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  1. Ecco qua la mia prima gallery. Spero che vi piacciano!! Avanti con le critiche e con gli aiuti!!
    1 punto
  2. questo è il BG di un PG donna che interpreterò per un PbF qui, master Elayne... beh, pareri pareri pareri! x Forse fu la quantità di vino ingerito per la tensione, o forse la tensione stessa dell'imminente incontro, a impedire al sonno ristoratore di impossessarsi di lei, quella notte. Rimase accucciata nel suo giaciglio, incurante dell'umidità che scendeva sempre più densa man mano che la pallida luna raggiungeva lo zenit, immersa nei pensieri. Il fiumiciattolo scorreva pigro poco lontano, e il borbottìo delle piccole creature della notte sembrava fondersi nella litanìa dell'acqua che scendeva verso Sud. Le venne alla mente l'immagine di suo padre, sempre coperto da un velo di farina, i lunghi baffi color cenere che gli impreziosivano il viso forte e deciso. Anche lì vi era un corso d'acqua, che dava la forza necessaria a far girare le pale del mulino. Le lunghe corse nella distesa di grano, gli spaventapasseri costruiti con pazienza, il carretto pieno di pagnotte che ogni mattina il padre portava in città. Poi le venne in mente la madre, sempre intenta nei suoi lavoretti domestici. Era felice, si ripetè nella mente. Era molto felice. Ma quella felicità fu troncata precocemente, recisa come i fili di grano che il padre tagliava con la sua falce. Un'orda di invasori giunse dal Nord, e saccheggiarono e depredarono tutte le piccole ricchezze della cittadella. Poche cose rimasero in piedi dopo quella scorreria: l'unico edificio che rimase quasi intatto fu il tempio di Pelor, le cui mura furono solo scalfite dalle lance e dalle spade degli invasori. Si girò nervosamente. Anche i suoi genitori perirono in quella orrenda carneficina. Era piccola abbastanza per nascondersi tra le macine del mulino, e fece da spettatore invisibile all'uccisione della sua famiglia. E poi, come tante altre anime perdute, cercò rifugio presso le mura amiche del tempio di Pelor. Lì trovò persone disponibili e gentili, che la accolsero come una figlia, istruendola alle arti letterarie e a quelle marziali. In effetti, la sua mente era poco attratta dagli studi filosofici e teologici, e volse la sua attenzione primaria all'addestramento nella lotta. Crebbe robusta e agile, e in breve divenne una paladina rinomata e rispettata. Portava in giro nel mondo la parola di Pelor attraverso la sacra punizione degli infedeli con le sue armi, e la sua reputazione cresceva di pari passo con la sua forza. In particolare, il chierico superiore della sua città sembrava avere una particolare predilezione verso di lei. Devonius... Al solo pensiero di quell'uomo il sangue si fece denso e cominciò a scorrere veloce nelle sue vene. Quel bastardo, pensò. Eppure era così affabile, non perdeva occasione di accompagnarla nelle sue avventure, curandola e confortandola nei momenti più difficili. Addirittura, la promosse guardia del corpo personale. Ma gli occhi... Oh, gli occhi... Quegli occhi grigi tradivano attenzioni che andavano oltre la semplice stima e il dovuto rispetto. Se ne accorse tempo prima, ma distolse quel pensiero impuro dalla mente, dando la colpa di ciò al suo eccessivo sospetto e sfiducia verso le persone. Si alzò dal giaciglio, ormai consapevole che quella notte non avrebbe dormito, e ripose le sue cose nel tascapane, coprì il piccolo fuoco con del terriccio, e si rimise in cammino. Non potè fare a meno di continuare a pensare alla sua storia, a ciò che l'aveva portata a quel punto. Quella notte... Erano tornati quella mattina da un villaggio nelle vicinanze, nel quale si sospettava operasse un gruppo di chierici di Nerull. In effetti, i sospetti erano fondati, e grazie alla sua abilità riuscirono a trovare la cripta sotterranea e ad estirpare l'eresia. Festeggiarono insieme quella sera, ma notò che Devonius alzò troppo il gomito, e si lasciò andare ad espressioni quanto meno colorite, nei suoi confronti. Raggiunto il massimo