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La Nostra Storia - Fantasy


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Principali partecipanti

La primavera era quasi terminata e in quella zona del mondo le temperature erano preoccupanti.

La terra si stendeva brulla e secca, in volute di polvere al soffiare del caldo vento.

All'orizzonte, verso le praterie secche, il calore si misurava in onde che salivano dal terreno, nelle ore centrali della giornata.

Il villaggio di Carat forniva poco riparo dal sole ai suoi abitanti, fornendo solo qualche albero qua e la. Le case aiutavano nell'ingrato lavoro di parasoli involontari, e la strada principale del villaggio si mostrava deserta all'ora in cui tutti pensavano a rifocillarsi.

Nonostante tutto la gente nelle case era felice, il pasto caldo ce lì avevano tutti e i problemi erano pochi.

Il fiume scorreva non molto distante da loro anche se si era ritirato parecchio e l'acqua scorreva generosa e limpida, sia nel suo letto che nelle case dei cittadini.

A Carat si viveva d'agricoltura e allevamento di maiali e gli uomini adulti del villaggio partivano una volta a mese per stare dieci quindici giorni a caccia di bisonti nelle praterie.

Erano tornati il giorno prima, con un discreto bottino e le carni erano già state preparate per l'essiccazione.

La gente ora pensava a riprendersi dai festeggiamenti della notte appena passata.

Sial sgranocchiava un po' di pane della sera precedente, con un po' di insaccato appena tagliato. Alla sua età non gli permettevano ancora di bere del vino e quindi risentiva appena dello stordimento di cui invece stava ancora soffrendo suo padre, uno dei cacciatori del villaggio.

Aveva ucciso due bisonti, suo padre, e procurato pelli per l'inverno, suo padre.

“Sial vammi a prendere dell'altro pane da Nisul, qua di fianco, e tornando riempi il fiasco di vino per il pranzo”.

Sua madre non era mai stanca di urlare ordini.

Sial ingoiò l'ultimo pezzo di pane e si alzò dalla sedia, uscendo di casa.

Si ritrovò in strada, nella strada principale. In fondo ad essa, sotto al grande salice, c'era il pozzo scavato molti anni prima che lui decidesse di nascere.

Il pozzo forniva poca acqua, ma spesso ne veniva portata dal fiume grazie ai carri ed a numerose cisterne di legno.

Queste veniva poi poste in grandi buchi scavati nel terreno all'ombra di quattro grandi querce che fornivano ombra, acqua pronta per essere utilizzata.

L'anno precedente suo fratello maggiore aveva perso l'uso di un braccio e di una gamba in quella difficile e faticosa operazione, era morto nel mese seguente per le ferite riportate.

Raramente succedevano episodi del genere, ma nei sui tredici anni di vita Sial l'aveva visto accadere già 3 volte.

Bussò alla porta del vicino, che lo salutò con un sorriso e gli porse due pagnotte.

Aveva sentito sua madre e aveva già preparato l'occorrente: “Su sbrigati, prima che quella santa donna di tua madre si arrabbi”.

L'uomo gli strizzò l'occhio con un gesto d'intesa, mentre gli accarezzava i capelli castani e lo spingeva verso casa.

Sial si affrettò verso l'entrata di casa sua e appoggiò il pane sulla tavola. Poi uscì nuovamente per recarsi nel magazzino usato come dispensa per il vino.

Fece tre passi, poi si voltò per andare a prendere il fiasco di vino vuoto da riempire.

Mentre rientrava in casa vide in fondo alla prateria una nuvola di polvere in movimento.

Si fermò un attimo ad osservare meglio strizzando gli occhio; qualcosa si muoveva, laggiù, e la polvere aumentava avvicinandosi.

Iniziò ad avvertire il terreno tremare sotto i suoi piedi e un rumore sordo fece capolino alle sue orecchie.

“Mamma..MAMMA!”.

Sial iniziava a capire cosa stesse succedendo e l'agitazione si stava impadronendo di lui.

“Mamma chiudi tutto! CHIUDETE TUTTE LE CASE! CORRO ALLA CAMPANA!”

Sial si girò, spalle alla porta, al rumore, alla nuvola, al sole e alla prateria.

Spalle a tutto, di fronte solo la campana.

“Sial NO!”

Le voci di sua madre, di Nisul o forse di suo padre si unirono in un coro implorante, ma Sial non poteva ascoltare, gli stava dando le spalle.

Le gambe mulinavano veloci mentre la campana vicino al pozzo si avvicinava rapidamente, ma non troppo.

Dietro di lui il rumore si faceva rombante, insistente, allarmante. Ma il ragazzo aveva deciso si non voltarsi a vedere.

Attorno a lui porte si aprivano e si sprangavano al vederlo passare, finestre si sbarravano assieme ad occhi che lo fissavano.

Una bambina più piccola di lui, la brutta Lilian, fece per gettarsi in strada e correre con lui, in un assurdo gioco, ma una mano nerboruta le afferrò il braccio impedendole il divertimento dietro ad una robusta porta di legno.

Le voci lo chiamavano attorno a lui, mentre correva, ma non le capiva. Sembravano tutti volerlo fermare, farlo smettere di correre.

Ma come?

Non capivano come lui stesse tentando di avvertirli del pericolo?

Come fosse fondamentale il suo ruolo in quel momento, per la salvezza del villaggio?

Ancora qualche passo, poi il dubbio iniziò ad insinuarsi in lui.

Il rombo era assordante alle sue spalle, la polvere oscurava il sole e Sial iniziava ad affaticarsi.

Ma perché l'avevano messa cosi distante la campana?

Perché non era al limitare del villaggio dalla parte della prateria, per avvertire del pericolo?

Perché invece era dalla parte opposta della strada?

Sial scacciò i pensieri dalla mente, mentre con l'ultimo balzo e con l'ultimo fiato saltava sul parapetto del pozzo, impugnando la corda della campana.

Si, finalmente aveva afferrato la corda della campana, finalmente poteva realizzare il suo sogno di salvare il villaggio da..salvarlo da..si voltò di scatto.

La mandria di bufali impazziti gli era addosso. La campana iniziò a suonare, forse per merito suo, forse per il tremare del terreno, forse per il suo stesso tremare di paura.

Tutto si fermò mentre si rendeva conto che la campana suonava solo per lui.

Solo lui aveva ancora bisogno di essere avvertito del pericolo, solo lui non si era chiuso in casa, solo lui stava guardando negli occhi folli il primo bisonte che si sarebbe schiantato contro il pozzo, spinto dalla massa, solo lui non vedeva più il sole e aveva gli occhi pieni di polvere, solo lui ricordava in quel momento che la campana serviva per avvertire il villaggio degli attacchi del villaggio vicino, nei secoli precedenti.

Solo lui aveva sempre sognato di suonarla.

Il primo schianto fu violento, contro le pietre che volarono in aria di fronte a lui.

Perse l'equilibrio e una zampa lo colpì di striscio alla gamba, facendogli provare dolore.

Si ritrovò in equilibrio precario sul bordo del pozzo, appeso alla campana che ora gli stava finalmente salvando la vita, adempiendo al compito che lui le aveva assegnato.

E poi il secondo bufalo si schiantò contro il primo, e il terzo, e infine il quarto lo investì in pieno, nell'ombra di un sole cocente nascosto da un torrente di polvere.

Il pozzo si richiuse sopra a Sial mentre ci precipitava dentro e la luce spariva. Sentiva l'aria scorrergli attorno mentre la sorpassava nella sua folle e involontaria corsa verso il fondo, la sua mano sentì appena la corda che teneva il secchio sfiorargli la mano.

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Riaprì gli occhi di scatto, madido di sudore.

Ancora una volta.

Era stanco, ormai, di ripetere quel sogno da anni.

