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Mah!


ectobius

Messaggio consigliato

Sono appena arrivato! Scrivo cose non molto allegre chè sono in fondo un disperato... a volte spero da disperato e non è produttivo.

Io ci provo ad inviare qualcosa. Sono curioso di sapere come mi si accoglierà.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

:banghead:

La nascita!… La fine dell’inizio... A metà di un mattino di un giorno di giugno.

Una meravigliosa giornata di giugno! Che festeggiava il Corpus Domini con tutte le campane del paese che sfilavano il Gloria mentre io uscivo nella festa, e anche sotto i migliori auspici Da essere considerato, forse, un “Unto” del Signore!

E avrei potuto... anzi avrei dovuto, secondo parere unanime, approfittarne in seguito, di questa privilegiata condizione... Ma da scettico nato non l’ho mai fatto, ed è stato un male.

Male! Molto male!

Cosa mi sarebbe costato dichiarare in situazioni di difficoltà: “Io sono nato nel giorno del Corpo del Signore e sono un unto del Signore!”?

Niente! Mi sarebbe costato niente!... E magari avrei, forse, solo evitato un po’ di mala sorte. E così non mi resta, ora, che provare un malinconico rammarico, oggi... che non aspiro che di ritornare all’origine... Oggi! Che al massimo potrei solo indulgere a portare la mano alla fronte e batterla leggermente e ripetutamente.

La fola della nascita propizia mi fu raccontata più volte!... La mia genitrice forse desiderava solo convincersi di aver fatto cosa buona generandomi... Una fola a conforto, insomma! O... Ma chissà!

Quel giorno era luminoso, sì! Luminoso ed allietato dal suono in Gloria da tutte le campane, ma allietava solo i presenti all’evento che sinceramente pensavano alla mia di festa. Io, invece, quella festa la subivo con sofferenza, ed era la fine del principio.

Era festa, insomma, della vecchia casa con sul portone il fiocco. Mentre a me facevano “la festa”!

Ma ve la racconto come si svolsero i fatti... per quanto mi riguardava e ancora mi riguarda.

In principio... Il principio? cos’era il principio? Non potevo allora saperlo, ma ora... Be’, ora mi voglio contraddire e allora dirò: “Dapprincipio!”. E senza commenti continuerò a far riferimenti a tempi che allora non conoscevo.

Dapprincipio galleggiavo in una soffusa luminescenza amaranto... una fosforescenza amaranto! “Amarántos”! Che è ciò che non appassisce.

Poi... Poi? Ma sì! “Poi!...” Oramai mi sono contraddetto!

Poi mi sono spuntate le pinne.

E ora... Ora nuoto... o piuttosto sguazzo, senza peso e pena di pensiero, nel tepore liquido del silenzio denso, fatato E mi fa compagnia un rassicurante lontano tonfo ritmico Cuore di imprecisate certezze.

Comunque sono ignoto! Non ancora iniziato!... Fuori del tempo, nonostante... Eternamente.

Fuori del prima e del poi In ogni istante smarrito e recuperato nell’istante.

Poi... son comparse le pinne Quattro moncherini che si allungano e mi perfezionano nello sguazzo: spingo e faccio capriole senza peso, ma oltre il tonfo e il lento sciabordio delle capriole, di quando in quando, percepisco vaghi rumori sfiniti a cui presto vaga attenzione Rumori misteriosi da un mondo misterioso a me ignoto e solo oscuramente supposto parallelo... Ed anche inquietante. Comunque infine riesco sempre ad abbandonarmi alla quiete di questo inizio Quantunque non sia mai iniziato ché l’eterno non inizia! Né finisce.

Materia eterna in movimento eterno, Ecco! il moto eterno, Caos e Cosmo!

Ma è successo! all’improvviso, che il mio lago si prosciuga... D’improvviso!

E una stretta mi preme tutto intorno Irrevocabile. E mi prosciugo e intuisco anche che l’acqua mi è indispensabile e debbo inseguirla! Imboccare il tunnel attraverso il quale defluisce. Certamente sfocerò in un lago più ampio, più adatto alle mie dimensioni, ma è faticoso il cammino... e doloroso anche... Doloroso? Doloroso, Sì! Il cammino agevolato da intermittenti spinte e accompagnato da una sensazione nuova e sgradevole intorno al capo che era il dolore!... Il dolore che precocemente, e da subito, tra le prime cose che dovevo imparare a conoscere.

E intravvedo una luce nuova, che anche questa non conosco... né mai completamente capirò.

Forze sconosciute, mai ingiuriate, mai provocate, traggono e spostano me che fino ad un attimo prima pensavo d’esser mondo intero... Ed ecco! scopro altro spazio e intuisco il tempo... Il tempo, Sì! che continua ad accadere e mi toglie l’abbandono alla quiete.

Ed è anche una fine, questa: la fine dell’inizio vita.

Chiasso... una baraonda del diavolo! E sono fuori dal centro, dal posto che era sembrato senza alternativa. Baraonda! E luce. Che fanno danno al mio udito e ai miei occhi Ma almeno gli occhi in fretta li chiudo... Almeno gli occhi! E serro le palpebre mentre mi invade il terrore della mancanza d’acqua...

Sono nel nulla! Mi appesantisco mentre continua a ferirmi le orecchie uno sbraitare di tintinnii, urla! evviva! risate! Da ombre eccitate:

“E’ sano! E’ maschio!”.

E suono assordante di campane a gloria... Per chi? Per me? che provo dolore! E annuso odori... di alcool... e provo freddo! Il freddo! Lo sconosciuto che mi fa tremare.

Mi serrano i piedi... mi percuotono il sedere... riconosco l’alto e il basso. Il mio capo è in basso e soffoco!

Agito le pinne... Soffoco!

E allora urlo: “Ahi!... Ahi!...”. Sto meglio, ma continuo ad urlare... “Ahi! Ahiii!...”. E piango ora che sono sfociato nel luogo ostile senza comprendere il perché di questo naufragio nel tempo che farà sorgere una domanda:

“forse c’è stata colpa?”.

E poi hanno cominciato a toccarmi Mille grosse dita mi si torcevano addosso, e mi hanno messo in acqua calda La testa fuori dall’acqua.

Non ho avuto più freddo. Mi hanno asciugato e coperto E sfinito ho dormito.