della pazienza, decise di andarsene da quelle stanze, ma il chierico la colpì con un manganello dietro la nuca, e mezza intontita, la sbattè sul suo letto. Cominciò forsennatamente a strapparle le vesti da dosso, ed ella fece di tutto per scansarsi, ma il colpo era stato alquanto forte, e i muscoli rispondevano poco e male ai suoi comandi. Non potè far niente, nemmeno gridare, per evitare il perpetuarsi di quella atrocità. Passò la notte lì, distrutta più nello spirito che nel corpo, sentendo il rumoroso russare di quello che fino a qualche ora prima riteneva essere il suo protettore. Era quasi l'alba quando riuscì ad alzarsi dal talamo, si avvolse attorno al corpo ciò che rimaneva dei suoi abiti, e ondeggiò fino alla sua stanza. Sospirò... Prese con una mano l'otre che le pendeva dal tascapane, lo avvicinò alla bocca e bevve un altro generoso sorso di vino. Avrebbe tanto voluto dimenticare tutta quella faccenda. Ma sapeva che più si sarebbe sforzata, maggiore sarebbe stata l'intensità di quelle immagini. Ricordava ancora con chiarezza l'indifferenza di Devonius nei giorni a seguire. I suoi sguardi tranquilli, le sue parole pacate, come sempre. Decise di agire di istinto, come le era solito, d'altronde. Una sera entrò nelle sue camere, portando con sé una effigie di Pelor finemente decorata. Lo trovò seduto alla sua scrivania, intento a redigere alcuni registri. Sbattè con forza il simbolo dello Splendente sul tavolo, e pronunciò con tono tagliente e accusatorio: “E' così che porti avanti il credo del nostro Dio? Stuprando le sue paladine?” Il chierico socchiuse gli occhi, e lentamente si alzò dalla sedia. Non sembrava minimamente preoccupato o intimorito. Dopo aver versato un liquido scuro in una coppa d'oro, lo avvicinò alla bocca, e disse: “Quelle bazzecole mi verranno rimesse. Le mie opere verso Pelor sono magnificenti, e questo mi basta per avere il suo perdono per queste frivole sciocchezze. Tu non saresti nemmeno una paladina, se io non avessi fatto...”, si accorse di aver detto troppo. Ma ormai il suo era un discorso lanciato, e non poteva permettersi di farsi vedere vulnerabile. Preferì mostrarsi sicuro della sua opera, e disse con tono deciso: “Il culto di Pelor stava scemando nella nostra cittadella. Non c'era timore... Paura... Insomma, l'impura gente di questo luogo stava per cadere nel pozzo dell'eresia, e io dovevo fare qualcosa”, la sua espressione diventò di colpo tetra e compiacente, “assoldai quella legione di mercenari, con l'incarico di portare in questo luogo il terrore che prima teneva fedeli i popolani. Ed essi lo fecero. Fu tutto distrutto, tranne questo tempio, che fu la casa e la salvezza dei superstiti, i quali impararono una volta per tutte a non abbandonare mai la fede per lo Splendente”. Un brivido di gelo le percorse tutta la schiena. Erano passati anni da quel momento, ma la disperazione ancora non era scivolata via in qualche angolino della sua mente. Ancora le provocava queste reazioni. Ricordò la sua fuga precipitosa, il suo correre senza meta all'interno del bosco che circondava la cittadella. Ricordò le lacrime. La rabbia. Il disprezzo. Decise di riferire tutto al gerofante di quella regione. Il sommo Sidmar avrebbe di certo provveduto a punire il suo malvagio sottoposto. Ebbe un colloquio sofferto con lui, la ferita fresca le bruciava troppo per contenere quelle emozioni e mostrarsi prode come le imponeva il codice di condotta. Sidmar ascoltò con attenzione le sue parole, e infine la invitò a riposarsi nel suo tempio per quella notte. Le assicurò che all'indomani avrebbe potuto tornare a casa, e le avrebbe fatto trovare un cavallo fresco per il viaggio. Così fu, e col cuore gonfio di amarezza ma con una scintilla di speranza, si avviò. Appoggiò la schiena al fusto di una grossa quercia, e diede un altro sorso. Dalle cime dei monti ad est cominciava a venir fuori un leggero bagliore violaceo, e i rumori sinistri del bosco notturno sparivano pian piano per far posto ai gorgoglî degli animali mattutini, felici di essersi