Aveva si segnato la sua vita, ma era il passato.

Si era rassegnato a non poterselo togliere di dosso, o per lo meno non ancora.

Sial si alzò dal letto, bevve un sorso d'acqua e con il rimanente si sciacquò la faccia.

Si cambiò di pantaloni, mettendo quelli neri e leggeri; maglia marrone scuro, le scarpe di pelle che gli aveva preparato Lucia.

Il mantello lo lasciò sulla sedia, era abbastanza caldo anche senza.

Si fissò la cintura ai fianchi,e ad essa la daga affilata.

Uscì di casa e si diresse verso la strada principale della grande città nella quale lavorava da anni.

Si ritrovò subito sputato in un torrente di folla, agitata nell'indaffararsi quotidiano; le voci dei mercanti, della gente che chiacchierava e dei cavalli coprivano ogni altro suono, mentre l'odore dei primi preparativi per il pranzo si insinuavano nelle narici.

Sial si mosse tranquillo al bordo della strada, e si infilò tre edifici più in la.

Appena dentro voltò nella prima stanza a destra, salutò l'uomo spaparanzato sulla sedia e si diresse verso la porta di legno nero.

L'aprì.

La donna che vi ritrovò all'interno della stanza era della solita bellezza disarmante. Sedeva sulla sedia dietro al tavolo, rilassata nella sua cascata di capelli rossi, con in mano un bicchiere di vino bianco e nell'altra una pergamena.

“Preparati, domani ti aspetta un lavoro. Mi servi in forma e concentrato, c'è da guadagnarci parecchio”.

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Era seduto alla locanda, con una birra davanti.

Stava aspettando l'arrivo di Silviette, la sua giovane amica elfa.

Si trovavano sempre li a quell'ora del giorno, per due chiacchiere o per lavoro.

Oggi era per il secondo motivo.

"Domani arriva in città una carrozza dal Butindin, la città vicina.

Al suo interno viaggia Seynalin, la figlia del sovrintendente.

Porta con se un bauleto ricolmo di gioielli e soldi, perché progetta di rimanere nella nostra città per qualche tempo.

A me non interessa molto quel bauletto, quello è la tua ricompensa per il lavoro che svolgerai: questa volta dovrai procurartela da solo la paga."

Sial vide l'avvenente elfa entrare dalla porta, con il solito sguardo colmo di disprezzo per le guardie che bevevano al bancone.

Si sedette di fianco a lui, appoggiando i piedi in alto sul tavolo.

La sua solita abitudine.

"Oggi mi annoio. E' un po' che non facciamo qualcosa di interessante.

Spero tu abbia novità, o ti mollo qua e vado a trovarmi qualcosa da fare.".

La sua solita lingua tagliente.

Sial sorrise, afferrò la birra e se la scolò d'un fiato.

Si alzò in piedi, abbandonò due monete sul tavolo di legno e si mosse mentre ancora giravano su se stesse.

"Andiamo."

"Quello che affido a te questa volta è un compito leggermente diverso.

Come ben sai a Butindin abbiamo avuto dei problemi con le forze dell'ordine locali, i nostri contatti sono andati tutti a farsi benedire e sembra che l'organizzazione che hanno in quel posto ci impedisca di infiltrarci.

Non sono cosi idiota da pensare che l'astuta quanto brutta Seynalin sia qua solo per un viaggio di piacere, sicuramente progetta qualcosa con il padre.

Non vorrei scoprire tra un mese che le due città si stanno accordando per farci fuori anche qua.

Tuo compito sarà scoprire cos'è venuta a fare qua la bionda nobil donna.

Scegli il metodo che più ti aggrada ma devi evitare l'uso della violenza. La ragazza non deve sospettare di essere sotto controllo.

E' anche nel tuo interesse che la missione riesca, ti ritroveresti senza casa e senza lavoro.

Ora vai, voglio finire la mia lettura".

"Silviette, ti dico due cose: domani arriva una carrozza in città, da Nord. Fammi sapere dove alloggia, a che ora arriva, chi la attenderà e cosa preparano per il pasto degli ospiti. L'altra cosa è che se la noia è un problema allora basta dirmelo, provvederò a procurarti abbastanza guai da non farti dormire."

Un sorriso storto e complice scalfì il volto di entrambi mentre si voltavano le spalle per andare a svolgere i propri compiti.

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Nyal aveva fame. Sorrise quando pensò che le dicevano sempre che dopo una bella nuotata veniva un grande appetito: chissà cosa avrebbero pensato se avessero fatto una nuotata come la sua.

Aveva ancora la sensazione di sentire addosso di quella corrente forte che l’aveva ghermita appena si era gettata nel fiume per sfuggire alle guardie del regno di Menalo Nimquelote, il suo regno o perlomeno quello in cui era nata. Ricordava ancora il dolore provato quando colpì i primi sassi.

Poi sapeva solo che si era svegliata su quella spiaggia dove il fiume era più calmo e scorreva, immenso e placido, tra due rive verdeggianti. Guardando i suoi vestiti strappati, si ritrovò quasi a ringraziare qualcuno di non precisato per essere ancora in vita. Non riusciva a contare i graffi e le ecchimosi sulle braccia e sulle gambe, ma almeno sapeva che il suo corpetto di cuoio imbottito l’aveva protetta quel tanto che bastava per salvarla da quella che era una morte certa.

Si toccò il viso, sussultando per il dolore quando passò la mano su uno zigomo e sentendo sotto le dita il ruvido di altri graffi. Istintivamente portò una mano al fianco e trovò la spada. Poi si chinò e una fitta esplose nella sua testa, appena piegò il ginocchio, ma almeno servì per vedere che anche il pugnale era ancora nello stivale.

Ora era solo questione di trovare qualcosa da mangiare.

In vita sua non aveva mai cacciato, né aveva visto come si faceva. Aveva letto qualcosa sui libri che trovava per il castello, andando di nascosto ogni tanto nelle ali a lei non permesse. In cuor suo ringraziò ancora Nyalen, la sua badante che era stata la madre che non aveva mai avuto, per averle insegnato a leggere. Cercò subito di distogliere il pensiero da lei, visto che era stata uccisa proprio dalla sua spada. Era stato un errore, lo sapeva. Ma sapeva anche che non si sarebbe mai liberata dal senso di colpa.

Un frusciò alle sue spalle la fece sussultare, ma vide che era solo un uccellino che si alzava in volo da un ramo. In quel momento, per la prima volta da quando si era rialzata da terra con grande dolore, vide che poco oltre la riva iniziava una foresta di conifere densa e verdeggiante, mentre più avanti, ad una distanza che non sapeva minimamente stimare, gli alberi sembravano diventare rosseggianti, alcuni di essi addirittura neri. Strizzò gli occhi, pensando che fosse uno scherzo delle botte che aveva preso, ma vide che effettivamente i colori che aveva visto erano quelli. Ricordò di aver letto qualcosa su quella foresta, ma non le venne in mente nulla: in quel momento sapeva solo che doveva trovare qualcosa da mangiare. Nel suo periodo da barbona aveva anche imparato ad accendere un fuoco, quindi avrebbe potuto cuocere un animale. Solo che era abituata a cacciare topi e non qualcosa che fosse più grosso.

Al pensiero di una bestia enorme che le si parava davanti estrasse la spada. Gemette di dolore per quello che era in quel momento uno sforzo immane per le sue membra stanche e ferite, ma mantenne l’arma in posizione d’attacco, guardandosi intorno alla ricerca di qualsiasi minaccia. E proprio in quel momento vide che una parte del fiume entrava di più nella terra, creando una sorta di laghetto: forse in quel posto avrebbe trovato qualche pesce.