Mi desto!... Provo un disagio nuovo... fame?... La fame, sì!! Finora sconosciuta. Le membra deformi e appesantite non mi consentono di girarmi, e muovo, allungo quelle che furono pinne, coda, e ora sono membra. Non incontro nulla... brancolo... Sono in un nulla spazio di tenebra, e per la prima volta provo la paura. Una paura che volge al terrore degli urli, dei ghigni, dei ringhi. Vorrei fuggire!... Ansimo, ululo.

Un’ombra s’appressa: le dita, enormi, potrebbero stringere schiacciarmi inerme E mi sollevano, invece, lievi come una carezza Mi posano in un grembo caldo e offrono alle mie labbra il gusto di un tenero nettare.

Fino a sazietà!

Posso tranquillizzarmi, e mi abbandono al sonno mentre mi asciugano e ripongono. Così che poi mi desto senza paura. Ma urlo lo stesso per riprovare il sollievo delle carezze e di una voce calma e sussurrata che nello stesso tempo odio.

E così finisco col perdermi sempre più nel tempo! Catturato dal tempo: sonno veglia, fame sazietà, luce tenebre, freddo caldo... Destinato a divenire!... Ad essere divorato da Cronos.

Ma la nostalgia dell’ amarántos... Quella! Che non appassisce... La fosforescenza perenne non ho mai smesso di sognarla... Di sognare il ritorno dall’immane guasto.

Ma almeno sono re!

Di un regno che non conosco, ma irritante! Sono il perfido re di un territorio dai vaghi contorni e dimensione. Luci ed ombre e sudditi che obbediscono ai miei ordini rancorosi che esprimo in linguaggio urlato di pianto irritato. Ordine perentorio di ululati, sibili... ringhi.

Accorrono!

Minutronomisollevanomicullanomilavano...

Il mio linguaggio non sempre è compreso ed allora non risparmio punizioni di tortura fatta di urla e pianto senza perché e prolungato Incomprensibile! che genera l’ansia tra i miei sudditi... Che poi è quello che voglio. I sudditi colpevoli non si debbono riposare, no debbono abbandonarsi al sonno! E io mi accorgo quando prendono a dormire: dalla regolarità di un respiro o dal russare. E allora urlo! Li sveglio e pretendo che mi si culli E resisto finché posso al mio di sonno, il più a lungo possibile ad impedire il loro, di sonno.

Quanto durò la vendicativa autorità? E come avvenne poi che questo imperio rancoroso cessò?

Mi fu tolto lo scettro con modi bruschi o con garbo?... Non ne ho memoria!... O di mia volontà ne decisi la fine? E mi ritirai rassegnato nell’esilio di questa solitaria casa e stravagante.

La mia casa!

Non molto grande, ma labirintica per intrico di locali dall’incerta destinazione E miriade di corridoi e scale, e anche misteriosi passaggi ove è possibile procedere solo a fatica, quasi strisciando. Ma per quanto la abiti da sempre, mi è ancora sconosciuta, questa casa costantemente immersa nella penombra di un perenne lucore malinconico che è caratteristica strutturale della casa: non dipende da cattiva esposizione... non ha relazione con le fasi del giorno, né con la meteorologia... E’ nella struttura!... Nasce dal suo interno, la luce!... Che le è propria!

E anche il tempo le è proprio! Scandito da orologi dai ritmi bizzarri: tempo lineare dalle durate imprevedibili, cosi che a volte corro ed ansimo, a volte sono fermo, catatonico; o tempo retrogrado, e finisco con l’annullare il tempo stesso, a rifugiarmi idealmente e piacevolmente all’amaranto. Spesso il tempo è circolare e resto fermo. Ma il tempo a spirale è quello che più mi sconvolge!

La spirale eccentrica ha dell’ebbrezza, dà le vertigini Fuga nell’irreale ma in fine mi trovo in bilico su un abisso di nulla e mi ritiro spossato e frustrato, proprio come dopo una sbronza. Più spesso seguo la spirale che volge al cuore, si avvita nel centro e sfocia col classico risucchio nel gorgo buio della depressione.

Ma capita anche che a tratti la luce si spenga, e lascia la casa fuori del tempo e dello spazio, campo libero ad ombre disperanti, a fantasmi deliranti.

E nonostante tutto, in questa casa ci ho vissuto!... in rassegnata sopportazione!

Ed anche ho cercato, ostinatamente inutilmente, di curarla, di renderla confortevole, di illuminarla acquisendo inutili lampade... E i tanti decorativi soprammobili, che mi erano sembrati importanti, spesso hanno finito solo con l’essere, solo, ingombro disordinato e soffocante.

E la soffitta... la soffitta! Un ricettacolo di materiale sconosciuto che io non ricordo di avervi depositato... Ingombra e poco visitata, è divenuta anche regno di polvere muschio e muffe e vi si respira aria quasi di putrefazione.

Vi brilla solo uno specchio, qui!

Infranto!

Che rimanda, moltiplicandoli, lampi di follia.

Nonostante le cure è invecchiata male lo stesso, questa mia casa. E va irrigidendosi senza fascino. Le mura scricchiolano per un nonnulla, tremano E cadono in polvere strati di intonaco.

Stemmi e fregi di facciata sono tutti già crollati.

E infine gradualmente mi sono arreso. Evito di frequentare le varie stanze, di attraversare corridoi, salire e scendere scale e mi sono ritirato in un’unica stanza, spoglia e con una sola finestra rivolta ad Occidente.

Sono sempre sdraiato in provvisorio giaciglio La testa girata alla finestra che mi rimanda spettacoli di tristi nebbiosi tramonti .

Di quando in quando compare una luminescenza amaranto che mi consola.

Oh, Amaràntos!

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Andava!…andava… comunque.

Andava!

La sua ombra lo precedeva Concreta. E precedendolo di un buon tratto, la sua ombra Che lo attirava con forza ed era andata a sbucare in una piazza nuda estesa Chiusa, senza interruzioni percepibili allo sguardo sulla palizzata calcinata di lapidi grattacieli.

E non riconosceva più, girando lo sguardo a ritroso, nemmeno lo stretto varco di strada dal quale era sbucato.

Stanco di guardarsi attorno si sedette rassegnato sulla panchina, l’unica nella grande piazza E guardava in alto in cerca d’un cielo assente.

