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Spendere se stessi nella trappola dei costi irrecuperabili


FeAnPi

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Una piccola riflessione, che ho sentito meritevole di un post sul blog, sulla sottile linea che corre fra illusione e tenacia.

Conosco questo effetto, conosco questa situazione – ci sono passato tante volte, in effetti. Come tutti.

La sapiente scienza economica, l'arte del consumare capitali per non bruciare il profitto, ha trovato un nome per la situazione che vivo e che noi tutti viviamo o abbiamo vissuto, più o meno inconsapevoli, tante volte. È la trappola dei costi irrecuperabili, il baratro in cui precipiti quando pur avendo puntato su un investimento fallimentare continui a buttarvi denaro non potendo accettare di aver sperperato il capitale iniziale. Trappola dei costi irrecuperabili appunto, ché per quanto tu ci investa mai ti sarà possibile trasformare in business remunerativo un tale fallimento; continuerai anzi a dissipare le tue risorse, sprecandole per trasformare un buco nero nel tuo personale e irrealizzabile Eldorado. Più tardi accetterai la situazione in cui ti trovi, maggiori saranno le perdite sofferte prima di uscire dalla trappola dove troppo a lungo hai indugiato credendola un fertile bacio d'amante.

Un fertile bacio d'amante, già.

Ovviamente, l'essere consapevoli di questo rischio non deve essere, né di certo è per gli economisti, un verghiano invito a non tentare l'intentato crogiolandosi nell'ineluttabilità dell'immobilismo; è semmai un monito a saper distinguere l'investimento su cui bisogna insistere da quello che allo stato attuale delle cose è un puro e semplice spreco. E qui si nasconde l'illusione, la trappola dentro la trappola: perché è facile, dannatamente facile convincersi che i tempi stiano maturando, che le cose stiano cambiando e che presto la tendenza si invertirà, che basterà tener duro per ancora qualche tempo in modo da poter finalmente arrivare a cogliere quei frutti dolci e succosi che a lungo sono stati sognati, quei frutti sodi ora acerbi che secondo disfattisti e malelingue non matureranno mai.

Ma quanto, quanto a lungo l'illusione può confondere e ingannare la logica? Verrà prima o poi il momento in cui anche il più inarrendevole dei sognatori dovrà accettare l'irrealtà della propria chimera – o no? O non la finirà piuttosto come la più comica delle macchiette, quel vecchio tutto pelle e ossa con la barba incolta e il cappello a tese decisamente troppo larghe, quel vecchio minatore che in ogni western si ostina ancora a scavare nella propria concessione certo di avvicinarsi ogni giorno di più alla proverbiale vena d'oro?

C'è qualcosa che affascina nella figura del vecchio scavaterra: la sua tenacia, la sua fiducia nei frutti salvifici della fatica ostinata sono indubbiamente esempi da seguire, nessuno vorrebbe gettare la spugna e la piccozza a trenta centimetri dalla vena d'oro. Ma se non vi fosse invece alcun tesoro da portare alla luce? L'ostinazione del minatore diventerebbe allora risibile, ogni virtù positiva trasfigurata nel suo essere latrice di fatica inutile e speranze mal riposte. Il vero dramma del nostro vecchio è che lui non può mai sapere come andrà a finire, se vi sia davvero dell'oro nel suo terreno o se egli stia invece dando la caccia ai luccicanti riflessi di un sogno irrealizzabile.

Lui, come tutte le macchiette stereotipate, non cambierà mai: continuerà a cavar roccia dalla terra, poiché quello è il suo unico ruolo nell'economia del racconto. Ma noi? Quanto ci mettiamo noi ad accorgerci che l'oro non si trova lì, che mai quei frutti matureranno e mai potremo coglierli per suggerne il dolce nettare, quanto ci metterò io ad accorgermene?

A livello razionale, in realtà, lo so già da tempo; da tempo avrei dovuto cogliere una pietra tombale dalla mia cava delle disillusioni per mettervela sopra. E l'ho fatto in effetti, l'ho fatto diverse volte. Ma non è mai morto ciò che soggiace in eterno nei nostri sogni, e in particolari momenti si può scordare anche ciò che diamo per assordato.

Perché la speranza, in profondità, cova sempre; perché dopotutto quello a cui aspiravamo ieri continua a essere una delle nostre aspirazioni dell'oggi. Perché ci diciamo che magari la nostra vena d'oro è proprio lì, stavolta le piogge e il tempo hanno eroso il terreno e magari basterà una picconata, massimo due, per farla venire alla luce; e anche se oggi non trovassimo niente, ogni colpo in più sarà pur sempre un colpo in meno da dare per raggiungere finalmente quel tesoro tanto agognato dal nostro cuore. Abbiamo faticato così tanto, certo il da fare è ormai poca cosa rispetto a quanto l'ha preceduto; abbiamo investito così tanto, certo i costi che dobbiamo affrontare ora sono nulla rispetto al già speso, quei costi irrecuperabili che verrebbero irrimediabilmente persi se ci arrendessimo proprio ora.

E ci sforziamo di ignorare quel tarlo che rode il sogno, quel pensiero disilluso che ci spinge brutalmente ad accettare una realtà sgradevole: se tanto abbiamo già fatto, se tanto abbiamo già faticato senza ottenere nulla è probabile che non ci sia proprio niente da ottenere. I nostri sforzi fino ad ora sono stati vani, poiché cercavamo l'oro dove non c'è che fango, perché aspettavamo che maturassero i frutti d'una pianta sterile e rinsecchita. Non troveremo nulla, non ci sarà nessun coronamento dei nostri sforzi: il tempo e le energie impiegati sono stati sprecati, la nostra tenacia risibile ostinazione d'un pazzo visionario.

È stato tutto inutile, non potrò mai rivivere gli attimi dei giorni che ho trascorso a cercare il nulla, non potrò mai decidere di annullare quel che ho compiuto.

Ma possiamo decidere di uscire dalla trappola, possiamo decidere di accettare d'aver perso quel che è andato sprecato, possiamo decidere di porre un sigillo definitivo a quel capitolo della nostra esistenza – e andare oltre. Non è una resa, non si tratta di gettare la spugna: si tratta di comprendere con umiltà che non sarà la nostra ostinatezza da sola a rendere possibile l'impossibile, si tratta di rinunciare alle illusioni per abbracciare nuovi sogni.

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