Ignorando il dolore, ma gemendo quasi ad ogni passo, corse verso la riva di quel piccolo specchio d’acqua. Sentì un urlo di gioia uscire dalla sua gola quando vide una decina di grossi pesci nuotare in quella rientranza. Impugnò meglio la spada e la abbassò con violenza, infilzandone uno al primo tentativo. Alzò la lama davanti ai suoi occhi, guardandolo dibattersi per un po’ prima di morire. In quel momento le venne in mente il giorno in cui uccise il padre, quel giorno in cui lui entrò nella sua camera senza sapere che fosse sua figlia, ma pensando che fosse solo una prostituta. Negli occhi ha ancora in mente il suo viso pieno di stupore quando gli tagliò i genitali e poi la gola con un unico movimento rotatorio della spada, rimanendo a guardarlo morire mentre il sangue inondava il pavimento. Forse, pensò con un misto di paura e rabbia, aveva provato più gioia in quel momento che con il pesce che teneva tra le mani.

Ne prese altri due e poi accese un piccolo fuoco per arrostirli, anche se la fame le fece mangiare il primo completamente crudo. Una volta mangiati anche gli ultimi, stavolta ben cotti, bevve un po’ di acqua dal fiume, sentendo lo stomaco che si ribellava. In effetti ne aveva vomitata così tanta appena si era svegliata su quella spiaggia, dopo essere stata sballottata priva di sensi per le rapide, che il solo pensiero di berne altra le dava la nausea.

Spense il fuoco con lo stivale e si incamminò verso quegli alberi rossi, seguendo la corrente del fiume che scorreva alla sua destra. Il suo corpo le diceva di dormire, ma prima voleva trovare un luogo sicuro e abbastanza nascosto dalle guardie del regno di Menelo Nimquelote che la cercavano per l’assassinio di suo padre, il re.

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Era l'ora di pranzo, Sial era a casa sua e stava consumando un pasto frugale.

Era una giornata calda e leggermente afosa e non aveva molta fame.

Dalla porta Silviette tentò come sempre di entrare senza farsi notare, ma in questo non poteva sfidare Sial; ovviamente se ne accorse e, mentre lei si avvicinava alle sue spalle, lui lanciò un pezzo di pane dietro di se.

"Mangia al posto di fare la sciocca".

"Uffa, non c'è gusto. Te ne accorgi sempre. Ma prima o poi ce la farò, e sarà la volta in cui ti ruberò il lavoro."

Si sorrisero, un po' per storto, e lei si sedette sulla sedia di fianco alla sua, addentando una mela.

Poi cominciò, masticando:

"L'antipatica Seynalin arriva questo pomeriggio tardi, quasi all'imbrunire.

La notizia che arrivi domani è falsa, neanche la taverna dove alloggia non lo sa.

Probabilmente è una balla che si sono inventati apposta."

Addentò un altro pezzo di mela, dopo aver deglutito l'altro.

"Le guardie del palazzo l'attendono alla locanda Da Cutin, quella all'angolo con il pescivendolo, dall'altra parte della città.

Quattro guardie se non sbaglio".

Entrambi continuarono a mangiare in silenzio. Lei sapeva che lui pensava, lui sapeva che lei aspettava le sue domande.

Sial si scolò il bicchiere di vino, dandosi qualche pacca sul petto per deglutire meglio.

Ruttò senza far troppo rumore.

Riempì nuovamente il bicchiere, poi si alzò per prenderne un altro per la sua amica.

"Non mi hai detto cosa ha chiesto per cena. E appena puoi trovami Botal, avrò bisogno anche di lui. Se tutto va bene questa volta potrò pagarvi un po' meglio."

L'elfa si mise più comoda sulla sedia.

"Dimmi una cosa: ma mi fai davvero cosi stupida?"

Lui la guardò incerto, mentre le portava il bicchiere di vino.

Poi sorrise e aggiunge:"Eheh certo, dovevo pensarci, sei tu l'investigatrice.

D'accordo, tu avrai una paga adeguata.

Non è necessario che Botal lo sappia..ci siamo intesi?".

Appoggiò il bicchiere al tavolo e lei con un sorriso d'intesa lo afferrò e ne bevve metà.

Fece schioccare la lingua sul palato:

"Comunque c'è qualcosa che mi puzza in tutto questo, prima di stasera dobbiamo rivederci."

Si avvio verso la porta dopo aver bevuto il vino rimanente.

La voce di lui la fermò:

"Beh?"

Lei afferrò la maniglia:"Pollo allo spiedo per le sue guardie e non troppo vino rosso.

Lei si fa preparare due bistecche di maiale alla brace per se stessa e la sua serva, verdure cotte sulla griglia e birra leggera, forse troppa per loro due. Di dolce hanno torta di mele e forse l'ostè le omaggerà con le sue olive nere con capperi."

Scomparve nella luce del giorno che nascondeva la città agli occhi di Sial.

Lui si sedette in divano, in attesa di Botal.

Riusciva ad immaginare lo scrigno sopra al suo tavolo, straripante di tesori.

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E così era quella la città. L’uomo nel bosco ne aveva parlato con reverenza e venerazione, ma a lui non sembrava più grande di quelle per cui era passato, e più piccola di buona parte di esse. Era abbarbicata attorno alle sponde di un piccolo fiume, lento e limaccioso, sormontato da esili ponti di pietra. Le strade lastricate erano tortuose e luride, per quanto riusciva a vedere, le case alte e strette, cascanti, si appoggiavano l'una sull'altra dando una sensazione di vertigine. Jack socchiuse gli occhi e percorse attentamente con lo sguardo l’avvallamento inaridito ai suoi piedi. Dopo giorni e giorni di cammino, era giunto alla fine della foresta. Pochi passi davanti a lui le chiome degli alberi si schiudevano alla luce del sole che faceva capolino fra le nubi.

I raggi dorati si riflettevano sui tetti di ardesia delle case, sulle vetrate e sulle cupole dei templi, abbagliandolo con il loro fulgore. La città era situata in una conca circondata da campi brulli spaccati dall'arsura e appezzamenti di nuda terra deserti e levigati come lame dal soffio incessante del vento. La polvere esalava dal terreno come fumo secco, in volute languida e pesanti. Un fiumiciattolo, poco più che un ruscello, rinverdiva la zona limitrofa; là si ergevano le case dei nobili e dei benestanti, bianche e slanciate, costruite in muratura, Sul suo greto si ergevano faggi, pruni e ontani. La costante brezza estiva cullava le loro foglie bruciate dal sole e ne scaturiva un suono remoto, lontano. L'aria fremeva per il caldo, e il cielo azzurro e luminoso lievitava come un miraggio sulla vista desolata che la circondava al limite della città, e fremeva di rimando.

Jack seguì il sentiero e cominciò a scendere dal colle, dal versante opposto dal quale era venuto. Ce l'aveva fatta ancora una volta, ma, per gli Dei, se era stata una lunga scarpinata, e non delle più semplici!

Rimase pensieroso e continuò a camminare di buon passo mentre il cielo si rannuvolava di nuovo. Sudava moltissimo, e non potè che contentarsi dell’arrivo di quelle nubi, che, sebbene non riuscissero a rinfrescare l’aria, gli proteggevano almeno viso e il collo nudo dal sole

Fu una lunga passeggiata nei campi e Jack si sedette due volte a riposare e rifocillarsi con il cibo che aveva comprato da quell’uomo nella foresta. Il cielo concavo sopra di lui continuava a cambiare e ad alternare la cecità opprimente delle nubi a un sole spietato.

A metà del pomeriggio sentì scorrere il ruscello e seppe di essere quasi giunto alla sua meta. Accelerò il passo e cominciò a scorgere i tetti di ardesia delle case dei sobborghi; il sentiero confluiva in una piccola strada sterrata, solcata ai lati dal passaggio dei carri. Giunto fra le capanne dei contadini che circondavano le mura della città, si rivolse a una donna di mezza età che stendeva il bucato su di un filo bianco.