Solo una lunghissima corda, scorse. Tesa sul vuoto della piazza da due opposti edifici Altissima Lontana… sul vuoto. E un funambolo lento si inoltrava sul sottilissimo percorso… senza acrobazie... Triste!... E senza pubblico.

Avrà una meta?… Laggiù!

E cosa c’era laggiù?

Forse un pubblico?... Forse un applauso?

Improbabili!

Ma l’aveva incuriosito questo viaggio senza senso su una corda Intrapreso né per lo spettacolo, né forse per un applauso...

Che l’unica giustificazione fosse l’approdo in un luogo?

Si levò dalla panchina e si diresse all’alto edificio alla cui sommità si agganciava il terminale della corda sospesa nel vuoto.

L’ingresso all’edificio era stretto… quasi un pertugio. Ma dava su una normale scalinata di condominio. Prese a salirla con impeto, la scalinata, saltellando sulle punte dei piedi Ma non si raggiungevano pianerottoli per una sosta. Dovette sedersi sulle scale ansimando, e riprese la salita con meno foga poggiando sui gradini tutta la pianta dei piedi, ora.

Non si aprivano porte su quelle scale immerse in una luminescenza grigia interrotta di quando in quando da brevi lampi… Lampadine sul limite dell’esaurimento! Ma udiva un mormorio, un brusio ininterrotto proveniente da punti indefiniti… Arrivava da ogni lato questo bisbigliare che talvolta si faceva riso sardonico fino al gemito.

Poi la scala si biforcò in bivio… A destra o a sinistra?… scelse la sinistra e incontrò altre biforcazioni Ad ogni bivio prendeva a sinistra.

Inopinatamente la scalinata prese a scendere, poi risalì ed ancora discese in larghe curve Infine era un labirinto da percorrere, trascorrere. Trapassava dal passo, ciabattante in salita, al trotto lungo le scale in discesa A tratti si piegava per la fatica ed a tratti quasi strisciava ché la rampa si infilava a scorrere in cunicoli.

Era esausto ma doveva andare… come avesse sottoscritto un impegno.

I piedi erano gonfi e non tolleravano le scarpe Le tolse, le scarpe, e riprese a trascorrere quel labirinto di scale che ancora saliva, scendeva, si ingrottava…Procedette per inerzia! I piedi piagati Dalle piaghe fuoriusciva abbondante il pus.

La pelle grinzosa disidratata La barba e i capelli lunghi E qualcosa vi aveva colonizzato tra i capelli e la barba.

Era il barbone!

Sbucò infine… Dopo aver sceso molte scale in un pianerottolo e non c’erano più scale per proseguire il viaggio.

C’era la porta di un ascensore!

Premette il pulsante di chiamata e, dopo un tempo lungo di attesa, inerte lunga angosciosa, la cabina fu presente.

Anche qui un solo pulsante… Non c’erano scelte!… Lo sfiorò appena, ed in un attimo era arrivato

Una luce chiarissima Trasparente Abbagliante da non potere definire i confini dello spazio… se spazio era… Non c’erano confini né di pareti, né d’altro tipo… chessò… una barriera di alberi… un non confine vago di un prato con acque limpide... magari fiorito.

Era un non luogo, invece Senza colori… Il non luogo della negazione dei colori!

Una colonna sosteneva un grosso cavo di acciaio che andava a perdersi nel vuoto. Cercò di far penetrare lo sguardo per scorgervi il funambolo Non vide nulla nella luce chiarissima.

Che fosse già giunto? Ma c’era niente intorno… Niente! Nemmeno un’ombra.

Difficile descrivere la sensazione affatto nuova nel non luogo senza ombre né colori…

Anche la sua ombra era perduta.

Ebbe il tempo di pensare che non si sarebbe potuta concludere che così come si stava concludendo la sua avventura avendo accettato di trascorrere nel labirinto Il labirinto che non è possibile eludere, ingannare, sfuggire… il labirinto che tutto accoglie e fonde.

E si concluse infatti... in perdurante mistero!

:-(

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  • 1 mese dopo...

E' un vecchio racconto! Posto solo l'inizio ché continuerò solo se sarà gradito e riceverò qualche parere.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Era qui il SALOON … saliti questi gradini. Il Bar di Tamburriello!

Tamburriell’?… Quale l’origine di questo soprannome?... Ereditato da una famiglia di Tamburrielli? o coniato proprio e solo per lui?

Piccolo, mingherlino, la faccia butterata… a ricordo della epidemia di vaiolo… e pallida.

Lo sguardo sempre corrucciato, una sigaretta alfa costantemente appesa al labbro inferiore in un angolo della bocca e la visiera della coppola ingiallita di nicotina… Ma questa breve rappresentazione non spiega il sprannome, spiega casomai solo l’uso del diminutivo.

Forse il nomignolo gli veniva da reminiscenze scolastiche molto popolari?… il piccolo tamburino sardo del libro “Cuore”!… universalmente conosciuto poiché alla scuola elementare che, bene o male, avevano frequentato quasi tutti, era l’unica lettura proposta da ormai generazioni di alunni.

No!… Più probabilmente il nomignolo gli veniva dal fatto che era sempre stato fatto bersaglio di percosse, proprio come un piccolo tamburo… percosse... Pam! Pam!... con la bacchetta a scuola, e poi, via andando, fino ad ora che era il gestore del bar più popolare del paese, il bar dei contadini e degli artigiani poveri di estrazione contadina. Un bar che forse nessuno, al di fuori dei selezionatissimi avventori, conosceva all’interno… E dove di certo, appeso da qualche parte in bella evidenza, c’era il solito cartello:

“La persona civile non sputa in terra e non bestemmia”

Cartello che qui assumeva il tono di uno scherzo decisamente ironico, ché sputi in terra di ogni dimensione e colore erano un ornamento naturale del bar e non infastidivano nessuno… E le bestemmie?... costituivano l’ossatura di qualsiasi discorso!

Il “saloon”… così era stato soprannominato, il bar... che era più sala giochi che bar…

Fumoso fino all’inimmaginabile di trinciato forte, alfa e spinelli arrotolati col tabacco dei mozziconi raccolti “pisciaiuolando”… Niente elettronica delle sale giochi del giorno d’oggi, che non si sapeva nemmeno lontanamente in cosa consistesse l'elettronica… forse una parolaccia!…

“Elettroniche saranno tua madre e tua sorella!”:

e all’imprecazione sarebbero seguite le risse con “seggiate”.

