avviò verso la fermata dell’autobus, percorrendo senza fretta la discesa accanto al grigio edificio centrale.

Passò qualche ora, priva di avvenimenti realmente interessanti: purtroppo il giovedì non offre grandi spunti da parecchio tempo.

Puntuale come sempre, la notte.

Ora, il buio avvolgeva in un silenzio quasi innaturale la città.

Linda, sola nell’appartamento, si lisciava i capelli prima di dormire.

(...come una principessa...)

Pensieri (anche infantili) le scorrevano in testa assieme alle dita affusolate della spazzola, ricordi frammisti di giorni lontani e vicini, piacevoli e cupi.

Inspiegabilmente, di colpo, le venne in mente la bambola.

La bambola: si ricordò di una bambola, che ora giaceva chissà dove, a casa (non qui: a Casa!), forse sotto una pila di vecchi giocattoli o in un angolo buio. Non era una bambola qualsiasi, ma non ne ricordava il

nome (Anie? Annil?), nome scovato tanti anni prima in chissà che libro per bambini. Non era una bambola qualsiasi: era un angioletto. Il suo angioletto protettore. Il suo confidente. Ecco, ora sapeva cosa avrebbe

detto la prossima volta al ragazzo, di cui (non ricordava?) non sapeva il nome: “Ai diavoli magari non ci credo: che bisogno ce n’è di altro male in giro? Però sono convinta che da qualche parte qualche angelo ci

sia ancora, o almeno lo spero...”

Terminò il suo piacevole compito contenta di aver trovato anche lei una bella frase a effetto per il ragazzo così (strano?) sicuro di sé.

Non tardò a scivolare nel sonno, per sognare qualcosa di indefinito ma piacevole, come il vento lieve del pomeriggio di giugno.

Lontano, sul molo, stava ora una figura alta e scura. I capelli, piuttosto lunghi, mossi e neri, apparivano screziati di sfumature quasi impercettibili, forse ramate, alla luce pallida della luna estiva. A braccia conserte

osservava il mare immoto lungo l’orizzonte, e forse anche più in là.

Si voltò poi verso la città dormiente.

“Bambina, proprio non ti ricordi? Ce ne sarà di lavoro da fare...”

Silenziosamente, con la solita espressione divertita, ripensando agli avvenimenti della giornata, fece tre passi e saltò verso il mare. Due lunghe ali nere, prima celate, si fecero strada nella notte. L’angelo Anael sorvolò il mare notturno, invisibile nella notte, e silenziosamente scivolò verso la luna.

Link al commento
Condividi su altri siti

Crea un account o accedi per commentare

Devi essere un utente registrato per poter lasciare un commento

Crea un account

Crea un nuovo account e registrati nella nostra comunità. È facile!

Registra un nuovo account

Accedi

Hai già un account? Accedi qui.
 

Accedi ora
×
×
  • Crea nuovo...