La salutò brevemente e le chiese se ci fosse un armaiolo in quel villaggio. La donna sembrò riflettere un momento prima di rispondergli, come se non intendesse alla perfezione cosa le volesse dire, poi sorrise e gli disse di rivolgersi a un tale nel centro della città. Aveva un accento strano, ma le sue parole gli risultarono perfettamente comprensibili. Prima di proseguire, venne a sapere il nome di quella città: Carat. Di sicuro non l'aveva mai sentita, ma era come se scaturisse un lievissimo rintocco nei più remoti androni della sua memoria. Non la conosceva, quella città, certo che no, ma era come se...

Smise di pensarci e continuò a camminare. Arrivata alle mura della città, si accodò a una piccola folla eterogenea che attendeva il proprio turno di entrare. Le guardie all'ingresso non lo degnarono di uno sguardo e lui tirò un sospiro di sollievo. In città le case di pietra si facevano sempre più alte e strette. Molte sembravano essere sul punto di crollare su sè stessi come castelli di carta alla prima folata di vento.

La casa dell’armaiolo, costruita in pietra e sormontata da una lastra di ardesia, era situata accanto a un'osteria e una conceria di pelli. Era anche la sua officina, poiché dalla porta aperta Jack udiva chiaramente il rumore del metallo che batteva contro il metallo.

Si fece forza ed entrò, senza pensaci due volte. Era senza un soldo, e aveva maledettamente bisogno di un lavoro. Del resto, anche se non aveva completato nemmeno metà del suo addestramento, quando si trattava di ferro e argento, valeva tutti gli uomini del mondo messi assieme. Forse, questa era un’esagerazione, ma così gli piaceva pensare. Gli dava coraggio.

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Mirased e Lleyline sbarcarono poco prima dell'ora di pranzo al porto di Dord. Le loro tuniche verdi, i capelli di Mirased acconciati con alcuni rametti ed il torq di bronzo che indossava l'elfo, li fecero subito individuare per quello che erano: druidi dell'Arcipelago.

Qualcuno li adocchiò poco amichevolmente, ma i due ragazzi se l'aspettavano. I druidi mettevano di rado piede sul continente e questo aveva fatto guadagnare loro la nomina di popolo indifferente ed isolazionista. La realtà era ben diversa, ma in fondo non avevano mai fatto nulla per respingere i pregiudizi che la gente aveva su di loro, come non lo avrebbero fatto questa volta.

I due ragazzi scesero dalla nave guardandosi intorno, cercando un punto di riferimento.

Lleyline provò l'irrefrenabile desiderio di risalire sulla nave e di tornarsene a casa. La seppur piccola città portuale di Dord gli apparve caotica e priva di armonia, un luogo in cui la natura era stata piegata e resa schiava dei desideri umani. Nessun elfo avrebbe mai osato compiere un simile scempio di alberi e terreni. Per un attimo, gli passò per la mente che probabilmente la siccità era una calamità che gli uomini meritavano, ma il pensiero venne spazzato via dalla consapevolezza che quel flagello avrebbe colpito indistintamente chiunque.

Mirased invece trasse un sospiro di sollievo quando posarono di nuovo i piedi a terra. Il mare non le piaceva particolarmente, lo trovava incostante e capriccioso. Il contatto con il terreno la risollevò e le diede sufficiente buonumore per spronare il suo compagno di viaggio:

"Andiamo, Lleyline, non fare quella faccia. Non sarà così terribile come sembra".

Mirased non era impaurita dall'ambiente cittadino. La mole di nozioni storiche che aveva studiato con passione l'avevano riempita di sufficiente curiosità per il mondo al di fuori dell'Arcipelato, da non rimanerne spiazzata.

Nonostante questo, il senso di disorientamento colse anche lei.

In effetti, non avevano la più pallida idea di dove andare.

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Borgis sognava gli applausi.

Sognava la folla in estasi di fronte al suo doppio salto mortale eseguito con grazia, la folla che lo applaudiva mentre bucava ripetutamente un melone con i suoi coltelli, la folla che batteva il ritmo con le mani mentre lui danzava.

Quando lo spettacolo finiva, tutte le ragazze del paese gli facevano cerchio intorno, invocando un bis, un’ulteriore esibizione del suo talento.

E lui era Stellar lo Splendido, non Borgis Shilleran.

Con un’elaborata acrobazia, si liberava della presa della folla e con un elegante salto risaliva sul palco, agile, veloce, meraviglioso.

Il sogno si interruppe di colpo, e lui riaprì gli occhi.

Ognuno dei suoi cinque sensi gli inviava pessimi segnali: la luce negli occhi era accecante, e la schiena gli doleva atrocemente. La sua bocca era impastata di una fanghiglia nauseabonda e l’odore predominante era quello di marcio.

Ma la cosa peggiore erano le risate. Risate attorno a lui, forti, che gli martellavano nella testa.

Non solo, erano risate di scherno e di derisione nella gran parte dei casi, e qualche risatina di compatimento.

Borgis si rese conto di essere caduto dallo sgabello al bancone su cui stava seduto e sul quale si era addormentato.

La folla, gli applausi, le ragazze… era finita, erano solo un sogno.

Lui non era più lo Splendido.

Era solo Borgis, lo Sfregiato, Due-Facce, il MezzaMaschera.

L’oste lo sollevò di peso e gli fece ingoiare un conato di vomito. Gli tappò il naso e gli versò in gola il mezzo bicchiere di liquore che Borgis aveva già pagato. Gli urlò qualcosa nelle orecchie.

Altre risate. Altri soprannomi.

Un possente spintone lo fece crollare al di fuori del locale, sulla strada rovente e polverosa.

Lui era lo Splendido. Ed era bellissimo e magnifico.

Ora era sfregiato e rovinato, e si ritrovava come l’ultimo degli ubriaconi.

Si rialzò subito dalla strada. La polvere del suolo si era appiccicata alle piaghe della sua guancia ferita, impastandosi di sudore e procurandogli un lancinante bruciore e un terribile prurito. Cercò di pulirsi con la manica, ma l’abrasione del tessuto riaprì le sue croste strappandogli un altro gemito di dolore.

Aveva bisogno di bere.

Rientrò nella locanda. L’interno era cambiato: era più piccolo, più pulito, e puzzava di fumo e metallo. C’era solo un bambino all’interno e dietro al bancone non c’era l’oste.

«OS...» un forte attacco di tosse lo piegò in due.

«OSTE!» urlò al secondo tentativo, cercando di non vomitare mentre parlava «OSTE! DA BERE!» Si rivolse quindi al bambino al suo fianco, chinandosi per portarsi vicino al suo orecchio «Senti, ra-ra-ragazzo, vai a chiamare il tuo pa…» Borgis svenne a testa in avanti, addosso all’altro.

Jack lo aveva appena visto accasciarsi che il mastro armaiolo, un omone alto, largo e con la barba rossa sporca di fuliggine, entrò da una porta dietro al bancone.

«Chi diavolo ha urlato?»

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  • 2 settimane dopo...

Sial sedeva comodo ad un tavolo del buon Cotin, l'ormai vecchio cuoco veterano della Guerra dei Contadini.

Il volto era leggermente segnato da cicatrici, procuratesi forse in battaglia forse in cucina.

C'era poca gente ma si vedeva che il personale era molto attivo, in preparativi.

Forse avevano saputo da poco che Seynalin stava per arrivare e volevano fare bella figura.

Sial scolò il goccio di vino rimasto nel bicchieri, dopo aver inghiottito l'ultimo pezzo di pollo.