E non c’erano biliardi… anzi bb’gggliard’!… e nemmeno scacchiere: giochi raffinati, per signori.

ERA REGNO DI MORRA E CARTE!

E a soldi… scopa briscola e tressette conditi da parolacce lazzi e “iasteme” con finale, immancabile, a “seggiate”.

Tamburriello nel trambusto assiduamente ed assurdamente interveniva per dividere i contendenti, e finiva sempre col prenderle di santa ragione. Ma anche quando non c’erano risse, Tamburriello era ancora e sempre il bersaglio di scherzi anche pesanti e nessuno si interrogava mai sulla opportunità di farsene zimbello... Tamburriello sembrava essere stato fatto apposta per questo.

Tamburriello riceveva a voce urlata le chiamate per le ordinazioni al tavolo:

“TAMBURRIÈEEE!”

“Veengooo”, e si precipitava al tavolo.

“Cosa volete?”

“Sparame ‘na sega”

“VAFANCUL’!!!”

“Eeeh!… ma che ti sei offeso?”

“Ma no…”, rispondeva con tono cordiale, abbozzando un sorriso da uomo di mondo, l’alfa all’angolo della bocca e una contrazione intorno ad un occhio… Un ghigno alla Humphrey Bogart.

Lo scherzo era sempre lo stesso, ma Tamburriello ci cascava sempre. Mai che prevedesse!… E non aveva ancora finito di parlare che:

“Be’, visto che non ti sei offeso… sparamene un’altra!”

“VAFFANCUL’!!! Va’ da soreta!”.

E veniva sommerso da risate a crepapelle intervallate da accessi di tosse e scaracchi.

Prendeva l’ordinazione… Ritornava al tavolo e questa volta veniva accolto con sorrisi cordiali e talvolta finanche con un tocco amichevole sulla spalla o sul braccio… gesto che aveva dell’eccezionale per uomini di quella ruvida tempra.

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No, sono di origine pugliese, e il racconto è ambientato in un paesino agricolo delle Puglie, appunto.

Ma ora toglimi tu una curiosità: cosa ti ha fatto pensare che potessi essere Toscano?

In realtà un mio antenato era toscano e andò nelle Puglie al seguito dei piemontesi, dopo l'unità d'Italia, a combattere il brigantaggio con la guardia nazionale.

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Grazie Aerys II, sei l'unico interessato al mio racconto?... Mi basta e proseguo con un altro brano.

°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°°

Tamburriell’ ispirava tenerezza… e anche, chissà perché, ilarità, ma tutti, in fondo, gli volevano bene, anche se nella furia delle risse veniva spesso scaraventato fuori dal locale insieme a qualche sedia. Erano queste peraltro le uniche volte che Tamburriello usciva all’aria aperta di giorno E la luce intensa doveva essere una ferita per i suoi occhi avvezzi alla penombra del suo antro… Si rialzava velocissimo, rientrava nella baraonda e si lanciava ancora nell’immane compito di dividere i contendenti col risultato reiterato di finire di nuovo nella strada con le sedie.

A volte le risse erano organizzate per finta, per divertirsi all’impegno di paciere di Tamburriell’ che, infine, veniva sollevato e lanciato da braccia robuste a braccia robuste nel gioco del “passamano”.

Il bar, comunque, era tutta la vita per Tamburriello… Fuori dal “Saloon del Texas” si sentiva perduto.

Non aveva giorni di riposo… apriva prestissimo, all’alba, e chiudeva solo quando l’ultimo ubriaco, lanciando insulti e bestemmie e anche qualche sberla, decideva di andarsene.

Un suo fascino l’esercitava un po’ su tutti il “saloon del Texas”… comunicava un senso di allegria e incuriosiva perché si percepiva che la vita lì dentro era altra… era la vita delle campagne… la vita secondo natura i cui valori erano la forza e il coraggio… sicc’ e salvagg’… non disgiunti da generosità… Un mondo ove anche le donne venivano apprezzate per la forza, e poi per il senso di concretezza e la disponibilità allegra al sesso.

E sì!… Perché il sesso era per loro evento gioioso privo d’ogni tabù, esercitato con impeto come sempre lo avevano osservato in natura praticato liberamente dagli animali. E la ragazza madre, in fondo, non dava scandalo… purché non ci fosse stato tradimento, ché, allora, si scatenava una violenza selvaggia.

La vita piccolo borghese del paese era invece una vita artificiale, ben ordinata secondo regole rigide a cui tutti si attenevano nel loro anelito alla “normalità” che era conformismo… perdita di identità nella massa.

Giocoforza anche i contadini, quando soggiornavano in paese fuori del saloon, dovevano adeguarsi a queste regole… si offrivano a tutto e a tutti esibendo un rispetto esagerato e rassegnato come può esserlo solo quello che ci si impone… Soprattutto ora, in pieno regime fascista.

Il “saloon”costituiva l’eccezione… godeva, come dire?… di un diritto di extraterritorialità… Era una bolla di vita naturale nel conformismo del paese.

Che si ricordi una sola volta questi giovani contadini si erano lasciati andare alla loro libera esuberanza di vita in paese, tra gli altri… Un gruppo di loro riuscì a conquistare il palchetto vuoto del cinema del paese… il palchetto che era una semplice pedana in legno più alta della platea e riservata alla famiglia del proprietario del cinema… e da lì lanciarono dei preservativi gonfiati.

I preservativi erano una novità del dopoguerra… qualcosa per loro di veramente bizzarro e comico… qualcosa con cui giocare e ridere. Con innocente allegria li gonfiavano e li lanciavano i palloncini e schiamazzando… I bambini li catturavano credendoli… e non si poteva diversamente… un innocuo palloncino. Si trovarono vicinissimi in quel frangente: bambini e contadini Quella volta ugualmente innocenti allegri e felici… Forse.

Ma il palloncino fu loro strappato di mano con uno scappellotto ed un incomprensibile sguardo severo… Poi intervenne anche la forza pubblica.

Per anni i bambini dovettero domandarsi perché i palloncini erano permessi alla festa di santo Rocco e al cinema No.