salvati ancora un'altra notte dalle fauci dei predatori della notte. Si avvicinò al fiume, e si rinfrescò il viso. Era felice di non aver versato nessuna lacrima per quei ricordi. Le facevano male, certo, ma ormai non si nascondeva più che quel dolore era un pungolo fastidioso, ma di cui non poteva farne a meno. Ormai la malvagità non era più un ostacolo da sormontare, ma linfa da cui trarre forza vitale. Il dovere come piacere... E mentre si compiaceva di questi suoi pensieri, notò nel sottobosco uno scoiattolo troppo ansioso di fare provvista di cibo per aspettare le luci dell'alba che stava ormai per arrivare. Scese veloce dall'albero, facendo leva sulle sue minute gambe, e a saltelli raggiunse un cumulo di ghiande che erano cadute da un qualche albero. Lei notò anche quei piccoli occhietti gialli che spiavano tutta la scena da un cespuglio. Notò i movimenti sinuosi e furtivi che portavano il predatore alle spalle dell'ignaro scoiattolo. E godette al vedere i muscoli tesi dell'animale che cercava di scappare via, ma che era ormai stretto nella morsa di quel serpente. Volse lo sguardo, e gustò ancora per qualche istante gli squittii d'agonia del roditore. Poi si allontanò, tornando ai pensieri che aveva interrotto, mentre i raggi rossicci impazienti si affacciavano all'orizzonte dei monti più bassi. Arrivò in città verso quella stessa ora, ricordava bene il sole che timido si affacciava alle spalle della sua cittadella. Lasciò il cavallo nella stalla del tempio, e salì verso la sua stanza. Decise di chiudersi nel suo alloggio fin quando la notizia della scomunica del chierico superiore non l'avesse raggiunta per mezzo di qualche ancella. Aveva la schiena stanca per la cavalcata, e sebbene avesse dormito abbastanza tranquillamente, pensò di concedersi altro tempo per riposarsi. Ma una brutta sorpresa l'attendeva dietro le ante della porta della sua camera. Entrò distrattamente, e si accorse solo dopo qualche secondo che ai lati dell'ingresso erano piccati due militi cittadini. Si avvicinò perplessa a loro, intendendo chiedere il motivo della loro presenza, ma i due con uno scatto fulmineo la immobilizzarono e la ammanettarono. A nulla valsero le sue grida, le sue richieste di spiegazioni; la trascinarono fino alle camere di Devonius. La fecero entrare, e la sbatterono in terra. Il viso di Devonius aveva un barlume quasi demoniaco... “E così avevi intenzione di fare la spia, di farmi fuori... Noto con rammarico che ben poco hai capito del nostro ordine. Lo scopo che mi è stato affidato è quello di ingrandire il gregge dei fedeli di Pelor, e fin quando svolgo con successo questo compito, sono intoccabile. Quanto a te, deliziosa fanciulla”, si avvicinò e le passò la mano sotto il mento. Lei non trattenne un moto di vergogna, e voltò di scatto il viso, “avrai un premio per i servigi... Vediamo un po'... Anni di onorato servizio alla causa dello Splendente; sì, questo ti va a favore. Oh”, fece con incredibile teatralità, “ma hai cercato di far scomunicare un fidato e ossequioso chierico di Pelor! Oh, cara, questo ti va decisamente a sfavore... Quindi, credo che il tuo premio sarà”, annusò l'aria, come se volesse far intendere ciò che disse pochi secondi dopo, “la compagnia coi ratti. La prigione”. Disse con una calma ineccepibile. Una goccia di sudore freddo le percorse la fronte, che evaporò non appena giunse all'angolo dell'occhio. Voleva urlare, voleva scappare via da quell'incubo. Aveva gli occhi sbarrati, i pensieri che vorticavano velocissimi, incastrandosi e dibattendosi tra di loro. Riconobbe a fatica il tragitto lungo il quale le due guardie la portarono giù nelle carceri, immersa come era in quella pseudo-follia. Passarono diversi giorni prima che tornasse in sé. Aveva ormai familiarizzato con quella stanza larga tre metri, senza finestre, con delle sbarre robuste incastrate nel soffitto. I pensieri ora scorrevano sì impetuosi, ma seguivano un filo logico, non si ingombravano. Una domanda però continuava a roderle la mente: perchè lei, fedele paladina