Aveva bevuto poco, per sicurezza, perchè voleva essere lucido.

L'aspettava una prova da grande attore.

Come s'aspettava bastò il tempo di bere una grappa leggera perché una carrozza arrivasse rapida di fronte alla locanda.

S'arrestò bruscamente, con gli uomini che gridavano ordini e un vociare di donne agitate innondò la locanda.

"Com'è stato possibile?? Io vi faccio decapitare!!"

"Signora si calmi, le guardie..lor.."

"..è stat oterribil.."

Le voci di tre giovani donne si accavallavano, assieme al nitrire dei cavalli e alle voci di uomini infuriati, mentre Cotin si apprestava ad uscire per scoprire cosa fosse successo.

Sial sorrise e attese all'interno, come il resto degli avventori incuriositi.

Dopo pochi minuti il giovane garzone del ristorante entrò velocemente dalla porta, carico di bagagli che pesavano più di lui, barcollando vistosamente tra un gradino e l'altro mentre tentava di salire le scale che portavano alle camere.

Poi entrarono le donne, una in testa a far strada con una camminata da mercenario infuriato, altre due al seguito con borsette, ventaglio e valigetta piccola.

"Non è possibile che succedano certe cose, è inammissibile, le guardie e il Re di questa città dovrebbero far qualcosa di più per proteggere.."

La sua voce svanì nel vano scale e dietro alla porta che si sbattè alle spalle.

Sial capi che le cose andavano per le lunghe e per non destare sospetti uscì dalla locanda.

Si fermò qualche minuto ad osservare la carrozza, le 2-3 frecce conficcate nel legno in zone non pericolose, la porta d'entrata sfasciata da un colpo d'ascia e la guardia leggermente ferita ad un braccio.

Si guardò attorno, e in fondo alla strada, di fianco all'edificio delle stoffe, vide Silviette che l'aspettava, appoggiata al muro.

S'incamminò al suo seguito, e lei scomparve dietro l'angolo.

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Nyal cadde a terra. Non sentì neanche dolore quando le ginocchia colpirono il terreno, come non lo sentì quando il resto del corpo le seguì. Eppure sentiva chiaramente le fitte che le arrivavano ad ogni respiro ansimante che emetteva.

Voleva alzarsi da terra, ma non riusciva a muoversi. Le faceva più male la consapevolezza di essere esausta ed inerme che il dolore stesso. Sentì improvvisamente qualcosa che le saliva alla gola, che la stringeva e che non riusciva a rigettare giù nel profondo. E così cominciò a piangere. Era un pianto disperato, di chi sa di non poter far niente, interrotto da singhiozzi che le davano delle stillettate che sembravano pugnali conficcati nella carne. Per la prima volta nella sua vita era veramente disperata. Neanche dentro al castello, chiusa nelle ali segrete, aveva mai provato un tale senso di solitudine, di perdita. Si trovava ferita in un luogo sconosciuto, braccata forse dai soldati di Menelo Nimquelote e non sapeva neanche se sarebbe sopravvissuta alla notte.

Non voleva morire.

Fu proprio il pensiero della morte a farle ricacciare dentro le lacrime, anche se qualcuna si ostinava ad uscire. Vinse la stanchezza che le imponeva di chiudere gli occhi e abbandonarsi al sonno, quindi si girò e poggiò saldamente le mani a terra, alzandosi carponi con la sola forza delle braccia. Ansimava come se avesse sollevato qualcosa di enorme. Strinse i denti e si mise in ginocchio, gemendo quando finalmente ci riuscì. Poi mise la gamba destra in avanti e tentò di alzarsi. Sentì subito un dolore lacerante esploderle in testa, tango che barcollò un po', rischiando di ricadere a terra. Ma proprio il pensiero di trovarsi di nuovo indifesa le fece trovare l'equilibrio e la forza adatta a rialzarsi in piedi, raggiungendo quindi la posizione eretta con un gemito di sofferenza.

Ce l'aveva fatta!

Sapeva però di non poter aspettare troppo a lungo per riposare. Si guardò intorno, sgranando gli occhi a causa della vista leggermente offuscata dalla stanchezza, e cominciò a cercare un posto per riposare. Come per la pozza di pesci, vide subito una piccola collina nel folto della foresta che aveva una rientranza ai piedi. Si avvicinò con passo insicuro e notò che vi era proprio una sorta di caverna naturale non molto profonda, ma abbastanza coperta dale piante da poter offrire un discreto rifugio.

Costringendosi ad un ultimo sforzo, estrasse la spada e si avvicinò cauta. Scostò alcune piante e guardò all'interno. Vi era solo un tappeto di erbe rigogliose e fresce che la stavano praticamente invitando a dormire su di loro. E lei accettò così in fretta che non si ricordò neanche che aveva chiuso l'entrata con i rami a cascata di un salice piangente lì accanto.

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Tutto era andato come si aspettava.

Silviette gli aveva confermato qualche ora prima che il baule era preso da Botal e qualche suo uomo fidato.

Era già stato nascosto in casa di Sial, che era fuori da ogni sospetto essendo stato visto in città, e che si sarebbero attesi momenti migliori per tirarlo fuori.

Era ancora sigillato.

Lui l'aveva mandata a sorvegliarlo e a tentare di capire cosa servisse per aprirlo senza rovinarlo.

Ormai era sera e Sial stava tornando a casa.

La giornata era andata come s'aspettava: era riuscito prima a parlare con una delle guardie della carrozza e, tra una birra e l'altra, a convincerla d'essere la persona giusta per cercare di scoprire dove fosse finito il forziere.

La guardia l'aveva portato a parlare prima con la serva di Seynalin, e poi con la Lady stessa.

Avevano avuto un breve colloquio nel quale lei, diffidente, l'aveva praticamente interrogato per capire che persona fosse.

Lui si era spacciato come un uomo di città, che aveva alcuni contatti giusti per capirne qualcosa e che l'avrebbe fatto volentieri; non sopportava la malvivenza che regnava nell'ombra in città e voleva far qualcosa per portare un po' di ordine.

Seynalin gli disse che era interessata ai suoi servizi e che l'avrebbe pagato anche se la ricerca avesse avuto successo ma lui rifiutò, sostenendo che l'avrebbe fatto comunque.

La cosa addolcì la Lady che si fidò maggiormente di lui ma comunque, quando fù finita la birra, lei si congedò formalmente dicendo che si sarebbero incontrati nei prossimi giorni per aggiornarsi e pregando di non far risaltare troppo la voce del furto subito.

Sial era soddisfatto, con attenzione e precauzione avrebbe potuto entrare nelle grazie della giovane donna. Non era semplice, ma poteva riuscirci.

Intanto la sua preoccupazione per questa notte era di vedere il forziere e scoprirne il ricco contenuto.

Svoltò l'angolo della strada e in fondo, a qualche centinaio di metri, intravvide casa sua finalmente.

E la finestra sul fianco scassinata.

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La rabbia montava in lui come la schiuma delle onde del mare.

Aveva indossato l'armatura leggera, aveva la spada leggera al fianco destro e la daga, sua arma preferita, su quello sinistro.

Cavalcava velocemente, infuriato, fuori città.

Quando era entrato in casa, agitato e infuriato come non mai, aveva trovato la casa deserta, del sangue a terra e nessuna traccia del forziere.

I suoi dubbi erano due: era stata tutta una messinscena di Silviette, per rubarsi il forziere ed apparire innocente, o qualcun'altro l'aveva rubato?

E quel sangue di chi era?

E soprattutto: oltre a Silviette e Botal, chi altro poteva sapere del forziere e dove trovarlo?

Ora, mentre il vento gli agitava i capelli nella sua indemoniata corsa, i pensieri si accavallavano senza ordine nella testa e le ipotesi fiorivano veloci.