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E alla festa di Santo Rocco il paese e la piazza erano invasi dai cafoni in abiti sgargianti e vi si mischiavano nello struscio i giovani borghesi che allungavano nella folla le mani a tastare i culi tosti delle ragazze contadine Che non protestavano… anzi… si divertivano ad eccitarli spingendosi contro “le mani morte”.

Il “saloon” era poco frequentato in quei giorni di festa. I cafoni comperavano ghiaccio colorato alla “gratta-marianna” e facevano per ore lo struscio, e poi, all’ora prevista, non si perdevano una nota della banda di Lanciano applaudendo con gran vigore soprattutto gli spropositati acuti della “cornetta”.

Grande banda quella di Lanciano!

Ed anche Tamburriell’ in quei giorni indossava il vestito della festa e sostava, di sera, sulle scale della soglia del bar che era lievemente sopraelevata rispetto al piano stradale, e da questo punto privilegiato cercava di non perdersi nessun **** e nessuna mano.

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E’ così era andata e andava da sempre e sarebbe andata nei secoli e per i secoli.

Era una certezza per tutti!… Quella certezza che non veniva da complicate analisi intellettuali, ma dalla convinzione infantile di chi aveva aperto gli occhi su un mondo che non si era modificato di una virgola per tutti i lunghissimi anni di una eterna fanciullezza e che sembrava non fosse stato scalfito nemmeno da quella valanga che fu la guerra.

Anzi, durante la guerra il paese aveva raddoppiato i suoi abitanti per via degli sfollati dalle città bombardate, e la clientela del saloon, di conseguenza, era aumentata con un’iniezione di piccoli trafficanti ciurmatori intraprendenti, pieni di vitalità, bravissimi nel gioco delle carte e maestri della “zella”… con conseguente naturale notevole aumento di risse.

La guerra poi finì lasciando i suoi segni dappertutto… città distrutte dai bombardamenti, orfani, miserie, dolori d’ogni genere… L’orgoglio italico aveva subito un grosso ed irrimediabile scossone e lo avevamo capito anche i bambini nonostante gli sforzi degli insegnanti a scuola per mantenerlo vivo… E non si sentivano più tanto spesso le barzellette sui gruppi di un inglese, un francese, un tedesco, un americano e l’italiano più intelligente che interveniva alla fine e metteva tutti in ridicolo.

Il paese, però, sembrava esserne uscito indenne tanto che si rinforzava la convinzione che avrebbe continuato come sempre… Non poteva cambiare… No!… Non doveva cambiare! Avrebbe continuato a vivere come sempre e per sempre.

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Imprevista ed ineluttabile, invece, la popolazione prese a diminuire… dapprima lentamente, quasi impercettibilmente, e senza i drammi che avrebbero presto urlato il loro strazio.

L’emigrazione!

Che inizialmente fu solo per i più duri, gente rude abituata alla sofferenza Così che la iniziale lentezza del fenomeno conservava al paese una illusione di vita.

Il saloon comunque perdeva giornalmente un po’ dei clienti… per primi i più vivaci e forti… E poco per volta il bar finì per essere frequentato solo dai più fiacchi.

Una subdola malinconia si era intrufolata nel locale di Tamburriello e pervadeva gli spazi e gli animi degli ultimi frequentatori. La bolla di vita leggera si sgonfiava, si appesantiva, scivolava sempre più in basso trascinando con sé Tamburriello che oramai non si incazzava più, anche quando ancora… in rare occasioni per la verità… una bella incazzatura ci sarebbe stata bene.

Non si organizzavano più scherzi, e le risse a seggiate erano oramai un ricordo.

Inevitabile che Tamburriello cadesse in una spirale di tristezza, anzi ben presto sprofondò in un preoccupante stato di depressione da astinenza di marmaglia.

Le sorelle, preoccupate, cercavano di consolarlo prospettandogli una ristrutturazione del locale tale da oscurare i due bar borghesi più frequentati del paese.

“Che s’ hanna fà Lanzetta e Schiraldi! Metteremo anche noi la macchina del caffè espresso e avrai la migliore clientela… ti libererai di tutta quella marmaglia”.

E non capivano che non poteva esserci rimedio ché era proprio la marmaglia che mancava a Tamburriello.

E prova ne fu che quando, dopo tanto che non lo si vedeva, ricomparve nel bar Rocchino… il leader da sempre della marmaglia. Ad ora insolita in un mattino deserto nuvoloso e triste.

Tamburriello a vederlo ebbe la sensazione immediata di respirare più liberamente senza quella oppressione sul petto che da un po’ non lo lasciava… e che non dipendeva dall’eterna sigaretta alfa, come aveva diagnosticato il medico “donna Rema”.

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Un sole puerile parve si fosse liberato di prepotenza dalle nubi e un sorriso… sì! proprio un sorriso illuminò per la prima volta il viso di Tamburriello, tanto da fargli cadere l’eterna alfa dall’angolo della bocca.

“Rocchìiii’!… finalment’!”, quasi gridò.

E, dopo una pausa commossa…

“Cosa posso darti… offre la ditta!”

“… sparame na’ sega!”, fu la risposta quasi automatica di Rocchino.

Ma il tono era così carico di tristezza che Tamburriello non se la sentì di rispondere col solito “vafancul’ a soreta”.

“Ah Ah Ah! Assaggia mò ‘stu vin’ paesan’… tuost’ e genuino”.

Rocchino, rimasto solo al tavolo, mentre Tamburriello si affaccendava a preparagli il suo miglior vino, piegò la testa fra le braccia e Tamburriello si accorse che stava piangendo…

“Ma che fai, Rocchì?…… Che tien’?”

“Niente, Tamburrié!… Fatti li ***** tuje!”, rispose secco Rocchino e si asciugò col dorso della mano gli occhi.

Poi, però! Dopo un lungo silenzio, bevuto il vino rosso come sangue, Tamburriello al fianco imbalsamato in un rigido sorriso sull’alfa all’angolo della bocca:

“Crai part’… vac’ in Germania… sotta terra… a la miniera ”.

Era un morto vivo anche lui, Rocchino… e questo fu il colpo di grazia per Tamburriello.

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Dopo qualche giorno, nel bel mezzo di una partita a stacce, interrompendo la filastrocca che precedeva i lanci, “Da ‘nanz’ da dret’ e da lu cuost’, chi l’have se la tene”, un ragazzo arrivò in corsa trafelato e gridò rivolto al gruppo di giovanissimi giocatori e spettatori:

“S’è appecat’ Tamburriell’!”.