dello Splendente, ora si trovava in quella cella? Come poteva il suo dio permettere tale atrocità? Lei aveva solo cercato di difendere la sua integrità, la sua dignità. Questo era il prezzo; la compagnia dei ratti. A un certo punto, credette quasi di sentirli parlare, quei roditori. Non ci fece caso, diede la colpa alla follia che, lo sapeva, si stava impadronendo del suo cervello. Ma quelle voci... Quella voce... Non poteva essere solo un'allucinazione... La sentiva a volte provenire dall'esterno, a volte dalle mura, a volte credeva quasi che la avesse dentro di sé. Pensò seriamente al suicidio; ma si trattenne, ormai attratta da quella voce che malignamente si faceva viva e poi spariva. Una notte, conobbe finalmente la fonte di quella magia. Si fermò, respirando a lungo l'aria fresca e pungente dell'alba. Ormai il sole aveva fatto capolino su ad Est, e le ombre pian piano si accorciavano e lasciavano spazio alla luce. Si decise a sedersi all'ombra di un salice, e fece colazione con del pane raffermo e delle noci. Poi chiuse gli occhi, e lasciò fluire i ricordi. Le si presentò davanti all'improvviso, mentre consumava i resti della sua parca cena. Rimase sconvolta all'inizio, e di istinto portò la mano al collo, alla ricerca del suo simbolo sacro. Non lo trovò, e cominciò ad arretrare verso il muro, mentre qualcosa che somigliava ad una bocca fumante ondeggiava a mezz'aria davanti a lei. “Non aver paura... Non voglio spaventarti... Voglio solo parlarti...” Lei cominciò a pronunciare alcune parole del rituale, e quell'immagine, fugace come era apparsa, sparì. Il sudore le imperlava la fronte, aveva il battito accelerato e un fuoco che le bruciava dentro. Si domandava chi, o cosa fosse. Ma soprattutto, cosa volesse da lei. Quell'essere si fece vivo più volte nel corso di quei giorni, e se alle prime volte lei si ritraeva, e lo scacciava, in seguito cominciò ad aspettare alcune sue parole, alcune sue frasi, giusto, si diceva, per capire quali fossero le sue intenzioni. Non passò molto tempo prima che l'essere immondo divenne il suo compagno di discorsi. Più volte pensò che fosse il frutto della sua mente ormai divelta, e accettava questa cosa di buon grado, pensando che almeno non sarebbe morta in solitudine. Poi, però, una sera quel demone le fece una proposta. Una allettante proposta, pensò. Le disse che aveva molto potere, anche troppo, e che forse avrebbe accettato di donarne una parte a lei, perchè sentiva giusto il suo bisogno di vendetta. Lei prima rifiutò decisamente, sostenendo che non era la vendetta ciò a cui lei aspirava; il demone però controbattè che il suo appellarsi al gerofante altro non era se non una vendetta, una vendetta vestita con una maschera di squisita onestà morale. Continuò a non cedere, e il demone le insinuò che era inutile continuare ad aspettare un segno dal suo dio, visto che in tutto questo tempo l'aveva vista prima stuprata da un suo chierico, poi tradita da un suo gerofante, e infine gettata come la più lurida teppista dei bassifondi nelle carceri, e non aveva fatto nulla per salvarla. A queste parole, il suo animo squassato dovette per forza accettare quella realtà. Cosa poteva davvero sperare, ora, a qualche decina di metri nelle profondità di un carcere, lasciata sola a sé stessa? Chiese con curiosità cosa volesse in cambio delle sue opere. La risposta fu sibillina: “Non ti curare di ciò che non sarà mai un ostacolo per te, i tuoi pensieri devono dedicarsi ai pericoli, non agli ausilî”. Chiese allora cosa dovesse fare per liberarsi da quella prigione. La risposta fu altrettanto semplice: “Apri la porta”. Si alzò piano, timorosa. Si strinse addosso gli stracci, tirò indietro i lunghi capelli neri, e s'avviò verso la porta. Non appena il suo palmo toccò la serratura della porta di ferro, si sentì uno schiocco, come di una noce schiacciata. La porta, si apriva... Diede un'occhiata furtiva nel corridoio. Nessuno era di ronda a quest'ora. Si voltò all'indietro, cercando quella bocca misteriosa, ma non la trovò. Si domandò cosa