Non sapeva cosa avrebbe fatto quando avesse trovato i ladri, chiunque fossero, ma era intenzionato a fare qualcosa.

Non era mai stato derubato in vita sua, aveva sempre rubato lui!

La cosa che lo stupiva era il fatto che i ladri non si fossero minimamente preoccupati di coprire le traccie della propria fuga, ma avevano invece lasciato ben evidenti i segni di due cavalli al galoppo verso nord-est.

Sembravano non andare ne in direzione di Butindin ne della temuta Foresta di sangue.

Che non avrebbero preso la strada principale verso Butindin l'aveva immaginato: troppi ranger, troppa gente, troppi controlli in quella città e sulla strada stessa.

La Foresta di Sangue invece era stata presa in considerazione più volte da ladri, rapitori o fuggiaschi, negli anni passati, proprio perchè temuta e sconosciuta. Non era mai stata però una scelta felice visto che nessuno di quelli che avevano osato avventurarvicisi era uscito da quel groviglio di alberi o, se ci era riuscito, la sua mente ne era risultata irrimediabilmente corrotta.

Ma si sa, la disperazione fa fare scelte discutibili, e quindi Sial si sarebbe aspettato di vederli andare in quella direzione.

Sicuramente chi aveva preso il forziere sapeva a chi l'aveva portato via e cosa rischiava, quindi la paura era molta.

L'unica altra possibilità era andare verso Sud, in quelle terre poco conosciute e senza città amiche per interi giorni di viaggio.

Scelta decisamente altrettanto infelice.

Il mare poi era da non considerare minimamente.

Poche navi partivano da la, il porto era molto controllato e nessuno con buone intenzioni avrebbe preso a bordo due persone con un forziere e, forse, una ragazza ferita.

L'unica possibilità che veniva in mente a Sial era che i due ladri avessero un imbarcazione lungo il fiume, e che volessero raggiungerla per poi risalirlo, lentamente.

C'era un punto lungo il fiume dove era possibile fare questo e le tracce sembrava voler portare proprio la.

Sial si rese conto di non poter cavalcare tutta la notte dietro a loro e sperare che il cavallo ce la facesse per più d'un giorno, quindi decise di rischiare.

Prese una scorciatoia che conosceva per raggiungere il porticciolo sul fiume, sperando di anticiparli; avrebbe risparmiato due ore di cavalcata, ma rischiato di perdere le tracce, ma ne valeva la pena.

-------------

Era notte inoltrata quando Sial cominciò a percorrere la strada che andava dal porticciolo verso la città, a ritroso cercando di ritrovare le tracce.

Era arrivato probabilmente prima dei ladri al porto e l'aveva trovato controllato da molte facce a lui conosciute: c'erano una quindicina di mercenari, assassini e malviventi vari appartenenti all'associazione di cui lui stesso faceva parte.

Non era una cosa normale, non si erano mai interessati a quel posto, e sembravano aspettare l'arrivo di qualcuno.

Dopo qualche minuto di meditazione aveva capito che probabilmente Silviette centrava poco in tutto ciò, l'organizzazione non la considerava e conosceva molto.

Probabilmente c'era qualcosa sotto, e Sial aveva tutta l'intenzione di scoprirlo.

Dopo pochi minuti di trotto trovò le tracce di uno dei cavalli, tracce che facevano capire che dopo esser andato verso la città era anche tornato indietro.

Ci mise una mezz'ora buona a capire come fossero andate bene le cose, alla poca luce fornita dalla luna.

L'inseguimento era complicato al buio e si rese conto di non poter continuare.

Il cavallo aveva bisogno di riposo e dopo essersi reso conto che le tracce prendevano la direzione della Foresta di Sangue decise di seguire le tracce per un altro chilometro e poi accamparsi fino alle prime luci del mattino in mezzo ad un gruppo di alberi.

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Si svegliò la mattina presto, affamato e poco riposato.

Dalla fretta non si era preso niente da mangiare, solo una borraccia d'acqua, e neanche una coperta.

Per fortuna la notte non aveva fatto molto freddo, come succedeva da qualche tempo, e questo l'aveva aiutato.

Risalì a cavallo e partì nella direzione delle tracce che ora vedeva più nitide.

Man mano che avanzava si accorgeva che la direzione era senza dubbio quella della Foresta di Sangue.

La cosa lo preoccupava abbastanza: non conosceva quel luogo, ci si era avvicinato solo una volta senza provare neppure ad addentrarsi. Ora era privo d'equipaggiamento, senza un esploratore esperto ad accompagnarlo e con una paura fo7tuta di perdersi la dentro.

Decisi di proseguire lo stesso: probabilmente i ladri erano nelle stesse condizioni, visto che pensavano di partire in barca, e magari non si sarebbero addentrati ma avrebbero preferito aggirarla diretti chissà dove.

Sicuramente la loro cavalcata non era facile con il forziere.

A giudicare dal poco che sapeva di inseguimento tracce aveva l'impressione che entrambi i cavalli fossero appesantiti. Lasciavano impronte molto più pesanti di quelle del suo cavallo, ed erano uguali tra i due cavalli.

Quindi l'idea che gli venne in mente era che su uno dei due cavalli ci fosse un uomo con il forziere, mentre sull'altro due persone, o una sola ma ricoperta d'armatura, cosa che dubitava.

Accelerò l'andatura e dopo due ore di cavalcata trovò il posto dove si erano accampati.

Restò fermo solo qualche minuto a controllare i segni, ed ebbe la certezza di tre corpi accovacciati a dormire. Su uno degli alberi c'erano anche dei segni di corda contro il tronco.

Ripartì e si accorse che le tracce erano più fresche e recenti. Man mano che passava il tempo pensava a cosa avrebbe fatto una volta raggiunti i ladri e si rendeva sempre più conto di non saper cosa fare.

Ma d'altronde non poteva neanche lasciare perdere e tornare indietro.

Non sopportava l'idea del furto in casa propria, nella propria città. Se si fosse saputo la sua reputazione sarebbe stata rovinata e voleva scoprire chi era stato ad entrargli in casa e come faceva a sapere del forziere.

In più era anche preoccupato per Silviette, alla quale poteva essere successo qualcosa.

Rimpiangeva il fatto di non aver aspettato Botal per iniziare l'inseguimento.

Dopo mezz'ora di cavalcata arrivò a circa un chilometro di distanza dal margine della foresta.

A quel punto le tracce svoltavano verso Ovest, verso il fiume, come a volerlo risalire. Vedeva i segni che indicavano che si erano fermati qualche minuto sul posto, come a pensare al da farsi, e poi si erano mossi.

Proseguì piano, cercando di fare poco rumore, perchè le tracce erano evidentemente fresche.

Percorse qualche centinaio di metri, poi sentì alcune voci.

Allora si fermò, tornò indietro di qualche centinaio di metri e legò il cavallo ad un albero.

Poi proseguì a piedi, silenziosamente, nuovamente verso le voci che ormai erano ferme.

Percorse le ultime decine di metri acquattato, con la daga nella mano destra, l'armatura leggera ben chiusa addosso e tutti i sensi all'erta.

Si nascose dietro a due alberi: in un piccolo spiazzo tra i licheni, 20 metri più avanti, tra tre alberi, stavano due uomini con due cavalli, e Silviette legata ad un albero.

Il forziere era dietro a loro, chiuso.

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Il sole entrò con dolce prepotenza tra i folti rami del salice piangente ed andò a posarsi sugli occhi di Nyal, che li aprì lentamente, lasciando che la luce la accogliesse senza farle male. Si stiracchiò e si sorprese nel sentire che i dolori che aveva il giorno prima si erano molto attenuati, segno che la nottata le aveva dato il ristoro di cui aveva bisogno.