I ragazzi, eccitati, lasciarono immediatamente cadere le pietre, raccolsero i bottoni e di corsa verso il saloon per lo spettacolo.

Arrivarono contemporaneamente al maresciallo Rossi affannato più di loro e sudatissimo.

“ Largo… largo… Non c’è niente da vedere!”.

Il maresciallo entrò nel bar e fece chiudere la porta… imbucò la botola e scese in cantina accompagnato dal brigadiere.

“ Lasciate tutto come si trova e chiamate il pretore”.

In paese non c’era pretore, bisognava farlo arrivare da un altro paese e ci sarebbe voluto del tempo.

Il maresciallo uscì sulla porta e dall’alto dei gradini arringò la piccola folla…

“E’ morto Tamburriello! Si è impiccato!”.

Poi mise le mani sui fianchi e, dopo una breve pausa, gonfiando il possente torace italico, con voce stentorea:

“Aspettiamo il pretore… Frattanto il locale resterà chiuso e poi resterà ancora chiuso per lutto… Andate a casa… ci vorrà qualche ora prima che arrivi il pretore. IL LOCALE RESTA PIANTONATO!”.

La piccola folla considerò lo spettacolo momentaneamente sospeso e stava per disperdersi quando da lontano un urlo straziante la ricompattò.

Arrivava la sorella di Tamburriello.

Il maresciallo si preparò all’assalto e consolidò la sua stabilità allargando le gambe, irrigidì il suo massiccio corpo e riuscì a non perdere l’equilibrio al violento previsto impatto.

E resse anche la porta del bar.

Cosicché alla sorella di Tamburriello non restò altro da fare per alcuni minuti che batterla con i pugni, la porta, e graffiarla finché non comparve del sangue intorno alle unghie.

E scostumatamente piangeva:

“Frat’ mije…frate mije… frate mije…”.

A questo punto delle brave donne la staccarono dalla porta e la portarono nel salone di Simone a faccia-fronte… fu fatta sedere sulla sedia di barbiere ed anche lei aspettò, solo debolmente gemendo, l’arrivo del pretore.

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“Venite… venite che si vede!”, disse uno della piccola banda dei ragazzi… quasi sussurrando.

Si mossero in gruppo, scesero le scale che fiancheggiavano l’edificio del bar e arrivarono ad una finestra piuttosto alta rispetto al piano stradale, con le inferriate. Sollevandosi sulle punte dei piedi, a turno, sbirciarono nella penombra della cantina e videro!… anzi intravidero solo la testa di Tamburriello, di nuca, calva, piccola e rotonda appesa con una corda al collo.

Uno dei ragazzi fece l’osservazione giusta:

“Pare nu caciocavallo!”.

Pur “pendu”, era pur sempre il Tamburriello!... E non mancò una sommessa collettiva risata.

Passò ancora qualche ora prima che giungesse in piazza la macchina dei carabinieri… Vi scese il pretore, di piccolissima statura, ma con minuscoli occhiali rotondi che gli conferivano una espressione autoritaria, e fu accolto dal sindaco Magaldi anche lui piccolo e occhialuto.

Dopo alcune strette di mano incrociate e silenziose, si avviarono in piccolo corteo verso quello che era stato il “saloon”… Il pretore e il sindaco davanti, al passo, li seguivano il mastodontico maresciallo Rossi e il brigadiere… Chiudeva il corteo un signore anziano male in arnese con dei fascicoli sotto le ascelle e una borsa nella mano destra… forse era il cancelliere.

La piccola folla alla soglia del bar, rinfoltita alla notizia dell’arrivo delle autorità, si apriva al loro passaggio.

Il sindaco non volle entrare e aveva gli occhi lucidi dietro le lenti. Vi entrarono il pretore, il maresciallo, il brigadiere e quello che doveva essere il cancelliere.

Ci fu un tentativo, doveroso e rumoroso, di forzatura del blocco da parte della sorella di Tamburriello che fu presto domato dalle brave donne e dalla forza pubblica… Poi la piccola folla ammutolì in attesa di apprendere i più raccapriccianti particolari.

Il cielo profondo gorgogliava... blublu… blublu… blublu… blublu… il sole lo percorreva come da miliardi di anni… i rondoni si precipitavano stridendo in gruppo a volo radente e sfioravano le tegole alte sulla porta del saloon a toccare i nidi che erano loro da generazioni… Solo la carezza del favonio portava con sé un silenzioso lamento.

FINE

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Alé, alla fine ce l'ho fatta a leggere tutto! :-D

Devo dire che il racconto lungo mi è piaciuto molto, si respira l'atmosfera tipica dei piccoli paesi del sud, dolce e amara allo stesso tempo (l'ho assaporata per brevi momenti e, per quanto l'ho odiata da piccola, per quanto ne provo nostalgia ora).

Per quanto i primi racconti brevi abbiano una complessità maggiore, con immagini ben costruite e d'impatto, quest'ultimo racconto è più, come dire, "rilassato", godibile. E la lettura ne guadagna. ;-)

Se posso solo farti un appunto, io eviterei di interporre di continuo i tre punti. Sono un ottimo strumento per creare la sospensione del discorso, che si voglia aumentare la tensione oppure soltanto lasciare un senso di "non detto", ma è uno strumento da usare con molta parsimonia, altrimenti perde il suo effetto. ;-)

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L’uso che faccio dei tre punti è anche diverso da quello canonico. Li uso, i puntini, per arricchire la punteggiatura, per differenziare le pause e tentare di ottenere un effetto musicale... sincopale... una sfasatura di ritmo.

Ammetto che sono cose che, certo, si apprezzano solo con una lettura ad alta voce e non è detto che io raggiunga lo scopo, ma ci provo.

Ad esempio a volte salto anche il punto e continuo con una maiuscola.

E poi, detto fra noi, i tre punti sono così decorativi ad uno sguardo di insieme del testo stampato.

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  • 1 mese dopo...

C’è il sole!

Il cielo sembra un foglio azzurro sgualcito da bave lievi di nuvole bianche.

Ragazzi neri, grandi involucri bianchi a tracollo, grandi occhi attenti

E paura in quegli occhi!