dovesse fare, e di nuovo quella voce le apparve nella testa. “Non fermarti... Sali su...” Salì al piano superiore, dove c'erano alcune guardie sedute ad un tavolo, che russavano fragorosamente. Si fece prendere dallo sconforto, e tentò di tornare nella sua cella. Ma quella voce di nuovo la bloccò: “Non aver paura... Basta voler essere invisibili, e lo diventerai”. Il cuore batteva all'impazzata nel suo petto, ma alla fine si convinse a provarci. D'altronde, se aveva creduto possibile scassinare una serratura col solo tocco, questo non sarebbe stato altresì difficile. Si concentrò, e notò un alone che si formava attorno a lei, come una foschia, ma più tenebrosa ed oscura. Con passo felpato passò a pochi metri di distanza dai militi, i quali, per tutta risposta, continuarono ad emettere fragorosi grugniti. Raggiunta la scala, la nebbia sparì. Stavolta la voce l'anticipò: “Fidati di me...” Usò lo stesso trucco per sgattaiolare nell'orinatoio al piano terra, dove un paio di dozzine di guardie si davano il loro daffare per passare il tempo; alcuni giocavano ai dadi, altri bevevano boccali di birra, altri ancora dormivano appoggiati a sedie e tavoli. Forzò la finestra, ed uscì fuori. L'aria fresca e umida della notte le entrava nei polmoni, e non potè fare a meno di sentirsi davvero bene. I suoi occhi si volsero poi all'altro lato del cortile, dove si ergevano gli appartamenti del clero di Pelor. Si domandò se stesse davvero facendo la cosa giusta; il suo dio non l'avrebbe mai perdonata. Ma allo stesso tempo, pensò, il suo dio non l'aveva nemmeno mai aiutata nel suo travaglio degli ultimi tempi. No, pensò, ora sono sola. E se non mi è stata data giustizia, l'avrò e la prenderò da sola. Si mosse veloce verso il convento, i piedi nudi che non sentivano per niente la fredda pietra. Entrò da una porta laterale, un ingresso che lei conosceva bene, e si trovò in breve tempo sulla scala a pioli che conduceva ai piani superiori, dove erano situate le camere di Devonius. A passi felpati giunse fino alla porta d'ingresso, dove due guardie erano appostate sugli attenti. E all'improvviso sentì il bisogno, stavolta potente, di quella voce rassicurante. Ed essa non tardò ad arrivare. “Non c'è bisogno che versino alcuna goccia di sangue. Tu, semplicemente, avvicinati, e toccali”. Come una marionetta, chiuse gli occhi e si lanciò con estrema tranquillità verso i due uomini. Essi rimasero alquanto sbigottiti al vedere una giovane ragazza vestita con stracci logori che camminava a passo spedito verso di loro; fecero per avvicinarsi, e rimasero ammaliati dal suo viso, così ammaliati da rimanere immobili fin quando ella non giunse al loro cospetto, e li carezzò dolcemente sulle guance. In pochi secondi, caddero al suolo privi di vita. Ora, tra lei il suo aguzzino non rimaneva che una porta... “Vai, io ti aspetterò qui”, sentì sussurrare all'orecchio. Di ciò che successe dopo serbava dei ricordi sconnessi. Era ancora seduta, appoggiata al tronco del salice, con gli occhi chiusi. Pensò che il sentimento di piacere che le montava nel corpo in quei momenti era troppo forte per lei, e non era ancora pronta a gustare i molteplici aspetti di esso. Ricordava con precisione solo il momento in cui affondò il simbolo dello Splendente nel petto dell'atterrito Devonius. Il resto, gli schizzi di sangue, le urla soffocate, i muscoli tesi fino allo spasimo, erano ombre colorate, disegnate su un quadro in movimento. Lampi di colore, di movimento, di emozioni. Questo era ciò che ricordava. E poi nulla più, fino alla sua fuga alla foresta attorno a quella che non sarebbe mai più stata la sua cittadella. Si sorprese a leccarsi le labbra. Era ancora vivo il ricordo di quegli istanti, e si meravigliò come ogni volta che vi rivolgeva la mente, provasse quella sensazione di piacere e assuefazione. Aprì poi gli occhi, e vide al di là del fiume un gruppo di cervi che s'abbeverava. “Bene”, pensò, “avevo giusto voglia di carne fresca, quest'oggi”.
    1 punto
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