Si alzò dal giaciglio di foglie ed uscì dal suo rifugio improvvisato, scostando i rami del salice come fossero le tendine di una casa. Già, una casa, un elemento della sua vita che non aveva mai avuto, se non durante gli anni passati in quella taverna a fare la prostituta e ad allenarsi con la spada.

Scosse la testa come a cercare di scrollarsi fisicamente di dosso i pensieri e si avviò verso il fiume. Si chinò sulla riva ed immerse le mani nell'acqua limpida, sciacquandosi il viso e bevendo un pochino. Sentiva di avere una leggera fame e che quei pesci trovati il giorno prima non erano stati abbastanza per saziarla. Si rialzò quindi in piedi, saggiando le sue gambe mentre si toccava e guardava le braccia per verificare l'entità effettiva delle ferite e delle contusioni che aveva subito quando era stata trascinata dal fiume. Aveva ancora le numerose escoriazioni ed i lividi non erano spariti, ma almeno i muscoli non le facevano male come il giorno prima, permettendole di camminare ed estrarre la spada senza accusare troppo dolore.

Controllandosi l'equipaggiamento, si incamminò in direzione di quegli alberi rossi e neri che vedeva stagliarsi a circa un chilometro da lei. Non sapeva dove andare e quindi si stava semplicemente limitando a seguire il fiume, sperando che prima o poi avesse attraversato un centro abitato. Sinceramente non aveva la minima idea di cosa avrebbe fatto una volta trovato un villaggio o una città, essendo priva di soldi, ma ricacciava indietro la preoccupazione dicendosi che ci avrebbe pensato una volta arrivata.

Arrivata al primo albero dalle foglie rosse, alzò lo sguardo per osservarlo meglio. Aveva visto degli alberi rosseggianti in qualche quadro del castello ed anche durante qualche autunno, ma quella tonalità era di un rosso acceso, come quello dei vestiti dei giullari. Non aveva nulla di normale. Si avvicinò al tronco e ne toccò la corteccia, sentendo una consistenza vellutata sotto le sue dita. Ritrasse la mano e la guardò, notando una sottile patina rossa che le era rimasta attaccata alla pelle. Sentiva una leggera paura salirle in corpo, eppure non provava bruciori o comunque sensazioni dolorose, quindi quella patina forse era solo una cosa naturale ed innocua.

Si pulì sul corpetto di cuoio e si inoltrò nella foresta. Dopo pochi passi notò subito che l'atmosfera era strana, come se ci fosse una sorta di sottile nebbiolina. Le dava l'idea di una di quelle foreste maledette delle favole che le raccontava Nyalen, la sua badante. Sentiva quasi il bisogno di andarsene di corsa, cercando magari un'altra strada per costeggiare il fiume, ma aveva visto che l'estensione della foresta era tale che l'avrebbe portata fuori strada, senza contare il fatto che senza acqua non sarebbe sopravvissuta molto. Di attraversare la corrente non se ne parlava nemmeno, visto il suo recente viaggio tra le rapide di cui portava ancora i segni.

Decise quindi di inoltrarsi, tenendo i sensi all'erta. Ogni tanto abbassava la mano destra sull'elsa della spada, come a voler verificare che fosse effettivamente al suo fianco.

Poi iniziò a rilassarsi. I profumi che sentiva la inebriavano, tanto che cominciò a sentire la testa leggera, come se stesse per addormentarsi. Eppure si sentiva sveglia come mai lo era stata, scoprendosi quasi eccitata all'idea di un'avventura. Sperava quasi di incontrare qualche creatura per farle saggiare la spada. Si l'avrebbe trafitta e avrebbe banchettato con le sue carni. Improvvisamente cadde a terra e cominciò a ridere sguaiatamente al pensiero di mangiarsi un enorme vermone viscido, mettendoci un po' di sale. Si rialzò improvvisamente, ondeggiando per un leggero mancamento, solo per poi iniziare a correre, urlando con tutta la voce che aveva in gola. Gli alberi intorno a lei sembravano fantasmi che apparivano e scomparivano al suo passaggio, circondati di una nebbia color sangue. E lei correva ancora, la sua voce quasi roca che minacciava il tramonto, verso il quale lei diceva di stare correndo.

Poi vide una mano artigliata che la voleva ghermire. Estrasse fulmineamente la spada e troncò di netto il ramo di un albero, facendo fare la stessa fine ad un'altro lì vicino. Si nominò "sterminatrice di alberi" e andò avanti con l'arma sguainata a fare giustizia di tutti quei rami che assomigliavano ad artigli. Cadde a terra di nuovo e di nuovo le venne in mente la scena di lei che salava e mangiava il vermone con un tovagliolo al collo, come la più barbara tra gli avventori delle osterie. Scoppiò a ridere ancora, fino a quando cominciò a tossire. Si alzò quindi in piedi, barcollando vistosamente e ricominciò a correre verso un albero verde lontano. Voleva tagliarlo, visto che non era rosso o nero come gli altri e quindi non si meritava di stare in loro compagnia.

Ma proprio in quel momento, vide dei movimenti nei pressi della sua vittima designata. Il sorriso scomparve dal suo volto. I suoi occhi si chiusero in una fessura di rabbia e odio. Riconosceva quelle armature: erano le guardie del regno di Menelo Nimquelote! Sicuramente la stavano cercando, ma stavolta sarebbe stata lei a trovare loro, dopotutto aveva affrontato e mangiato un verme gigante, quindi quei due sarebbero stati uno scherzo.

Volse gli occhi ad un albero accanto ai due e vide una ragazza legata ad esso. Il cuore le balzò in gola quando vide che era Nyalen. Era viva! Ferita, ma viva.

Quei due l'avrebbero pagata!

Scattò verso di loro con una velocità che non pensava potesse avere. Vide i due estrarre le loro armi, ma uno non fece in tempo a farlo che la spada lo trafisse alla gola, non dandogli neanche modo di urlare.

Nyal sogghignò soddisfatta, mentre l'altro uomo la attaccava. Parò il primo fendente con una tale potenza che sentì tremare il suo braccio, ma quando si accorse di non provare dolore, attaccò a sua volta. Era una furia in combattimento. L'uomo non poteva fare altro che cercare di parare tutti i colpi che quella ragazza sbucata dal nulla gli stava infliggendo con una forza che non avrebbe mai immaginato potesse avere. Aveva a malapena il tempo di vedere il corpo di lei con i vestiti strappati, ma coperto di rosso, come gli alberi della foresta di sangue, come gli occhi di lei che lo guardarono con odio e soddisfazione mentre moriva trafitto dalla lama della spada.

Nyal ansimava, il volto quasi deformato da un sogghigno che sembrava il ritratto della malvagità e della vendetta. Osservava i corpi insanguinati a terra con quelle armature che odiava e non poteva fare a meno di sorridere. Prese dell'acqua dalla borraccia che avevano con loro e si sciacquò accuratamente il viso. Sentì un leggero mancamento e cominciò a farle male la spalla sinistra. Girò lo sguardo verso di essa e notò una ferita sanguinante, anche se non sembrava profonda. Seguì un'altra fitta di dolore e scoprì di avere anche un fianco ferito che ancora sanguinava. Come aveva fatto a non sentire il dolore?

In quel momento si ricordò di Nyalen legata all'albero e accorse verso di lei. Sentiva che le forze la stavano abbandonando e neanche il pensiero del verme da mangiare la faceva sorridere, anzi le provocava un leggero conato di vomito. Ma si fece forza e raggiunse la prigioniera, solo per svenire quando vide che era un'elfa di circa diciotto anni.