Ancora solo pochi passanti, guardinghi, rasenti i muri E stringono la borsa.

Corpi snelli, i neri! Si flettono come elastici e scattano Non hanno artigli, ma fanno paura lo stesso!

E loro anche hanno paura ma sorridono e sono ancora capaci di stringersi le mani con energia ed abbracciarsi Sorridono e ridono.

Vu Cumprà! Materiale umano!

Un barcone stracarico di merce umana.

La stiva affollata. Due cessi. Utili per poche ore Inutili poi. Traboccano m***a… Si espande oltre le porte la m***a. Filtra, inumidisce, imputridisce. Invade!

La m***a! Nessun angolo è risparmiato!... Prima sono solo i piedi nella m***a, poi ci si deve sedere dentro.

Si soffoca… Aria, aria!!!!!

Il primo a morire è un vecchio. Lo trascinano ai margini della stiva. Dopo i primi momenti di raccapriccio il morto diventa un sedile asciutto.

E i bisogni? Oramai si fanno sul posto.

La m***a arriva ai capelli.

E sono sbarcati!

Le telecamere inquadrano i sopravvissuti!

Senza odori sullo schermo… la barca da bruciare!

La telecamera sosta su un assurdo sorriso... Indugia!

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  • 2 settimane dopo...
  • 8 mesi dopo...

LA GARA

Una cosa è certa: si trattava della corsa ciclistica che si teneva ogni anno alla festa del santo patrono del paese... giornate limpide, il cielo stridente di rondini... prati verdi e insetti... farfalle e lucciole e cimici verdi e il loro odore... tramonti di fuoco... le certezze di una natura incontaminata...

E altra cosa certa era che, tutto sommato, egli partiva favorito: possedeva la bicicletta più leggera e anche la più ben accessoriata in fatto di cambio.

La gara si svolgeva ogni anno, da tempi immemorabili, subito dopo la conclusione della corsa nei sacchi... ed era altrettanto seria che la corsa nei sacchi... Seguiva, a sera, l’albero della cuccagna.

Il percorso della gara andava dalla piazza della chiesa madre, attraversava il cosiddetto purgatorio, imboccava la strada del molino e del cinema e quindi la vianova... che era sterrata fino alle scuole elementari. Qui iniziava una salita asfaltata fino al corso principale e raggiungeva, sempre in salita, la piazza della chiesa madre, dove era il traguardo, in salita, da raggiungere dopo aver percorso il circuito per un’infinità di volte: purgatorio... strada del molino... etcetera.

Era sulla strada del molino e faceva girare veloce i pedali, ma non andava oltre questa via... non procedeva!... Era sempre lì... eppure pedalava.

Ora non chiedetemi il come e il perché di questa bizzarria... io so solo che queste sono le immagini di certe gare di paese... così almeno si fissano nella memoria!... immagine sbuffante in bicicletta senza avanzamento di un metro... fissa come una foto animata sulla strada!

Il cinema sulla sinistra, il molino sulla destra.

Eppure... eppure, come ho detto, era certamente in gara: la gara ciclistica della festa del santo patrono del paese che anche quest’anno si svolgeva dopo la conclusione della corsa nei sacchi.

Comunque, ammetto!... che, messa così come ve la racconto, era piuttosto strana la gara di quest’anno: infatti, che io sappia, egli non ricordava di essere partito insieme ad altri concorrenti... né ricordava un segnale di via con colpo di pistola (alla tempia!) o almeno con più silenzioso e modesto sventolio di bandierina con i colori del paese... I colori del paese?... Mai saputo quali fossero e sono i colori del paese!... e anche se mai questo paesino un po’ perduto avesse mai avuto una bandiera con colori che ne affermasse la concretezza... Un paese scomparso!... non c’è più! E non l’aveva mai avuta, la bandiera... e la concretezza... Eppure esisteva!... Davvero?

E c’è dell’altro in fatto di stranezza: non scorgeva intorno a sé, e né davanti né dietro, altre biciclette in corsa... e non era in grado di dire se fosse in testa... o ultimo... o chissà!

E il pubblico?

Non vi erano spettatori!, solo numerosi passanti sulla strada che non lasciavano libero alcun varco... si muovevano lenti e disinteressati, e anche attraversavano sbadatamente fuori dei passaggi pedonali senza tuttavia essere di intralcio.

Strana o non strana, questa gara... seppure fosse una gara... beh! in qualche modo era in svolgimento... E comunque bisognava continuare a pedalare.

Ce la stava mettendo tutta! E... PFUiiiiiiiiiii!... la gomma anteriore si è afflosciata.

Fosse in testa o ultimo... o chissà... non lo sapeva! Ma manteneva fermo il proposito di continuare... Sempre e comunque!

Lesto ed abile ha smontato la ruota, ha estratto la camera d’aria e si è recato allo sgabuzzino del meccanico... un ometto zoppo da una gamba, meccanico riparatore.

Molta gente attendeva seduta il proprio turno nella modesta officina... anziani con le loro camere d’aria sgonfie... seduti in cerchio, la resta perduta nella folla... cercavano l’indispensabile aiuto dallo zoppo che gli raddrizzi la carcassa, piuttosto che sostare sul muretto della chiesa a godersi il sole e la festa... come sempre finora.

Il meccanico zoppo in tuta bianca!

Gli diede giustamente la precedenza ché si rimettesse immediatamente in corsa, e si mise subito al lavoro sulla camera d’aria forata... Mica una foratura da poco... tuttavia a suo parere riparabile... Poteva riprendere la gara!... fare il punto e via!

Lavorava con lena, lo zoppo, parlando, o forse solo quasi mormorando fra sé e sé:

“Me l’ero costruita da per me una superba bici... su misura, leggerissima... cambio a dieci velocità...”... “Ero indubbiamente avvantaggiato ed in testa alla gara... poi questa caduta... rovinosa!... niente più da fare!... rassegnarsi o morire”... “... e sono ancora in campo ma sono solo lo zoppo senza gloria che ripara ruderi...”.

Anche seguendo i suoi pensieri e rammarichi era stato comunque rapido nel lavoro... In breve aveva riparato ad arte la gomma con una vistosa pezza che teneva bene la pressione interna... E aveva anche effettuato un controllo finale in una bacinella d’acqua: nessuno spiffero!

Poi, sbrigativo e poco convinto, a voce alta:

“... Non strafare e non cadere!... buona fortuna!”.