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I due giovani druidi rimasero ad osservare le strade strette e sinuose che si tuffavano tra gli ineguali grappoli di edifici, un'accozzaglia disordinata di case di dimensioni diseguali, di colori contrastanti e dalle facciate scrostate dal tempo e dall'aria salmastra.

Erano partiti con l'entusiasmo del viaggio e della scoperta, ma con una ben misera indicazione sulla loro destinazione. Erano giunti a Dord con un solo nome: Treram Adufir, il Capitano della Guardia Portuale. Era stato detto loro che quell'uomo, prima di entrare nel corpo armato, era stato un marinaio sui mercantili che giungevano alle isole dell'Arcipelago per commerciare con le popolazioni locali. Svolgevano spesso anche un servizio di trasporto passeggeri, in quanto erano le uniche imbarcazioni che percorrevano quelle rotte.

Mirased sapeva che l'attuale Capitano Adufir, in quei tempi, sbarcava spesso sulle coste dell'isola di Cymru insieme al resto dell'equipaggio, per incontrare i druidi e per ricevere la loro benedizione per il viaggio, perché nessuno credeva più negli antichi dei dei boschi, ma un uomo del mare sa quanto ogni aiuto divino sia sempre ben accetto. Ovviamente ai marinai non era permesso penetrare all'interno dell'isola, terreno sacro ed inviolabile per gli estranei, ma sulla costa era stato allestito un piccolo tempio per accogliere i visitatori.

Treram Adufir si era mostrato particolarmente curioso nei confronti dell'antica e mistica religione dei druidi e così il giovane marinaro, grazie a quegli incontri, divenne il più stabile contatto tra le isole e la terraferma. Era lui che riportava le notizie del mondo delle città ed era lui che riportava a casa sua le parole dei sacri druidi, ancora considerati i detentori della saggezza ancestrale, ma forse troppo lontani perché la loro influenza rimanesse forte come nei tempi antichi.

Ora che era Capitano della Guardia Portuale, era stato considerata la persona più affidabile a cui rivolgersi. Il suo compito sarebbe stato quello di accompagnarli fino al tempio di Siemar, la dea elfica dagli occhi felini. Gli elfi erano rimasti legati alle loro antiche divinità, nonostante la nascita e la crescita delle città umane e Siemar era tra le più amate, onorevole e misericordiosa allo stesso tempo.

Gli elfi avrebbero ascoltato le parole dei druidi e li avrebbero aiutati a cercare le prove di cui avevano bisogno per confermare i propri timori. I druidi erano difatti ancora tenuti in considerazione nel continente, ma gli uomini avevano ormai dimenticato la calamità che li aveva lasciati in ginocchio tanti anni prima e ci volevano dei dati palesi da presentare ai responsabili politici, prima che questi si attivassero per mettere in atto le misure preventive.

Mirased e Lleyline si incamminarono incerti verso la parte nord del porto, dove sorgeva un edificio massiccio e di un grigio scuro, con due guardie davanti ad un desolante cancello di opaco ferro battuto, il quale interrompeva a metà la palizzata che racchiudeva il palazzo ed un ampio spiazzo di fronte ad esso. Sembrava tutto così logoro, così trascurato, si ritrovò a riflettere la giovane. Si voltò verso l'elfo e scoprì nel suo sguardo lo stesso disappunto, misto a qualcosa di simile al disprezzo.

Sapeva che per Lleyline lasciare l'isola aveva voluto dire abbandonare un luogo di pura bellezza e di sacralità. La città doveva apparirgli insulsa e sporca, priva dell'armonia a cui il suo spirito era legato.

Mirased velocizzò il passo, come se potesse in quel modo diminuire il senso di disagio suo e del suo compagno.

Quando furono abbastanza vicini al cancello, le guardie bloccarono loro il passo, ma, riconoscendo la provenienza dei due giovani, aprirono il pesante cancello e li lasciarono passare, senza rivolgere loro la benché minima parola.

I due ragazzi passarono oltre, inghiottendo saliva pieni di nervosismo. Il senso di inadeguatezza crebbe, ma non permisero ad esso di sopraffare l'orgoglio.

Giunsero così alla porta del palazzo, aperta e pronti ad accoglierli in un abbraccio di mattoni e mura senza luce.

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Sial era incredulo, ancora dietro l'albero.

Aveva osservato sbigottito quella pazza uscire da dietro gli alberi e macellare quei due ladri.

Ora sembrava svenuta, davanti a Silviette, che come lui aveva gli occhi spalancati dal terrore.

Il ragazzo usci guardingo dal suo riparo, avvicinandosi lentamente. I due uomini giacevano riversi in pozze del loro stesso sangue e non c'era il pericolo che si rialzassero. Silviette lo vide finalmente e iniziò a mugugnare con il fazzoletto che le copriva la bocca.

Lui si avvicinò sempre attento, con la daga in mano, pronto a reagire ad ogni singolo movimento della ragazza stesa a terra.

Quando fù vicino allontanò con un piede la sua spada e lei non reagì minimamente; Sial si rilassò, si avvicinò alla sua amica e la liberò dal bavaglio.

"Finalmente, non ne potevo più. Perchè ci hai messo tanto?"

Sial sorrise, la lingua tagliente della sua amica non si smentiva mai.

Con la daga tagliò le corde che la legavano, e poi ripose l'arma nel suo fodero.

"La conosci questa pazza indemoniata", le chiese.

"Mai vista prima d'ora, ma è una fortuna che sia passata di qua."

"E quei due li conosci?".

"Certo. Pensavo li avresti riconosciuti anche tu, lavoravano a Butindin nell'organizzazione, prima che la legge smantellasse tutto. Da quello che sapevo ora qualche lavoro lo svolgono nella nostra città, di tanto in tanto, ma il capo non si è mai fidato troppo di loro. E a quanto pare ora hanno deciso di rivoltarglisi proprio contro e mettersi in proprio".

"Uhm..Non ne sono poi cosi sicuro. Al porto sul fiume ho visto alcune facce che sembravano proprio aspettarli, non so se amichevolmente o meno.

Comunque in tutto ciò c'è qualcosa che non mi torna..".

"Te l'avevo detto anche io.", disse l'elfa con lo sguardo di una che la sa lunga, " dovremo investigare per capire che è successo."

"Si, direi di si. Il forziere è ancora intatto vedo".

"No, non è intatto. L'hanno aperto già appena fuori città, prelevando qualcosa che poi hanno dato ad un uomo che hanno incrociato a metà strada. Non sono riuscita a vedere nulla di lui, ho solo sentito per un attimo la voce, ero ancora stordita dal sonnifero."

Sial si rabbuiò, la cosa non gli piaceva affatto.

"E di questa che ne facciamo ora?", chiese all'elfa.

La ragazza l'osservò a lungo. Le girò attorno, la rovesciò a pancia all'aria. Sembrava profondamente addormentata, tutta ricoperta di quella strana patina rossa.

"Non so chi sia, ne da dove venga ne perchè l'abbia fatto, ma ti ha salvato la vita ed è ferita in più punti. La carichiamo sul cavallo, la riportiamo in città e la affidiamo a Botal, che la curerà e vedrà che farne. Potrebbe anche tornare utile un giorno, sembra abile nel combattere."

L'elfa lo guardò qualche secondo, poi annui e iniziarono a prepararsi.

I due corpi decisero di lasciarli li dov'erano, coperti leggermente dalle fronde di alcune piante, e di non perderci tempo.

Ripartirono a cavallo, prendendo la strada più breve che Silviette conoscesse.

Si fermarono in una casa appena fuori città, dentro ad una grotta, dove viveva Botal quando voleva nascondersi.

Trovarono l'uomo intento a preparare armi mentre il pranzo si cucinava.

Li accolse con stupore, soprattutto riguardo a quella sconosciuta che gli avevano portato in casa.

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