Egli uscì quasi in corsa, inseguito dallo sguardo degli anziani fiduciosi in chissà quale miracoloso intervento dello zoppo e pronti a continuare per chissà quale gara pur con gomme semisgonfie... una gara comunque già perduta!

In affanno aveva risistemato la camera d’aria e l’aveva gonfiata a dovere, almeno sei atmosfere... per l’attrito... doveva rifarsi!... via gli attriti!.

Diede aria anche alla gomma posteriore... almeno sei atmosfere!... E spingeva... spingeva la pompa... e...

BOoouum!... Plaff!...

la gomma è scoppiata che nemmeno lo zoppo avrebbe potuto più aiutarlo.

Niente più da fare!... una caduta irrimediabilmente rovinosa!... rassegnarsi!... Inutile!... inutile fare altri tentativi!... altre cadute!... Oramai la sfiga?... ma no!... anche chissà cosa...

Il sole era calato e nella penombra grigia si muovevano solo ombre intorno a lui che solo sfolgorava di sgargianti colori nella improbabile divisa di ciclista in gara.

Risaltava, come a rilievo su una fotografia in bianconero.

Ridicolo e fuori posto!

Doveva togliersi da quella condizione... eclissarsi... che non se ne parlasse più!

Non vi erano altre vie di fughe se non quella del cinema.

Vi entrò... pagò il biglietto... e non destò meraviglia il suo abbigliamento di ciclista in gara.. anzi, sembrava che apprezzassero.

Nel buio della sala non ebbe difficoltà a trovare il posto che ritenne più comodo ed adeguato, e quando la sua vista si fu assuefatta poté constatare di essere in folta compagnia di ombre.

Il raggio di proiezione volteggiava alto e palpitante fin sullo schermo dove si componeva in immagini nitide e in bianconero... tutto in bianconero quel giorno!... eccetto lui!... almeno fino a questo momento... E mute, le immagini, nonostante le labbra dei personaggi si muovessero come nel parlare.

Dopo alcuni attimi di disorientamento, cercava di capire:

“Che razza di film è questo?... Non vi sono sottotitoli e comunque non si tratta di un vecchio film dell’epoca del muto... Le immagini sono più che moderne... contemporanee... Assurdo che le labbra si muovano e non ne risulti alcun suono... Qualcosa non funziona!... Un guasto in cabina?... un manovratore distratto o addirittura in sonno?... Intollerabile!... Cialtroni!...”.

E senza indugi passò a vie di fatto... Prima batté le mani senza risultato... quindi passò ai fischi... e infine ad un rumoreggiamento misto anche con fragorosi scossoni dei sedili... Non valse a niente!... le immagini continuavano a scorrere mute sullo schermo e lui continuava a rumoreggiare.

Gli si accostò un signore con torcia elettrica.

“Ma cosa le prende?...”.

“Come?... Cosa?... Ma le sembra normale e tollerabile che in cabina di proiezione ci sia un individuo che dorme e non si accorge del guasto?”.

“Nessun guasto!... Il film viene proiettato così!... senza il sonoro!...”.

“Bella questa!... e io ho pagato il biglietto!...”.

“Sì, ma però ecco... Non ha mai notato come sono fasulli i dialoghi di questi film americani?... storie dal senso fasullo... l’inganno per continuare tra le macerie... illudere!... Lei ha sbagliato a venire qui se desiderava essere preso per il **** con una storia con capo e coda... edificante!... Con lieto fine, magari!... Lei è in cerca di consolazioni... Si sforzi e interpreti il senso occulto... metta le sue parole sulle labbra di queste immagini...”.

“... parole... parole!... anche più labili delle immagini che anche loro col tempo sbiadiscono... confondono...”...

“... sì, parole!... sempre nuove... al passo con i tempi!... prenda la Bibbia!... è da millenni che la interpretano e sopravvive...”...

“... insomma... ancora pezze!... come dallo zoppo... ”...

“... trova forse altro da fare?...”.

Si mise di lena... la sua sceneggiatura sembrava reggere, le immagini si ordinavano con ritmo e trama accettabile... da far quasi presagire un finale di speranza... qualche intoppo... bastava concentrarsi!

Cosa è poi successo? Che il raggio dalla cabina allo schermo ha smesso di palpitare, volava radente sulle teste, sibilante e lineare... un raggio laser!... Sullo schermo immagini impazzite, velocissime... A stento le si distingue... Non ci si sta più dietro!... Il senso!... non più un filo di senso... La pellicola poi deve essersi spezzata... Lo schermo è una pagina non scritta dispiegata davanti alle ombre.

Un’ultima immagine... importante! ma non aveva avuto il tempo di registrarla... una mano protesa... fiammeggiante!... artiglio insanguinato!... *****!

Sono state aperte le porte di sicurezza... tutti fuori... ci si imbottiglia!... e fuori piove come dio la manda... diluvia!

Si alza il vento, l’acqua picchia... acqua, acqua, acqua!

Lampi accecanti perforano l’oscurità fitta affollata di ombre in cerca di riparo... macché riparo! Goggiola tutto... gli alberi, i tetti, le grondaie... torrenti, fiumi... l’acciottolato divelto... di quando in quando un albero si piega, cade, inghiottito dalla corrente... sbarramenti, dighe, laghi... si nuota!... brividi, tosse, catarro!... Sconquasso e morte... melma e *****... via profumi lucciole e farfalle... Puzzo di fogna!

E’ arrivato a casa, infine.

Ha dismesso gli inutili ed inutilizzabili indumenti del ciclista in gara e si è preparato un toast:

prosciutto cotto... GRANBISCOTTO!...

Sottilette... KRAFT!!

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Ci sono state venti visite a questo mio racconto. Togliendo le mie tre, si scende a diciassette. Ammetto che il cinquanta per cento non abbia letto il racconto o perché troppo lungo (a loro parere), o perché già dalle prime battute non lo ha ritenuto il suo genere preferito. Qualcuno, infine, può non averlo letto fino in fondo... insomma calcolo di aver avuto almeno sei lettori interessati. Orbene perché almeno uno o due non mi dicono se è piaciuto, o se (non essendo io riuscito a comunicare alcun senso) è una gigantesca c****a?... E’ chiedere troppo?

Di fronte a tanto disinteresse...

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